sabato 2 maggio 2020

Intus et in cute

Il poeta satirico Aulo Persio Flacco di origine etrusca – era nato a Volterra nel 34 d. C. – è vissuto appena ventotto anni e per questo ci ha lasciato uno smilzo libretto contenente solo sei satire e altri quattordici versi, che ora vengono interpretati come loro prologo, ora come epilogo, ora come una composizione indipendente dalle altre sei. Nella terza satira descrive con tagliente sarcasmo un giovane, che si sveglia alle 11 di mattina dopo una notte di bagordi e trova mille scuse per rifiutarsi di studiare: dapprima chiama un servo, che tarda ad arrivare, facendolo andare su tutte le furie; poi, quando prova a svolgere dei compiti e deve scrivere qualcosa, si lagna che l'inchiostro è troppo denso; ma, se prova a diluirlo, quello risulta annacquato e sgocciola... Insomma, non fa altro che cercare pretesti per lamentarsi. Il poeta comincia a rimproverarlo, esortandolo a non sprecare nell'ignavia e nei divertimenti il tempo della giovinezza, in cui il suo carattere è ancora duttile e può essere più facilmente modellato e orientato verso l'acquisizione di solidi princìpi morali. Non deve cercare scuse, perché (gli dice il poeta al verso 30): “Ego te intus et in cute novi”, ossia “Io ti conosco internamente e sulla pelle (= dentro e fuori)”. Possiamo spiegare questa frase in due modi diversi: o nel senso che: io ti conosco completamente (appunto: dentro e fuori), o nel senso che: conosco la tua vera realtà interiore, che non corrisponde a come vorresti apparire esteriormente (appunto: sulla pelle), dunque non puoi ingannarmi.
Solitamente questa locuzione, introdotta da Persio e diventata di uso comune (naturalmente per chi conosce il latino), viene citata amputandone l'inizio e la fine e riducendola, quindi, a queste sole quattro parole: intus et in cute.

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