mercoledì 7 ottobre 2020

L'ultimo amore

Il poeta latino Orazio, tra i più grandi della letteratura mondiale, ha scritto poesie di tanti generi diversi, tra cui anche liriche d'amore. A differenza di tanti suoi colleghi - tra i latini possiamo ricordare Catullo e Properzio, focosi amanti rispettivamente di Lesbia e Cinzia - non ha mai vissuto una passione d'amore tragica e devastante, ma tanti innamoramenti che ondeggiavano tra la sensualità e il garbato gioco intellettuale. Nelle mie periodiche rivisitazioni dei poeti latini a me più cari, tra cui ovviamente c'è anche - vorrei dire: principalmente - Orazio, di recente mi è capitato più volte di leggere e rileggere una sua ode, forse non apprezzata dalla critica come tante altre (c'è solo l'imbarazzo della scelta), ma che io ritengo bellissima. Si tratta dell'ode 11 del IV libro. Che cosa ha di tanto bello?
Niente potrà spiegarlo meglio di una lettura diretta:

Ho un orcio di vino albano, invecchiato da più di nove anni; nell'orto, Fillide, c'è l'apio per intrecciare corone: c'è una grande quantità di edera che, avvolta intorno ai tuoi capelli, ti farà apparire uno splendore; la casa scintilla d'argento, l'altare, cinto di pure verbene, brama di essere spruzzato con il sangue di un agnello immolato. Tutta la servitù è affaccendata; le ancelle vanno correndo qua e là insieme ai giovani schiavi; le fiamme tremolanti dalle loro punte emettono tutt'intorno un fumo grigiastro. 
Tuttavia, affinché tu sappia a quali gioie sei invitata, sappi che devi festeggiare le Idi, giorno che divide a metà il mese di Aprile, dedicato a Venere marina; giorno che per me è giustamente solenne e quasi più sacro del mio compleanno, perché a partire da questo il mio Mecenate conta gli anni che scorrono. 
Il Telefo, che tu desideri, un giovane non della tua condizione sociale, lo ha preso prima di te una ragazza ricca e allegra, e lo tiene legato a sé con una catena a lui gradita. La combustione di Fetonte atterrisce le ambizioni umane e l'alato Pegaso, infastidito dal cavaliere terreno Bellerofonte, fornisce il valido esempio affinché tu segua sempre le cose adatte alla tua condizione ed eviti chi è troppo diverso da te, ritenendo empio concepire speranze al di là di ciò che è lecito. 
Orsù, vieni, ultimo dei miei amori (infatti in seguito non mi accenderò per altre donne), apprendi le melodie, che canterà la tua voce amabile: con il canto saranno attenuate le nere angosce.

Orazio sta organizzando i festeggiamenti per il compleanno del suo protettore ed amico Mecenate: nella casa fervono i preparativi e tutta la servitù è indaffarata. Per questa grande occasione il poeta invita pure Fillide, la giovane di cui è attualmente invaghito. Lei, però, spasima per un ragazzo, Telefo, che appartiene a una classe sociale superiore, a sua volta innamorato di una ragazza ricca e allegra. Orazio, come un fratello maggiore, le consiglia il senso della misura, per non concepire speranze e desideri che vadano al di là della sua condizione. Fillide canta con voce melodiosa e per questo Orazio insiste ad invitarla: il suo dolce canto allevierà le nere angosce. Quelle di lui, che avverte tristemente l'avanzare dell'età - Fillide sarà il suo ultimo amore - e quelle di lei, sofferente per una passione non corrisposta.
Da un inizio vivacemente descrittivo, si passa a due riferimenti mitologici, che dovrebbero ammonire gli uomini a non oltrepassare i propri limiti, quindi a una fase più riflessiva - potremmo dire: più oraziana - e infine si giunge alla conclusione intima e tenera al tempo stesso, in cui si sente vibrare una nota affettuosa per la giovane triste, la cui voce amabile potrà dare sollievo a entrambi.     

 

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