domenica 28 agosto 2022

Libertate opus est

 C'è bisogno di libertà.” Questa affermazione del poeta latino Aulo Persio Flacco (Satire, V, 73) è risuonata infinite volte, anche se in forme diverse, nel corso dei secoli prima e dopo di lui. Però sono convinto che tutti coloro che, in un modo o nell'altro, hanno invocato la libertà come un bene supremo, non siano stati né siano d'accordo sulla sua reale essenza e, perciò, essa venga trattata come un recipiente vuoto, suscettibile di essere riempito con qualsivoglia contenuto. Sforzarsi di definire il concetto di libertà vuol dire inoltrarsi in un campo minato. Infatti, o ci si accontenta di declamare formulette ad effetto, suggestive ma inconcludenti, come: “La mia libertà finisce dove comincia la tua”, in cui, oltre a non precisare che cosa sia la libertà in sé e per sé (lo si dà per scontato), si introduce un rapporto di reciprocità o – meglio – di circolarità, che in chiave logica produce lo stesso effetto di un cane che si morde la coda; oppure la si contestualizza e, quindi, la si storicizza, con il risultato di ottenere tanti diversi concetti di libertà nei diversi tempi, nelle diverse realtà sociali, nelle diverse menti di chi si è dedicato alla sua teorizzazione. E dunque? Seguiteremo a parlare di libertà, senza avere prima compreso di che cosa stiamo parlando?

Nello stato di natura non esiste la libertà, perché vige la legge del più forte: pesce grande mangia pesce piccolo, il leone divora il cerbiatto e non viceversa, ma questo anche tra gli uomini, finché regna il principio homo homini lupus (= l'uomo è un lupo per l'uomo).

La libertà riguarda gli esseri umani non appena si afferma e si accetta il rispetto della dignità propria ed altrui, che possiamo rintracciare nella philanthropìa greca e nell'humanitas latina, predicata con diverse valenze dal commediografo Terenzio, dall'oratore/filosofo Cicerone, dal poeta satirico Giovenale. Mi aspetto che qualche ipercritico arricci il naso e con tono supponente esclami: “Che senso ha, parlando di libertà, introdurre nel discorso gli scrittori latini, dato che – e lo dice sogghignando compiaciuto – la società romana era fondata sullo schiavismo?”

Nessuno vuol negare che nell'antica Grecia e nell'antica Roma ci fosse la schiavitù, ma quella romana andrebbe conosciuta meglio.

Premesso che ogni forma di schiavitù è una realtà negativa e che anche a Roma molti padroni si comportavano in maniera disumana – basti pensare all'illustre Catone il Censore, che nella sua grettezza concedeva ai suoi servi il minimo indispensabile, e forse anche meno, per alimentarsi e ripararsi dal freddo –, in altre case gli schiavi erano trattati bene, i più meritevoli diventavano confidenti e consiglieri dei padroni e spesso venivano liberati, acquistando la condizione di liberti. Questo capitò a Livio Andronico, che ricoprì un ruolo di primo piano nella cultura letteraria della Roma arcaica, tanto che l'inizio ufficiale della Letteratura latina viene fatto coincidere con la rappresentazione pubblica (240 a. C.) di una sua opera teatrale; questo capitò al commediografo Terenzio, diventato un personaggio di primo piano del Circolo degli Scipioni; questo capitò ad Anneo Cornuto, filosofo di grande fama nel I secolo d. C. e maestro di Persio e di Lucano; fu meno fortunato di loro il favolista Fedro, che comunque per le sue doti culturali indusse Augusto ad affrancarlo e a farne un liberto. Per non parlare di Orazio, che, pur essendo figlio di un ex schiavo, si conquistò la stima e l'amicizia dell'imperatore Augusto e del suo ministro per la cultura Mecenate.

Conosciamo bene le convinzioni del filosofo Seneca sulla schiavitù, affidate principalmente a una famosa lettera (V, 47) delle Epistulae morales ad Lucilium:

...'Servi sunt.' Immo homines. 'Servi sunt.' Immo contubernales. 'Servi sunt.' Immo humiles amici. 'Servi sunt.' Immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunae. Itaque rideo istos qui turpe existimant cum servo suo cenare...

'Sono servi.' O meglio: uomini. 'Sono servi.' O meglio: compagni di tenda. 'Sono servi.' O meglio: umili amici. 'Sono servi.' O meglio: compagni di schiavitù, se penserai che la sorte ha un uguale potere nei riguardi degli uni e degli altri. Perciò mi fanno ridere quelli che ritengono una cosa vergognosa cenare con il proprio servo...

Tuttavia, vorrei chiamare in causa un altro grande autore latino, da cui – non tutti sono d'accordo, ma... tanto peggio per loro – specialmente in questi tempi di confusione mentale abbiamo ancora molto da imparare: alludo a Decimo Giunio Giovenale.

Nella satira VI (vv. 219 – 223) c'è un drammatico battibecco tra moglie e marito sulla punizione di uno schiavo. La donna, infuriata, ne pretende addirittura la morte:

Fa' crocifiggere questo schiavo!”

<Per quale colpa ha meritato un tale supplizio? C'è un testimone? Chi l'ha denunciato? Ascolta: nessuna esitazione è mai troppo lunga, quando si tratta della morte di un uomo.>

Sciocco! E così uno schiavo sarebbe un uomo? Ammettiamo pure che non abbia fatto nulla: ma io lo pretendo, te lo ordino, la mia volontà è un motivo più che sufficiente.”

