lunedì 11 maggio 2020

Lucrezio e i suoi alieni

L'esistenza o meno degli alieni è un argomento che va molto di moda e con il passare del tempo è diventato quasi lo spartiacque tra chi vuole ostentare la propria autodichiarata apertura mentale e chi si accontenta di restare ancorato alle più modeste, ma più concrete, coordinate spazio – temporali dell'hic et nunc (= qui e ora), tanto per restare fedeli all'impostazione latinofila del blog. Sul momento, però, vorrei lasciare da parte l'eventuale soluzione di questo controverso dilemma e soffermarmi a commentare il vocabolo alieno, una parola latina, tale e quale.
Alienus-aliena-alienum è un normale aggettivo della prima classe, che, originatosi da alius-alia-aliud (= altro), significa: altrui, appartenente ad altri, estraneo. Da esso derivano le forme verbali alienare, alienatus e il sostantivo alienatio, tutti vocaboli che hanno l'equivalente trasposizione in italiano. Infatti sono di uso comune le corrispondenti parole “alienare” e “alienato”, nel senso di togliere a qualcuno la proprietà di un bene e di passarlo a un altro, o di riferirsi a qualcuno che non è più padrone di sé, come se si fosse estraniato da sé. Ma nell'ambito di questa famiglia lessicale la parola italiana più impiegata è senz'altro: alienazione, il cui uso è frequente nel campo giuridico, filosofico, economico-sociale e clinico-psichiatrico. Nel campo giuridico si intende il trasferimento a un altro di un proprio bene o diritto; in quello filosofico equivale a sottrarre all'uomo ciò che è costitutivo e peculiare della natura umana, come – secondo Rousseau – la libertà; in chiave economico-sociale, invece, Marx chiama alienazione il fatto che il capitale, prodotto dal lavoro, assoggetta ciò da cui deriva – appunto il lavoro – costringendo il lavoratore a cedere la propria forza-lavoro in cambio di un salario, che gli garantisca il livello minimo di sopravvivenza; da un punto di vista clinico indica la perdita delle proprie facoltà mentali; in senso etico-pragmatico, nell'attuale crisi del mondo moderno – la tecnologica società dei consumi – il termine alienazione è usato per evidenziare il processo di degradazione spirituale, che porta a un'involuzione dei valori morali, per cui l'individuo rinuncia a riconoscersi come coscienza pensante, cioè a essere, preferendo l'ottusa autorealizzazione nell'avere.
Pertanto, la parola latina alienus e tutti i suoi derivati ne hanno fatta di strada, per arrivare a mettere le radici nel nostro modo di vivere e di pensare e ad illuminarlo con i loro riflessi!
Ma ritorniamo al discorso sugli alieni, parola che ormai è diventata il sinonimo di extraterrestri, in quanto provenienti da un “altro” pianeta, su cui vivono.
L'idea che esistano gli alieni non l'abbiamo inventata noi moderni, quindi non è ascrivibile alle nostre più progredite conoscenze scientifiche, ma risale almeno a 25 secoli fa, dato che ne parlava già il filosofo Metrodoro di Chio (vissuto tra il V e il IV secolo a. C.), discepolo dell'atomista Democrito. Egli sosteneva l'esistenza di un universo infinito, popolato da infiniti mondi, come poi sosterrà pure Epicuro (IV – III secolo a. C.) e il suo seguace latino Tito Lucrezio Caro (I secolo a. C.). Voglio farvi leggere ciò che questi ne scrive più di duemila anni fa.
Nel suo poema didascalico De rerum natura (= La natura delle cose), in cui espone la filosofia epicurea, lo scrittore latino esprime la convinzione certa che la Terra non sia il solo pianeta abitato nell'universo. Nel II libro (vv. 1067 – 1080) dice così:

Inoltre, dato che c'è a disposizione molta materia, dato che lo spazio è a portata di mano, né alcuna cosa né alcuna causa fanno da ostacolo, è naturale che le cose debbano compiersi e realizzarsi. Ora se c'è un così grande numero di atomi, quanto non potrebbe contare l'intera vita di un essere vivente, e restano identiche la forza e la natura, che possano aggregare nei diversi luoghi gli elementi primordiali delle cose nello stesso modo in cui sono stati aggregati qui [cioè: in questo mondo], è necessario ammettere che in altre parti dello spazio esistano altri mondi e diverse razze di uomini e stirpi di animali. A ciò si deve aggiungere il fatto che nell'universo non c'è una sola cosa che sia prodotta unica e che cresca unica e sola, senza che appartenga a qualche stirpe e che ce ne siano moltissime della stessa specie.

