giovedì 30 aprile 2020

Quid est veritas?

Possiamo giocare a nascondino quanto vogliamo, ma prima o poi verrà il giorno che, anche per puro caso (ma io credo che il caso non esista), ci verremo a trovare davanti a uno specchio (puramente ideale) e stenteremo a riconoscerci. Allora ci chiederemo: ma io chi sono veramente? E quella domanda, così semplice e spontanea, se ne porterà appresso tante altre: chi è veramente quella persona che mi appare in questo o in quel modo? Qual è il mio vero scopo nella vita? Qual è la vera natura della realtà che mi circonda? Qual è la verità del mondo, della vita... E poi la folgorazione: ma che cos'è la verità?
E' una domanda - ahimè - destinata a rimanere senza risposta, se è vero che ad essa non rispose nemmeno Gesù Cristo.
Nel Vangelo di Giovanni (XVIII, 37-38) durante l'interrogatorio avviene questo scambio di battute:

[37] εἶπεν οὖν αὐτῷ ὁ Πιλᾶτος, Οὐκοῦν βασιλεὺς εἶ σύ; ἀπεκρίθη ὁ Ἰησοῦς, Σὺ λέγεις ὅτι βασιλεύς εἰμι. ἐγὼ εἰς τοῦτο γεγέννημαι καὶ εἰς τοῦτο ἐλήλυθα εἰς τὸν κόσμον, ἵνα μαρτυρήσω τῇ ἀληθείᾳ· πᾶς ὁ ὢν ἐκ τῆς ἀληθείας ἀκούει μου τῆς φωνῆς.
[38] λέγει αὐτῷ ὁ Πιλᾶτος, Τί ἐστιν ἀλήθεια; Καὶ τοῦτο εἰπὼν πάλιν ἐξῆλθεν πρὸς τοὺς Ἰουδαίους, [2] καὶ λέγει αὐτοῖς, Ἐγὼ οὐδεμίαν εὑρίσκω ἐν αὐτῷ αἰτίαν.
 
[37] Quindi Pilato gli disse: "Dunque tu sei re?" Gesù gli rispose: "Tu dici che io sono re. Io per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo, per rendere testimonianza alla verità; chiunque proviene dalla verità ascolta la mia voce."
[38] Pilato gli dice: "Che cos'è la verità?" E dopo aver detto questo, di nuovo andò dai Giudei e dice a loro: "Io non trovo in lui alcuna colpa."


La domanda di Pilato, a cui Gesù non risponde, nella traduzione latina della Vulgata di S. Girolamo suona così: "Quid est veritas?", che è la traduzione letterale di "ti estin aletheia?" del versetto 38. I quattro Vangeli sono stati scritti in greco, però è ovvio che i vari dialoghi nella realtà non sono stati pronunciati in greco, ma nella lingua del luogo. Anche il botta e risposta tra Pilato e Gesù non è davvero avvenuto in greco: forse Pilato può anche aver parlato in latino e un interprete può aver tradotto le sue parole a Gesù, ma in ogni caso le domande rivolte dal procuratore romano a Gesù gli sono nate nella mente in latino e poi lui le ha tradotte, per pronunciarle di persona, o se le è fatte tradurre. Quindi anche se la domanda "Quid est veritas?" non è stata pronunciata espressamente in latino, è così che si è presentata alla mente di Pilato.
Bene. Perché Gesù non si è degnato di rispondere a questa domanda, formulata da Pilato forse con una venatura di ironico scetticismo? 
Perché la risposta è già contenuta nella domanda: se noi anagrammiamo le tre parole "quid est veritas", ne otteniamo altre quattro: "est vir qui adest", che significano "è l'uomo che è presente", ossia "è l'uomo che ti sta davanti".
Possiamo pensare che sia una semplice coincidenza casuale, possibile solo nel testo latino ma non in quello greco, però la cosa fa riflettere...

mercoledì 29 aprile 2020

Ubi tu Gaius, ego Gaia

Nuptiae sunt coniunctio maris et feminae, consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio.
Il matrimonio è l'unione dell'uomo e della donna, la condivisione di tutta la vita, l'accordo tra il diritto divino e quello umano.
Queste belle parole, con cui viene definito il matrimonio, non sono state pronunciate da un sacerdote in un corso di preparazione alle nozze né si trovano scritte nel Codice di diritto canonico o nel manuale di Catechismo, ma esprimono il pensiero di Elio Floriano Erennio Modestino (III sec d. C.), uno dei più illustri giureconsulti romani: basti pensare che nel famoso Digesto di Giustiniamo sono citati centinaia di passi tratti dalle sue opere.
Per quale motivo io, un letterato, ho riportato quel brano giuridico?
E' presto detto. Il 29 aprile di trentasei anni fa - era il 1984 - nella basilica romana di S. Marco, adiacente a piazza Venezia, ho sposato Rosalba, da me poi trasfigurata in Ablasor, la protagonista di quasi tutti i miei romanzi.
Perciò in questa lieta ricorrenza ho voluto commemorare quel giorno con una citazione, ovviamente in latino, profonda e molto calzante.
Infiniti auguri di ogni bene, piccola Ablasor!

