mercoledì 19 aprile 2023

Orazio, un amico fidato

Il poeta latino più complicato da comprendere è Orazio, che non a caso è il meno amato dagli studenti. È uno scrittore che si può valutare – ed ammirare – adeguatamente solo con il passare degli anni, quando le esperienze accumulate a poco poco ci permettono di apprezzare il tepore moderato di una brace sepolta sotto la cenere più delle torride vampate emanate da una fiamma viva, e anche a me è capitato di affezionarmi a lui e alla sua poesia in chiaroscuro nel periodo della tarda maturità e della vecchiaia.
È più facile che un ragazzo o una ragazza si interessino all'avventurosa Eneide di Virgilio, si entusiasmino per l'appassionato poema di Lucrezio, seguano con partecipazione le vibranti storie d'amore di Catullo e di Tibullo, ridano alla battute spiritose di Marziale, ma Orazio li lascia indifferenti, perché – e non possiamo dar loro torto – è un autore sfuggente, non di sua volontà, al fine di mimetizzarsi e nascondere i suoi sentimenti, ma per il fatto che è tanto ricco di sfaccettature da non poter essere inquadrato in un rigido e unico schema interpretativo.

Ma anche alcuni critici letterari, o improvvisatisi tali, hanno mostrato una grande difficoltà a valutarlo degnamente e sono caduti banalmente nello stupido errore di imporgli un'unica maschera, da loro scelta arbitrariamente, dandone un'interpretazione asfittica e sterilmente riduttiva, talora addirittura offensiva. Si pensi, per esempio, alle critiche acide di Vittorio Alfieri, alla freddezza di Ugo Foscolo, alle insolenze gratuite di Huysmans, che in A rebours lo definisce esasperante bamboccione e vecchio pagliaccio. Tanto peggio per loro: non si può piacere a tutti, tanto più se, anche a dispetto dell'età che dovrebbe suggerire saggezza e moderazione, si conserva una sensibilità così esasperata, da sconfinare nell'autoesaltazione nevrotica. Però sbaglia pure chi ammira smodatamente la classicità di Orazio, riducendola a una gelida perfezione equilibrata e armonica, da contemplare in adorazione. La grandezza della poesia oraziana, al di là della raffinata eleganza formale, sta nel suo germogliare dalla vita vissuta... e sofferta. La saggezza di Orazio nasce dall'esperienza, non è qualcosa di libresco e di imparaticcio, appreso sui sacri testi dei filosofi, e per capirlo non serve un grande sforzo interpretativo, perché ce lo dice lui stesso (Epistole I, 1, vv. 14 – 15):


nullius addictus iurare in uerba magistri,

quo me cumque rapit tempestas, deferor hospes.

non m'impegno a seguire ciecamente

l'insegnamento di nessun maestro,

ma dovunque mi spinga la tempesta,

chiedo ospitalità.


Basterebbe leggere – e capire – questi due soli versi per mettere fine una buona volta a tutta l'annosa (secolare?) e inconcludente controversia se Orazio sia stato più epicureo che stoico e fino a che punto. Eppure c'è ancora chi lo strumentalizza come bandiera di un personale e anacronistico epicureismo, oltretutto malcompreso e quasi mai basato sulla conoscenza diretta dei testi greci e latini in lingua originale. La lettura ragionata della IV epistola del I libro sarà sufficiente – spero – a chiarire tutte le idee confuse a riguardo. Al testo latino aggiungerò la mia traduzione ritmica in terza rima, già pubblicata nei miei due libri dedicati ad Orazio:


Albi, nostrorum sermonum candide iudex,
quid nunc te dicam facere in regione Pedana?
Scribere quod Cassi Parmensis opuscula uincat,
an tacitum siluas inter reptare salubris,
curantem quicquid dignum sapiente bonoque est?
Non tu corpus eras sine pectore; di tibi formam,
di tibi diuitias dederunt artemque fruendi.
Quid uoueat dulci nutricula maius alumno,
qui sapere et fari possit quae sentiat, et cui
gratia, fama, ualetudo contingat abunde,
et mundus uictus non deficiente crumina?
Inter spem curamque, timores inter et iras
omnem crede diem tibi diluxisse supremum;
grata superueniet quae non sperabitur hora.
Me pinguem et nitidum bene curata cute uises,
cum ridere uoles, Epicuri de grege porcum.

Delle satire mie giudice schietto,

Albio, che fai laggiù rinchiuso a Pedo?

Componi poesie più del libretto

di quel Cassio parmense belle – credo –

o nei boschi aromatici un po' mesto

mentre passeggi, meditar ti vedo

ciò che è degno di un uomo saggio e onesto?

Nel tuo corpo era un'anima. Gli dei

bellezza e un patrimonio non modesto

ti diedero e a goderne abile sei.

Di più che può augurare la nutrice

al dolce bimbo allattato da lei?

Abbia giudizio, voce ammaliatrice,

salute, gloria, stima dei potenti

e di vita un tenor che non disdice.”

Mentre angosciato sei dai sentimenti

della speranza e del timore vani,

stima ogni giorno, che ti si presenti,

come se fosse l'ultimo: il domani,

quando è inatteso, giunge meno scuro.

Grasso, lucente, animo e corpo sani,

mi troverai, da ogni difetto puro,

se un giorno vorrai farti due risate:

un vero porcellino di Epicuro.


Con ogni probabilità il destinatario della poesia doveva essere il poeta elegiaco Albio Tibullo, che in un momento di depressione, forse dovuta o a una delusione amorosa o a un presentimento dell'imminente morte prematura (morirà a 35 anni), si era rifugiato a meditare in una piccola località laziale. Il tono affettuoso e fraternamente consolatorio – da fratello maggiore – risulta chiaro fin dall'inizio, quando Orazio mostra di apprezzare il giudizio lusinghiero che l'amico Albio aveva pronunciato sulle sue Satire e scherzosamente avanza l'ipotesi maliziosa, ma inverosimile, data l'improponibilità di un eventuale confronto, che Tibullo si stia impegnando a superare le poesiole di un autore di secondo piano.

Tra i tanti complimenti rivolti all'amico il più bello e il meno epicureo è: non tu corpus eras sine pectore (= tu non eri un corpo senza un'anima). Infatti un autentico seguace di Epicuro, ritenendo l'anima materiale come il corpo, in quanto anch'essa costituita da un'aggregazione di atomi pur se più sottili e, quindi, destinata a disgregarsi con quello alla morte fisica, non poteva mettere in contrapposizione anima e corpo, evidenziandone la natura distinta e, di conseguenza, rivolgendo un indiretto complimento all'amico per la sua spiritualità. Quanto al consiglio di considerare ogni giorno come l'ultimo, in modo che giunga più gradita ogni ora futura inattesa, è un invito a concentrarsi concretamente sul presente – come il carpe diem – senza proiettare astrattamente la propria vita in un ipotetico futuro: un suggerimento che non appartiene alla sola dottrina epicurea ma all'universale saggezza perenne, al di là delle singole scuole di pensiero.

Infine l'autoidentificazione con il porcellino del gregge di Epicuro, che molti per insipienza o malafede, hanno voluto prendere sul serio, non è una dichiarazione di fede epicurea, ma solo l'ultimo tentativo di strappare un mezzo sorriso all'amico malinconico, presentandosi come la caricatura di se stesso.

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