martedì 15 dicembre 2020

Non vitae sed scholae discimus (ahimè!)

Permettetemi di citare me stesso e di ricollegarmi a un mio post scritto alcuni mesi fa: il 25 giugno, per la precisione. Citavo una frase del filosofo Seneca che, polemicamente, affermava il contrario di quanto effettivamente pensasse, rammaricandosi che si studiasse per la scuola e non per la vita. Chi, come me, ha una notevole esperienza di scuola, sa bene che è molto difficile trovare dei ragazzi o delle ragazze, che vedano nello studio qualche cosa di diverso da un mezzo per ottenere un bel voto, con la conseguenza di farsi apprezzare dai professori e risultare vincitori - o, almeno, non perdenti - nella quotidiana gara di vanità con i compagni. Un tempo questa concezione distorta, gretta e utilitaristica dello studio poteva anche avere una sua giustificazione, perché l'inesistenza di quella ridicola oscenità, che risponde al nome di interrogazione programmata, costringeva i ragazzi a un serio studio quotidiano, dato che si poteva essere interrogati ogni giorno (senza preavviso) e anche più volte di seguito, come capitò una volta pure a me in III liceo, che fui interrogato in italiano tre volte nella stessa settimana, ottenendo 7-, 7 e 7 e mezzo, mentre la mia professoressa di volta in volta pensava di trovarmi impreparato, credendo che io mi illudessi di non poter essere interrogato, essendo stato appena interrogato prima una volta e poi ben due volte in pochi giorni. Un tempo, dunque, non ci si poteva cullare sugli allori di un buon voto, confidando nel fatto che il professore potesse riinterrogarci una seconda volta solo dopo aver sentito tutti gli altri. Questo per chiarire che, bene o male, bisognava portare avanti uno studio continuo e coerente, che alla fine dava i suoi frutti e lasciava il segno, perché il dopo presupponeva in continuazione un prima e alla fine si possedeva una visione d'insieme, che permetteva una conoscenza sintetica dell'argomento, basata però sullo studio analitico condotto momento per momento. 
Adesso, invece, è uno sfacelo: lezione per lezione il professore spiega, ma nessuno studia, perché tutti aspettano che si fissino le date per l'interrogazione di ciascuno. Si incomincia a studiare una settimana prima, se tutto va bene, perché a breve distanza potrebbe esserci un'altra interrogazione o uno o più compiti in classe e allora manca la terra sotto i piedi e subentra l'ansia, l'agitazione e l'angoscia. Nei pochi giorni disponibili (rimasti a disposizione per la scelta sbagliatissima dello studente) si è costretti alla classica ammazzata, studiando giorno e notte per prendere un bel voto. Però è ovvio che ciò che si è studiato in pochi giorni, con una notevole tensione intellettuale, sarà dimenticato e svanirà dalla mente, quando quella tensione si allenterà: entro quindici o venti giorni non si ricorderà più niente o, tutt'al più, resterà una grande confusione nella testa. Purtroppo è così e non ci sono eccezioni. Mi risulta di persona, avendo chiesto dopo uno o due mesi degli argomenti già studiati (!) e su cui, oltretutto, si era preso un bel voto: buio assoluto. Se poi gli studenti o le studentesse in questione devono affrontare un esame di maturità, in cui, anche se in modo limitato e non su tutte le materie, bisogna saper rispondere sul programma di tutto l'anno, le cose si complicano, perché è necessaria anche un'ulteriore maxi-ammazzata, non su pochi argomenti ma su tutto il programma.
Oggi studiare per la scuola significa questo, una cosa perfettamente in linea con il carrierismo e la frenesia della vita moderna, con il materialismo e il consumismo. E' uno studio (seguitiamo a chiamarlo così?) che si può definire: USA E GETTA.
Che cosa significhi studiare per la vita lo vedremo un'altra volta.            

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