martedì 5 maggio 2020

Urbi et orbi

Tanti anni fa, quando ero più giovane - non che adesso non lo sia, ma allora lo ero un po' di più - a volte mi è capitato di trovarmi in piazza S. Pietro, mentre il papa impartiva la solenne benedizione Urbi et orbi, ossia "alla Città (di Roma) e al mondo". Si tratta di una forma particolare di benedizione - la più importante - che il sommo pontefice dispensa a tutti i fedeli della città (la città per eccellenza è Roma, l'Urbe) e del mondo intero in occasioni speciali: la propria elezione al soglio pontificio, il giorno di Natale e quello di Pasqua. Non ho intenzione di entrare in merito a problemi di interpretazione teologica di un simile atto: non ne sarei in grado e neppure m'interesserebbe provarci. Però, visto che è una locuzione latina, rientra a pieno titolo nelle mie competenze, nel mio campo d'azione, e, quindi, ne parlerò da latinista. Da un punto di vista retorico essa è definibile come paronomasia: no, non vi allarmate, non si tratta di una parolaccia, ma di un vocabolo derivato dal greco, che indica una figura retorica di suono, consistente nell'accostamento di due parole dal suono quasi uguale, per dare più risalto a una di esse o a tutte e due (per esempio e senza offesa per le gentili lettrici che mi onorano della loro attenzione, a cui chiedo preventivamente scusa: chi dice donna, dice danno). Le due parole sono urbs-urbis (città) e orbis-orbis (mondo). In latino i nomi, gli aggettivi e i pronomi si declinano, cioè modificano la parte finale, quella che viene chiamata desinenza, in base alla funzione logica e grammaticale che essi svolgono nella frase. Per cui, dicendo urbs-urbis, è come se dicessi: la città-della città. A questi due primi casi (nominativo e genitivo) segue il caso dativo, appunto urbi, che vuol dire "alla città", come orbi, vuol dire "al mondo". Chiedo scusa una seconda volta, ma a tutti i miei lettori, se ho appesantito il discorso con un riferimento alla grammatica latina, che a qualcuno sarà parso noioso. 
Per farmi perdonare, citerò alcuni versi tratti dal poemetto in distici elegiaci intitolato De reditu suo (= Il suo ritorno), composto da Rutilio Namaziano, l'ultimo vero poeta pagano della latinità. Era nato a Tolosa intorno alla metà del quarto secolo d. C., ma poi si era trasferito a Roma, dove aveva svolto una brillante carriera politica, arrivando a diventare addirittura praefectus urbi, prefetto urbano, una specie del nostro sindaco. Dopo il sacco di Roma del 410, compiuto dai Visigoti di Alarico, aveva ricevuto notizie preoccupanti riguardo ai suoi possedimenti in Gallia, attraversati dai Visigoti e sede di rivolte locali di schiavi e coloni: perciò aveva deciso di partire alla volta di Tolosa, per andare a controllare di persona. Aveva preferito fare il viaggio per mare con piccole imbarcazioni, per evitare le strade, battute da briganti e soldati sbandati. La sua era stata una navigazione costiera, punteggiata da tante tappe a terra: di essa ci dà conto nel suo poemetto, rimasto però interrotto all'inizio del II libro, che coincide con l'arrivo a Luni, antica città dell'Etruria ai confini con la Liguria. Non sappiamo né come sia arrivato a Tolosa, né se ci sia effettivamente arrivato. Ma la cosa più importante di Rutilio Namaziano è che, pur essendo nato in Gallia, era innamorato di Roma e, quindi, nel suo poemetto, mostra tutto il suo risentimento contro i barbari invasori, e contro gli ebrei e i cristiani che hanno snaturato e conculcato le originarie tradizioni culturali e religiose della latinità. Nel momento della partenza da Roma, all'inizio della via Portuense, che lo avrebbe portato fino al Porto di Augusto (l'odierna Fiumicino), dove si sarebbe imbarcato, egli innalza un lungo e vibrante inno a Roma, che contiene questi quattro versi ispirati: Hai dato una sola patria a popoli di stirpe diversa; per chi viveva senza leggi è stato un vantaggio essere conquistato dal tuo dominio e, mentre permettevi ai vinti di essere partecipi del tuo diritto, hai trasformato in una città quello che prima era un intero mondo (vv. 63-66). L'ultimo verso suona così: urbem fecisti quod prius orbis erat, in cui possiamo notare lo stesso gioco di parole, l'alternanza urbs-urbis / orbis-orbis, su cui mi sono soffermato a proposito della paronomasia iniziale.
Aggiungo un riferimento personale: ho usato questo poemetto come base di partenza per un mio romanzo, intitolato: La terra dell'ultima nebbia (2010), in cui ho aggiunto altri personaggi (specialmente la protagonista femminile), altre vicende e ho fatto proseguire il viaggio ben oltre Luni... Chi vuole saperne di più, può leggere la mia recensione, che tra breve inserirò nell'apposita pagina dedicata ai miei romanzi.      

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