lunedì 27 aprile 2020

Mens sana in corpore sano


Questo modo di dire ci è molto familiare, perché viene ripetuto tante volte ogni giorno, non solo, ma è anche scritto in manifesti e cartelloni esposti all'interno di tante palestre, quasi sempre, però, con l'intendimento di esprimere un concetto che non ha nulla a che vedere con il significato originario, quello - per intenderci - che gli ha attribuito il poeta latino Decimo Giunio Giovenale nel verso 356 della sua decima satira. Già, perché questa è una frase d'autore e tutti quelli che la citano, anche se il più delle volte a sproposito, coscientemente o no testimoniano l'incontestabile longevità del latino e la sua non ancora cancellata attualità. Soffermiamoci, adesso, ad esaminare il messaggio frutto di fraintendimento e poi il significato autentico. Quasi tutti coloro che citano queste parole vogliono affermare che se il corpo è sano, di conseguenza è sana anche la mente. Quindi, la conclusione sarebbe: fate attività fisica, perché oltre al corpo ne beneficerà anche la mente. No! Le cose non stanno così. Per comprendere il vero significato di questa espressione, è necessario contestualizzarla, perché estrapolata dalla satira, di cui fa parte, si presta a dire tutto e il contrario di tutto. Nella sua decima satira Giovenale vuole mettere in evidenza la vanità, l'inconsistenza e, in molti casi, l'assoluta perniciosità, dei desideri umani. Ma che cosa desiderano gli uomini? Che cosa chiedono agli dei nelle loro preghiere? Le ricchezze, il potere, la fama, la gloria militare, una lunga vita, la bellezza. Ciascuno di questi, che appaiono comunemente come i beni più augurabili della vita, hanno, però, i loro inconvenienti, perché o attirano l'invidia e la malvagità degli altri, con l'ovvio risultato di conseguenze nefaste, o, nel migliore dei casi, non mettono l'uomo al riparo dall'azione logorante e demolitrice del tempo o dagli imprevisti più spiacevoli, come può capitare in una lunga vita che è destinata a degenerare nella vecchiaia. E dunque? Che cosa chiedere agli dei? Lasciamo che a rispondere sia Giovenale in persona (Satira X, vv. 346 - 366): 


"Dunque gli uomini non potranno desiderare nulla? Se vuoi un consiglio, lascerai agli dei la facoltà di decidere da soli che cosa vada bene a noi e sia utile alle nostre necessità; infatti, al posto delle cose piacevoli gli dei ci daranno tutte le cose più appropriate. L'uomo è più caro a loro che a sé stesso. Noi, spinti dall'impulso dei sentimenti e da una cieca e grande passione, desideriamo il matrimonio e il parto di nostra moglie, ma solo a loro è noto come saranno i nostri figli e quale è destinata ad essere la nostra sposa. Tuttavia, affinché tu possa chiedere qualche cosa e offrire in voto sugli altari le viscere e le divine salsicce di un bianco porcellino, bisogna pregare di avere una mente sana in un corpo sano. Chiedi un animo forte, che non abbia paura della morte, che consideri la lunghezza della vita come l'ultimo tra i doni della natura, che sia in grado di sopportare qualunque tribolazione, non sappia adirarsi, non brami nulla e consideri preferibili gli affanni di Ercole e le sue terribili fatiche alla lussuria, alle cene e alle mollezze di Sardanapalo. Ti suggerisco quello che ti puoi dare da solo; l'unico sentiero di una vita tranquilla si apre certamente attraverso la via della virtù. O Fortuna, non hai nessun potere divino, se c'è la saggezza: siamo noi, siamo noi, che ti facciamo dea e ti collochiamo in cielo".


Pertanto, dalla lettura di questo brano risulta chiaramente che la mente sana e il corpo sano sono due realtà ben distinte, che l'uomo deve chiedere agli dei nelle sue preghiere e non che l'una sia la conseguenza dell'altro. Abbiamo imparato qualche cosa di nuovo, ma - ed è la cosa più importante - abbiamo avuto l'occasione di leggere (o rileggere) uno dei passi più significativi del grande poeta satirico Giovenale.

giovedì 23 aprile 2020

Evocare i morti...