In un passo del V libro (vv. 1308 – 1349), in cui parla di tutt'altro, egli torna a ribadire questa sua convinzione, per giustificare la validità di un'ipotesi alquanto stravagante.
Illustrando le faticose tappe del progresso, il poeta parla della scoperta e della lavorazione dei metalli, che contribuirono a migliorare le condizioni di vita. Il ferro servì per forgiare strumenti agricoli, che permisero di lavorare meglio la terra, ma, d'altro canto, pure a costruire armi sempre più sofisticate ed efficienti da usare in guerra. A questo riguardo Lucrezio aggiunge che, per terrorizzare meglio i nemici, gli uomini giunsero al punto di utilizzare in battaglia bestie feroci: leoni, cinghiali e tori. Ma esse, malgrado fossero guidate dai loro domatori, eccitate dal tumulto e dallo spargimento di sangue, si rivoltarono contro le loro stesse schiere, facendo strage nei due eserciti contrapposti. Il poeta si sofferma con orrore sullo spettacolo terrificante delle belve, che straziano i corpi dei combattenti con i morsi, con gli artigli e con le corna.
Poi, riflettendo su una simile scelta così assurda, di cui nessuno aveva ipotizzato le possibili disastrose conseguenze, Lucrezio è colto da un dubbio (vv. 1341 – 1349):

Se accadde davvero che facessero una cosa del genere. Ma a stento mi induco a pensare che, prima che si verificasse una tale rovina, comune a entrambe le parti e orribile, non abbiano potuto prevedere e immaginare ciò che sarebbe accaduto; e si potrebbe pensare che questo è avvenuto da qualche parte dell'universo, nei diversi mondi formatisi in maniera diversa, piuttosto che in qualche regione precisa [sottinteso: del nostro mondo]. Ma vollero fare ciò con la speranza non tanto di vincere, quanto di procurare ai nemici un motivo di sofferenza e a se stessi di morire, dato che non potevano confidare in una superiorità numerica ed erano privi di altre armi.

Da notare la bizzarria dell'osservazione finale, con cui il poeta vuole dare una spiegazione ragionevole di un comportamento ritenuto assurdo nelle prime righe e, per di più, di un comportamento, che egli ha appena escluso fosse caratteristico di esseri umani, in quanto riguardante gli abitanti di un altro pianeta.
Il rapporto tra Lucrezio e gli alieni può essere inquadrato, però, anche da un altro punto di vista, quello teologico. Come tutti gli epicurei, egli crede nell'esistenza degli dei, ma non crede che essi si interessino degli uomini. Lasciamo che ce lo dica lui stesso (De rerum natura, I, 44 – 49):

è necessario che ogni natura divina goda in sé e per sé dell'immortalità unita alla pace più profonda, distante e ben lontana dai nostri problemi. Infatti, libera da ogni dolore, priva di pericoli, ricca delle proprie risorse, bisognosa di nulla di nostro, né si lascia conquistare dalle buone azioni, né è sfiorata dall'ira.

Secondo la filosofia epicurea gli dei vivrebbero negli intermundia, cioè negli spazi interstellari, il che non vuol dire che volteggiano nello spazio, perché hanno delle sedi concrete e ben specifiche, che il poeta descrive succintamente, ma a tinte vivaci, ispirandosi ad alcuni versi dell'Odissea di Omero (De rerum natura, III, 18 – 24):

Appaiono la maestà degli dei e le loro sedi beate, che né scuotono i venti né le nuvole bagnano con le loro piogge né, cadendo bianca, tocca la neve, condensatasi per il gelo pungente, ma le copre sempre un cielo sereno e sorride con una luce diffusa per ampio tratto. Inoltre la natura fornisce di sua iniziativa ogni cosa né alcuna cosa turba in nessun tempo la pace dell'animo.

Nel V libro Lucrezio spiega perché non si possa negare l'esistenza degli dei, fondata sull'esperienza diretta degli antichi (vv. 1169 – 1174):

Perché, infatti, già allora le generazioni dei mortali vedevano durante la veglia, ma di più nei sogni, splendide immagini divine dalla straordinaria grandezza fisica. A loro, dunque, attribuivano la sensibilità, per il fatto che era evidente che muovessero le membra e pronunciassero parole superbe, proporzionate all'aspetto meraviglioso e alla forza vigorosa.

Se volessimo proporre un'interpretazione alquanto “creativa” di questi brani lucreziani, potremmo affermare che gli dei rappresentati dal poeta latino abbiano tutte le caratteristiche attribuibili agli “alieni”: esseri superiori dal punto di vista fisico e spirituale, che non hanno niente di sacrale, che vivono in qualche parte remota dell'universo e che ogni tanto vengono a farci visita, tanto è vero che gli antichi non si limitavano a sognarli, ma li vedevano pure da svegli... Incontri ravvicinati del terzo tipo?


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