Ma le sofferenze degli schiavi non dipendono solo dal malumore di una donna, che vuole dimostrare al marito chi comanda in casa, spesso è lo stesso padrone a incrudelire su di essi (Satira XIV, 15 – 22):

Uno come Rutilio può forse insegnare [ai figli] la mitezza d'animo o un comportamento comprensivo nei confronti di errori veniali, e che le anime e i corpi dei servi risultano costituiti dalla stessa sostanza e dagli stessi elementi di quelli nostri, lui che gode dell'orribile rumore delle frustate e che non apprezza il canto delle Sirene più degli schiocchi delle sferzate, vero Antifate e Polifemo della sua casa in preda al terrore, lui che è veramente felice solo quando, chiamato il carnefice, fa marchiare a fuoco qualcuno con un ferro rovente per colpa di due tovaglioli?

Di tenore ben diverso è il seguente brano (Satira XI, 145 – 160), in cui Giovenale, invitando a cena un amico, presenta i suoi giovani schiavi con un'affettuosa simpatia che sconfina nell'empatia:

Uno schiavetto dall'aspetto trascurato, ma ben coperto contro il freddo, ti porgerà delle tazze dozzinali e pagate quattro soldi. Non ho schiavi della Frigia o della Licia né acquistati da un mercante. Ma è questo quello che conta: quando gli chiederai qualche cosa, chiedigliela in latino. Sono tutti vestiti allo stesso modo, hanno i capelli corti e dritti e soltanto oggi pettinati a motivo del banchetto. Questo è figlio di un rozzo pastore, quello di un bovaro; è triste, perché gli manca la madre che non vede da molto tempo, e ha nostalgia della sua casetta e dei suoi cari capretti, lui che ha i lineamenti e il pudore di un ragazzo libero, come dovrebbero essere quelli che indossano la fiammeggiante porpora, né con la sua voce ancora incerta mette in mostra nei bagni testicoli grandi come un pugno, né si è mai fatto depilare le ascelle, né per la vergogna nasconde dietro l'ampolla dell'olio il membro troppo grosso. Egli ti verserà un vino prodotto su quegli stessi monti da cui proviene, sotto le cui cime ha giocato da bambino.

Terminata questa digressione sullo “schiavismo” romano, puramente indicativa nella sua frettolosità, è tempo di tornare alla frase di Persio, da me usata come titolo. La libertà di cui avverte il bisogno il satirico volterrano, non è quella derivante da un freddo e formale atto burocratico/giuridico, come l'affrancamento di uno schiavo e la sua trasformazione in liberto, ma qualche cosa di ben più profondo, che fa capo a una scelta morale.

C'è bisogno di libertà. Ma non di quella per cui, qualunque Publio della tribù Velina abbia concluso il servizio militare, poi riceve farro ammuffito grazie alla sua tesserina annonaria. Ahimè! Quanto ignorano la verità quelli convinti che la sola giravolta su se stesso basti a trasformare qualcuno in un cittadino romano (Satira V, 73 – 76).

Persio cita due esempi di libertà burocratico/politica: il caso di un veterano che dopo il congedo può servirsi di una tessera annonaria, che gli permette di ricevere gratuitamente, o a prezzo di favore, del farro di qualità scadente; l'allusione alla cerimonia di affrancamento di uno schiavo: davanti al pretore il padrone toccava lo schiavo con una verga, pronunciava la formula prescritta (= voglio che questo uomo sia libero), lo prendeva per mano e lo faceva girare su se stesso. Quindi il pretore lo dichiarava libero.

Secondo Persio, invece, la vera libertà è quella dalle passioni, dagli istinti, dai condizionamenti egoistici, dai pregiudizi (inculcati nell'animo dalle nonne: V, 92). Nei versi 132 – 153 della stessa satira egli si sofferma a denunciare l'influenza nefasta esercitata sull'animo umano dall'Avaritia (= avidità) e dalla Luxuria (= lussuria, amore dei piaceri e della mollezza), due tendenze viziose in contrasto tra loro (= o si accumulano soldi o li si sperperano per darsi alla bella vita), che vengono vivacemente personificate, mentre provocano un conflitto interiore nel cuore della loro vittima.

Nell'età moderna e contemporanea, intendo dal XVIII secolo fino ai giorni nostri, al di là della retorica politica e patriottarda, della parola libertà si è fatto un grande uso ed abuso. Però essa nella maggioranza dei casi è stata ed è identificata nell'atteggiamento luciferino del non serviam (= non servirò!), ossia nel rifiuto orgoglioso della creatura di sottostare al Creatore, arrogandosi il diritto di stabilire soggettivamente in che cosa consistano il bene e il male, il giusto e l'ingiusto, il vero e il falso. Questo rifiuto è tanto più grave, in quanto ignora volutamente l'esplicito messaggio evangelico (Gv 8, 31 – 32):

Ἐὰν ὑμεῖς μείνητε ἐν τῷ λόγῳ τῷ ἐμῷ, ἀληθῶς μαθηταί μού ἐστε, καὶ γνώσεσθε τὴν ἀλήθειαν, καὶ ἡ ἀλήθεια ἐλευθερώσει ὑμᾶς.

Se rimarrete fedeli alle mie parole, sarete veramente miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi renderà liberi”.

Le conseguenze di un tale ostinato rifiuto sono sotto gli occhi di tutti.

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