giovedì 1 aprile 2021

Tra il serio e il faceto

Chi ha un po' di dimestichezza con la Letteratura latina dovrebbe ricordarsi che sotto gli imperatori Claudio e Nerone è vissuto il poeta satirico Aulo Persio Flacco, morto prematuramente a 28 anni. Ho detto: "chi ha un po' di dimestichezza", non "chi ha studiato", perché il famigerato sistema dell'interrogazione programmata (= "Studenti! Non studiate volta per volta, ma studiate tutto insieme quattro o cinque giorni prima dell'interrogazione concordata in anticipo"), che da tanti anni ha preso piede nelle scuole per colpa di studenti lavativi e presuntuosi e di professori troppo accomodanti e poco professionali, ha fatto in modo che una preparazione frettolosa avesse come inevitabile conseguenza una frettolosa dimenticanza di ciò che si era studiato (si fa per dire) in modo frenetico e compulsivo. Risultato finale: studiare una qualunque nozione non significa più conoscerla, ma averla temporaneamente conosciuta solo nel momento che ci era necessaria per prendere un bel voto all'interrogazione e poi... il nulla.
Tronco questa malinconica divagazione, per tornare al caro Persio. Molti filologi di professione nel loro asettico tecnicismo senz'anima lo hanno presentato come un poeta arcigno, austero divulgatore dell'inflessibile filosofia stoica. Ovviamente non sono d'accordo, perché gli incontestabili accenti severi rintracciabili nelle sue satire sono l'eco della nausea e dello sdegno, originati in lui dalla degradazione della vita materiale e soprattutto morale dei suoi contemporanei. Capisco che al giorno d'oggi parlare di moralità possa apparire anacronistico, perché i princìpi dell'etica sono diventati dei valori - come dire? - facoltativi, mentre i concetti di bene e di male sono fatti risalire a ciò che decidono i membri illuminati delle diverse assemblee legislative, costituite - lo sappiamo tutti - da saggi e impareggiabili filosofi, che farebbero impallidire d'invidia i governanti della Repubblica di Platone. Un siffatto Stato etico porta inevitabilmente alla dittatura dei benpensanti, una parola che, purtroppo, contiene un significato nettamente opposto a quello apparente: siamo davvero sicuri che un "benpensante" pensi bene e che soprattutto pensi?
Veniamo al punto. Voglio presentare un intermezzo giocoso, tra il serio e il faceto, contenuto nella satira III di Persio, quella che sottolinea il ruolo ineliminabile della cultura e dello studio nella formazione della personalità. Sono i versi 44 - 51:

Spesso da bambino - me ne ricordo bene - ungevo i miei occhi con l'olio di oliva, se non volevo imparare le solenni parole di Catone in punto di morte, che il mio stolto maestro avrebbe lodato molto e che mio padre avrebbe ascoltato sudando in mezzo ai suoi amici invitati per l'occasione. E giustamente: infatti il mio più grande desiderio era sapere quanto potessi guadagnare con un fortunato colpo da sei, quanto mi sottraesse un disgraziato colpo da uno, centrare con precisione l'imboccatura del collo stretto di un'anfora, e che non ci fosse nessuno più abile di me a far girare la trottola a colpi di frusta.

Persio bambino si ungeva con l'olio, per dimostrare al maestro di avere gli occhi infiammati e, quindi, di non aver potuto studiare a memoria il discorso di Catone morente. Il maestro è definito stolto, perché, nel caso di una recita perfetta, avrebbe lodato il bambino per il successo in un esercizio inutile e non formativo. Il padre (in realtà si tratta del patrigno, perché il vero padre era morto quando Persio aveva sei anni) suda per l'ansia e l'emozione di assistere all'esibizione del figlio. I giochi praticati da Persio bambino erano i dadi, il lancio di una noce nel collo di un'anfora e la trottola.
Non è incantevole tutto ciò? Considerando il fatto che l'ha scritto un poeta definito musone e troppo moralista?   

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