venerdì 19 giugno 2020

Vulgus amicitias utilitate probat

Il volgo valuta le amicizie sulla base dell'utilità.

È un'amara constatazione che può fare chi sia rimasto deluso dal comportamento di qualcuno, che dichiarava di essergli unito da un legame di affetto, o, più in generale, che si proclamava suo amico, ma che alla prova dei fatti – gli unici che contano perché, come ben sappiamo, le chiacchiere stanno a zero – si è rivelato mosso da mire esclusivamente opportunistiche.
Questo pentametro (= verso di cinque piedi, cioè di cinque raggruppamenti di sillabe brevi e lunghe, secondo la metrica greco-latina) fa parte delle Epistulae ex Ponto (Lettere dal Mar Nero), composte dal poeta latino Ovidio durante la sua lunga relegazione a Tomi, (l'odierna Costanza in Romania) sulle rive del Mar Nero. Il distico (= coppia di versi), di cui fa parte, comprende i versi 7 – 8 della terza epistola del II libro:

Turpe quidem dictu, sed —si modo vera fatemur—
vulgus amicitias utilitate probat.
Certo, è vergognoso a dirsi, ma – se proprio vogliamo essere sinceri –
il volgo valuta le amicizie sulla base dell'utilità.

Lo stesso poeta nei Tristia (II, 1, 207) accenna di sfuggita alle due probabili cause, che nell'8 d. C. spinsero l'imperatore Augusto a decidere la sua improvvisa relegazione, ma le allusioni sono così concise da risultare enigmatiche. Infatti egli le individua in un carmen e in un error, una poesia e un errore, su cui stanno ancora discutendo e questionando i critici letterari. Il carmen potrebbe essere l'Ars amatoria, un'opera un po' troppo audace e licenziosa in confronto all'austera politica moralizzatrice di Augusto, però teniamo presente che fu scritta nell'1 a. C. o d. C., cioè sei o sette anni prima e, quindi, notevolmente lontana nel tempo. Qualcuno ha ipotizzato che la poesia incriminata fosse il lungo brano del suo capolavoro, le Metamorfosi (XV, 60 – 478), in cui Ovidio introduce Pitagora a parlare della metempsicosi e del vegetarianismo, due modi di concepire la vita e la morte, ben differenti dal mos maiorum (il rigido e ruvido costume degli antenati) e, perciò, sentiti come poco romani e troppo esotici. Anche l'error ha dato adito alle interpretazioni più disparate, tra cui, forse, la più plausibile è che egli sia stato al corrente o abbia in qualche modo favorito la tresca della nipotina di Augusto, Giulia minore, con un certo Decimo Giunio Silano. Ella fu esiliata dal nonno l'anno dopo (9 d. C.) nelle isole Tremiti, dove morì nel 28 o 29 d. C. Ovidio, invece, morì a Tomi nel 17 d. C., qualcuno dice nel 18.
Ritornando alla frase del titolo, è abbastanza chiaro il motivo per cui l'abbia scritta: una volta che fu costretto ad allontanarsi da Roma, molti suoi precedenti “amici” gli voltarono le spalle, perché non poteva più essere utile a loro – fino ad allora era un poeta famoso e ricercato nei salotti letterari dell'Urbe – e ci fu pure chi si approfittò della sua assenza per cercare di impossessarsi del suo patrimonio, fingendo di corteggiarne la moglie Fabia, che era rimasta a Roma ad amministrarlo.
Se dopo tanti secoli può consolarlo, lo invito a riflettere su questa sentenza di S. Girolamo:

un'amicizia, che può finire, non è mai stata sincera.

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