sabato 19 novembre 2022

Due poeti latini

Il primo poeta latino, che ha suscitato potenti emozioni nel mio animo, è stato Tito Lucrezio Caro, quando ero ancora diciottenne nell'ultimo anno del Liceo classico. Ho detto “potenti emozioni”, perché prima di lui mi erano piaciuti, ma senza grandi entusiasmi, anche Catullo, Tibullo e Virgilio, mentre Orazio merita un discorso a parte.

Per tanti anni non ho osato approfondire lo studio di Lucrezio, perché lo consideravo un oggetto di venerazione e mi sarebbe sembrato di fargli un torto, di menomarlo in qualche modo, visto che nel corso di laurea in Lettere antiche, tranne l'intera Eneide di Virgilio, quattro opere di Seneca e il primo libro degli Annali di Tacito, i programmi di quegli anni non mi hanno offerto l'opportunità di affrontare la lettura di nessun altro dei grandi classici latini, tanto meno di Lucrezio, ma solo i frammenti dell'Atellana, dei mimografi, degli “Annales” di Ennio (una piacevole sorpresa!), il poemetto pseudovirgiliano Aetna e scritti minori di questo tipo. Perciò mi accontentavo di rimasticare quanto appreso in III Liceo tramite la lettura diretta dei suoi versi nella pregevole antologia lucreziana di Luciano Perelli, che tuttora conservo gelosamente in discrete condizioni. L'unica cosa che mi concessi fu di acquistare il saggio critico dello stesso Perelli: “Lucrezio poeta dell'angoscia”, per sviscerare meglio la sua suggestiva interpretazione lucreziana, ma senza voler aggiungerci nulla di mio. Poi con il passar del tempo ho cominciato a leggere – con grande fatica ma con altrettanto piacere – il testo integrale del “De rerum natura”, accompagnando la lettura con tante altre opere critiche e rendendomi conto che al povero Lucrezio ogni studioso faceva dire una cosa diversa e che veniva stiracchiato e distorto in ogni direzione, ora come un fiero ateo e materialista, ora come un inconsapevole cercatore di Dio, ora come un grigio e pedissequo discepolo di Epicuro senza alcuna originalità, ora come un fanatico ecologista, ora come un inguaribile nevrotico o addirittura psicotico, ora... Per non parlare di chi si è appropriato del suo pensiero, presentandone una ridicola traduzione in italiano senza neppure conoscere il latino, attirandosi addosso l'ovvia reminiscenza foscoliana, relativa a Vincenzo Monti, definito beffardamente “gran traduttor dei traduttor d'Omero”.

Dopo tanti anni di studio e d'insegnamento finalmente mi sono deciso a dire la mia, dedicandogli due libri: “Lucrezio e il canto del nulla” nel 2018 e “Al di là di Lucrezio” nel 2020. Se la mia età non più verde me lo consentirà, vorrei scrivere su di lui una terza opera, perché ogni tesi e ogni sua antitesi richiedono una sintesi, che le superi e le risolva in una più alta e più comprensiva unità.

E passiamo a Quinto Orazio Flacco.

Quando lessi una scelta delle sue opere in II Liceo, non mi fece un grande effetto, perché lo trovai troppo ostico. La “curiosa felicitas” (= l'accurata ricerca del vocabolo più calzante) di petroniana memoria e la studiata collocazione delle parole, strategicamente funzionale a una più soddisfacente espressività, non potevano non provocare grandi difficoltà a uno studente liceale, anche se studioso come ero io, ma ancora poco più che digiuno di sofisticate nozioni stilistiche. Dovevano passare tanti anni e tante vicende (l'università, la bufera del '68, il servizio militare, la ripresa degli studi universitari interrotti, la laurea, le prime esperienze didattiche), prima che io fossi in grado di riprendere in mano Orazio con cognizione di causa e lo considerassi un amico, con cui confrontarmi e intrattenermi a colloquio. Così nel 1977 scrissi la mia prima opera su Orazio, che non pubblicai, ma che fu apprezzata dai pochi a cui la feci leggere: la traduzione in versi delle venti epistole del I libro (alcune in endecasillabi sciolti, altre in terza rima), precedute da un'introduzione e dalla “Vita di Orazio” scritta da Svetonio. Quest'opera – come detto, mai pubblicata – mi è molto cara, perché è l'unica mia, oltre alla tesi di laurea, che mio padre lesse e apprezzò, non essendo vissuto tanto da poter conoscere i miei romanzi e i miei saggi letterari. Però nel 2014 scelsi le dieci epistole, che ritenevo tradotte meglio, ampliai l'introduzione, aggiunsi due brevi capitoli su altri aspetti della personalità oraziana e integrai il tutto con un epilogo, contenente un brano tratto dalla seconda epistola del II libro. Quindi pubblicai la nuova opera con il titolo “Tanti saluti da Orazio” sotto forma esclusiva di ebook, riservando solo per me un certo numero di copie cartacee, che in parte distribuii a parenti e amici, in piccola parte tenni per me.

Qualcuno potrebbe chiedermi: perché concentrarsi solo sulle Epistole?

Perché le ritengo il capolavoro oraziano. Numerose sue Odi sono bellissime e ne sono entusiasta; le Satire hanno attribuito a Orazio la fama nei secoli – non dimentichiamo che Dante lo presenta come “Orazio satiro” –, ma io apprezzo tantissimo le satire I, V, VI, IX del primo libro, la II, la VI (la più bella in assoluto) e l'VIII del secondo: delle altre alcune sono molto importanti per la storia del suo pensiero, altre sinceramente mi lasciano indifferente.

Comunque su Orazio ho pubblicato nel 2017 un secondo libro: “Orazio. Una via per la saggezza”, in cui prendo in esame la sua vita e tutta la sua produzione poetica, presentando un'ampia scelta delle sue poesie da me tradotte, compresi numerosi brani dell'Epistola ai Pisoni, altrimenti detta “Ars Poetica”.

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