martedì 5 luglio 2022

Persio e l'inanitas

Una delle caratteristiche peculiari della natura umana è l'inanitas, ossia la vanità, l'inconsistenza, il vuoto interiore, che gli uomini si sforzano di colmare riempiendola con l'ostentazione orgogliosa di meriti spesso presunti, sempre sopravvalutati. Questo vuoto interiore è generato – secondo Persio – dal rifiuto della realtà divina, prodotto o dall'ignoranza o dalla superbia o dall'attaccamento morboso ed esclusivo ai beni materiali:

o curvae in terris animae et caelestium inanes

anime curve al suolo e ignare di cose celesti!

(II, 61)

L'inanitas, stigmatizzata in questo verso, era già stata messa sotto accusa dal poeta volterrano, anche se con una diversa valenza, più teoretica e meno etica, nel primo verso della prima satira:

O curas hominum, o quantum est in rebus inane!

O preoccupazioni degli uomini! Quanta vanità c'è nelle cose!


Il risultato in ogni modo è lo stesso: dare eccessiva importanza a cose o a nozioni, che non ne hanno, e vantarsi del loro possesso o della loro conoscenza, come è descritto in modo mirabile nel dialogo tra Persio e un letterato borioso (I, 24 – 30):

A che scopo aver imparato tante cose, se un giorno, dal fegato lacerato non potrà venir fuori questo lievito e quel caprifico, che abbiamo dentro fin dalla nascita?”

    <Ecco il motivo del pallore e l'atteggiamento da vecchi! O costumi! Siamo arrivati al punto che il tuo sapere non vale niente, se un altro non sa che tu sai?>

Ma è bello essere additato e sentirsi dire: è lui! Ritieni che sia una cosa da nulla essere un testo di lettura per cento scolaretti riccioluti?”

Da notare l'effetto comico del sarcastico poliptoto presente nel verso 27, in cui il verbo scio (= sapere) viene usato prima nella forma di infinito sostantivato, poi di infinito presente oggettivo, infine di congiuntivo presente:

scire tuum nihil est, nisi te scire hoc sciat alter?


A Persio piacciono simili acrobazie verbali, che producono un effetto girandola: basti pensare all'altro irresistibile poliptoto, contenuto nel verso 84 della III satira, in cui da un lato è ridicolizzato uno dei cardini del pensiero epicureo, dall'altro è messo alla berlina il rozzo e ottuso centurione, refrattario agli studi filosofici. 

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