martedì 8 febbraio 2022

Una poetessa spregiudicata


Per uno strano gioco del destino le due uniche poetesse latine di un certo spessore, di cui ci sono giunti testi e notizie, si chiamavano entrambe Sulpicia. La prima, vissuta nel I secolo a. C., era la figlia di Valeria, sorella di Marco Valerio Messalla Corvino, che diventò il suo tutore quando ella diventò orfana alla morte dell'oratore Servio Sulpicio Rufo, marito di Valeria. Sulpicia, che poté giovarsi di un'educazione e di un'istruzione raffinate, fece parte del circolo letterario diretto dallo zio, che in un certo senso rivaleggiava con il contemporaneo e più potente circolo di Mecenate. Nell'ultima sezione del Corpus Tibullianum sono contenuti alcuni componimenti attribuiti alla giovane poetessa: cinque elegie – il cosiddetto ciclo di Sulpicia – la cui attribuzione è controversa, e sei altre brevi elegie, definite elegidia, attribuibili senz'altro a lei. Sicura di sé e sincera nell'esprimere i suoi sentimenti, nei suoi versi si dimostra una ragazza appassionata, che non prova alcuna vergogna a sfidare le convenzioni sociali, prendendo l'iniziativa nei confronti dell'amato.
Ma non è di lei che voglio parlare, dato che bene o male è abbastanza conosciuta, bensì della sua omonima, praticamente ignorata da tutti, dal momento che di lei ci sono rimasti due soli versi. La seconda Sulpicia visse nel I secolo d. C. al tempo di Domiziano e pare che fosse in buoni rapporti con il poeta Marziale, che non risparmia lodi nei confronti di lei e di suo marito Caleno. Ma vediamo per quali motivi l'epigrammista ispanico ne parla tanto bene:

(X, 35)
Omnes Sulpiciam legant puellae,
uni quae cupiunt viro placere;
omnes Sulpiciam legant mariti,
uni qui cupiunt placere nuptae.
Non haec Colchidos adserit furorem
diri prandia nec refert Thyestae;
Scyllam, Byblida nec fuisse credit:
sed castos docet et probos amores,
lusus, delicias facetiasque.
Cuius carmina qui bene aestimarit,
nullam dixerit esse nequiorem,
nullam dixerit esse sanctiorem.
Tales Egeriae iocos fuisse
udo crediderim Numae sub antro.
Hac condiscipula vel hac magistra
esses doctior et pudica, Sappho:
sed tecum pariter simulque visam
durus Sulpiciam Phaon amaret.
Frustra: namque ea nec Tonantis uxor
nec Bacchi nec Apollinis puella
erepto sibi viveret Caleno.

“Leggano Sulpicia tutte le ragazze, che vogliono piacere a un solo uomo; leggano Sulpicia tutti i mariti, che vogliono piacere alla sola sposa. Costei non presenta il furore di Medea né descrive i pranzi del malvagio Tieste; né crede che siano esistite Scilla e Biblide: ma insegna amori casti e onesti, scherzi, tenerezze e motti di spirito. E se uno valuterà bene le sue poesie, dirà che non c'è una donna più sfrontata di lei, che non ce n'è una più onesta. Potrei pensare che di questo tipo fossero stati i giochi amorosi di Egeria e Numa nell'umida caverna. O Saffo, con questa condiscepola o con questa maestra saresti stata più dotta e pudica: avendola vista nello stesso tempo insieme a te, l'insensibile Faone avrebbe amato Sulpicia. Ma inutilmente: e infatti lei non avrebbe voluto vivere né come sposa di Giove, né come amante di Bacco o di Apollo, una volta che le fosse stato tolto il suo Caleno.”

Come abbiamo visto, la simpatia di Marziale per Sulpicia è duplice. Da un lato l'apprezza come poetessa, che rifiuta le invenzioni immaginarie degli argomenti mitologici, vedendo in lei una specie di alter ego al femminile; dall'altro, l'ammira come donna, che non si vergogna di esprimere con la massima franchezza il suo desiderio di intimità con l'amatissimo marito Caleno: quindi “sfrontata” perché parla di argomenti sessuali senza lo schermo dell'ipocrisia, ma “pudica”, perché la sua concupiscenza è rivolta esclusivamente al marito. Il poeta spagnolo dedica a questa coppia di sposi anche l'epigramma X, 38, felicitandosi con Caleno per i quindici anni vissuti e goduti a fianco della bella consorte:

O molles tibi quindecim, Calene,
Quos cum Sulpicia tua iugales
Indulsit deus et peregit annos!
O nox omnis et hora, quae notata est
Caris litoris Indici lapillis!
O quae proelia, quas utrimque pugnas
Felix lectulus et lucerna vidit
Nimbis ebria Nicerotianis!
Vixisti tribus, o Calene, lustris:
Aetas haec tibi tota conputatur
Et solos numeras dies mariti.
Ex illis tibi si diu rogatam
Lucem redderet Atropos vel unam,
Malles, quam Pyliam quater senectam.

“O Caleno, che anni deliziosi, i quindici anni di matrimonio che il dio ti ha concesso e ti ha fatto vivere con la tua Sulpicia! Che notti, che ore, tutte scandite dalle preziose perle della costa indiana! Che battaglie, che scontri avvenuti tra voi due, hanno visto con gioia il letto e la lucerna profumata di essenze di Nicerote! Caleno, sei vissuto per tre lustri: questo è tutto il tempo che ti viene calcolato, tu tieni il conto solo dei giorni vissuti da marito. Se, dopo averglielo chiesto a lungo, Atropo ti restituisse anche uno solo di quei giorni, tu lo preferiresti al quadruplo della vecchiaia di Nestore.”

In passato alcuni hanno preteso di attribuire a Sulpicia i 70 versi della Sulpiciae conquestio, una satira rivolta contro la decisione di Domiziano di allontanare da Roma i filosofi, tra cui ci sarebbe stato anche Caleno. Ma pare che ragioni linguistiche spingano la sua collocazione temporale fino al IV-V secolo d. C. Perciò che cosa ci è rimasto di veramente suo? Solo un misero frammento di due versi, sufficienti, però, a darci un'idea di quella poesia erotica a cui allude Marziale. I due trimetri giambici fanno parte di uno scolio a Giovenale, rinvenuto nel XV secolo dall'umanista Giorgio Valla:

"Si me cadurci restitutis fasciis
nudam Caleno concubantem proferat"

“Se, una volta aggiustate le cinghie del materasso, mi mostrasse nuda mentre sono a letto con Caleno.”

Manca il soggetto di proferat, che, probabilmente, è la stessa lucerna menzionata da Marziale nel settimo verso del secondo epigramma.
Senza dubbio una poetessa molto simpatica nella sua autenticità, che però è destinata a restare poco più di un nome, data la perdita irreparabile di tutti i suoi scritti tranne due versi. E pensare che sono stati conservati fino a noi, straletti e stracommentati tanti scrittori scialbi e inconcludenti, che fanno la gioia di altrettanti filologi loro simili... 

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