Ho aperto questo blog con l'intenzione di dedicarmi alla negromanzia o, se preferite, allo spiritismo. No, non vi preoccupate: non voglio dilettarmi di apparizioni spettrali dalla voce cavernosa, né circondarmi di fantasmi dai lenzuoli svolazzanti, né far muovere sedie e sbattere porte, che non siano state sfiorate da anima viva (mai aggettivo fu più azzeccato di questo...). Voglio tornare a dar voce a una lingua morta, così come viene definito il latino da chi non lo conosce o da chi presume di conoscerlo per averne sentito parlare o, magari, l'ha anche studiato sul serio (si fa per dire), quando ai bei tempi della sua scuola alternava il 4-3-3 al 4-2-4 o, magari al 3-5-2, che non sono gli schemi di gioco della strategia calcistica, come potrebbe pensare qualcuno, ma i voti che segnavano il suo percorso scolastico nel faticoso e mai completato avvicinamento alla comprensione del latino.
Dare voce al latino. Come e perché? mi chiederete.
Cominciamo dal perché. Il latino, come tutte le lingue, è un mezzo, non un fine. E' il veicolo attraverso cui è giunto fino a noi un tesoro... vi sembra una parola eccessiva? va bene, cambio: un bagaglio di idee e sentimenti, che sono stati vivi e frementi per tanti secoli, che hanno animato la vita di tante persone - come noi - che ce li hanno lasciati in eredità. Non tutto è oro fino, siamo d'accordo: c'è pure molto piombo, stagno e ottone, e non c'è alcun valido motivo per spacciare per meraviglioso e miracoloso quello che è in molti casi appena appena decente; ma vale anche il contrario: se rifiuto la chincaglieria e la bigiotteria, non ricavo alcun vantaggio dal rifiutare anche l'oro e l'argento, altrimenti corro il rischio (ma è una certezza!) di buttare via l'acqua sporca della vaschetta con tutto il bimbo dentro.
D'altronde, i testi latini, che sono giunti fino a noi, hanno già subìto una prima scrematura, perché nel corso dei secoli sono stati letti e riletti, e quindi copiati e ricopiati, solo quelli che veramente meritavano, quelli che, secondo tante generazioni di studiosi, erano veramente in grado di arricchire la mente e di confortare il cuore: e se in mezzo a tanti tesori (sì, adesso lo dico!) c'è arrivato pure un po' di ciarpame, la cosa non mi disturba né tanto né poco, perché mi basta metterlo da parte e concentrarmi su ciò che vale. E vale davvero molto, dato che io sto parlando delle fondamenta della civiltà occidentale, delle nostre radici, un insieme composito di tradizioni, religioni, teorie filosofiche, vicende storico/politiche, testi di altissima poesia: epica, lirica, drammatica, trattati storiografici, un impasto di riflessioni sulla vita e sulla morte, sull'amore e sull'odio, sul giusto e sull'ingiusto, in due parole: sul bene e sul male, che non finiranno mai di stupirci, di farci sorridere, di commuoverci, di esaltarci, di prospettarci una vita più umana e un futuro migliore.
Riguardo al "come", non ho alcuna intenzione di proporre l'obbligatorietà dello studio del latino nelle scuole a partire dalle elementari fino all'esame di maturità: lo studio del latino, come d'altra parte quello del greco, dovrebbe essere il frutto di una scelta volontaria, che, ovviamente, presuppone una conoscenza, pur se molto approssimativa, del proprio oggetto. Sarebbe già molto se negli ultimi due anni delle scuole elementari e ancor di più nella scuola media inferiore si proponesse (seriamente) la conoscenza della cultura latina, si facessero leggere in traduzione italiana le più belle pagine, e ce ne sono tante, dei migliori autori della latinità. Chi ne fosse attratto, chi ne subisse il fascino potrebbe decidere consapevolmente di iscriversi al liceo classico, per iniziare lo studio approfondito di quel mondo antico, studio che ha come punto di partenza l'acquisizione grammaticale e sintattica della lingua latina, che allora veniva parlata e scritta. Oggi fa ridere - e giustamente - chi pretenda di parlare in latino: non serve a niente usare una lingua artificiale ed essere costretti a lunghe perifrasi, per indicare oggetti e concetti inesistenti nell'antichità e, quindi, privi di parole in grado di esprimerli. Il latino deve essere studiato per leggere i testi scritti dai nostri padri antichi, per poter attraverso di esso penetrare nel loro mondo concettuale e sentimentale.
E dunque? Che cosa mi ripropongo di fare? Voglio dimostrare che, malgrado tutto, il latino viene ancora usato in tante citazioni, il più delle volte fatte a sproposito, ma anche in tanti vocaboli della tecnologia: insomma, voglio renderlo simpatico e "a portata di mano", prendendomi gioco di tutti gli stolidi e ridicoli tentativi di ridimensionarlo o, addirittura, di demonizzarlo. Non seguirò uno schema preciso, ma il puro divertimento: spero che si divertano anche i lettori.
A condizione che ce ne sia qualcuno...
                                                                            Il vostro Ollecram   

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Questo motto latino, tuttora molto usato, significa: affréttati lentamente, e pare che fosse pronunciato spesso dall'imperatore Augusto,...