giovedì 15 ottobre 2020

Omnia quae ventura sunt in incerto iacent: protinus vive!

Questa sentenza – tutte le cose future sono incerte: vivi subito! – è stata scritta dal filosofo Seneca nell'opera intitolata De brevitate vitae (= La brevità della vita), ma non è di lui che voglio parlare oggi, bensì di uno scrittore latino molto meno serio ed austero: Marziale.
Molto spesso di Marco Valerio Marziale si ricordano – o si vanno a cercare espressamente – gli epigrammi più osceni e pruriginosi per il gusto del proibito, ma bisogna riconoscere, purtroppo, che è diventato famoso principalmente per questi. Sto scrivendo un libro (sono arrivato a un buon punto), proprio per ristabilire su di lui un giusto giudizio, mettendo in evidenza i suoi aspetti più lodevoli, come la spiccata sensibilità e la delicatezza dei sentimenti.
Ma talora egli riesce a sorprenderci per la profonda saggezza – paradossale? A volte pure il paradosso ha una sua decisiva forza di convinzione –, che da lui non ci aspetteremmo e che ci costringe a riflettere, come se leggessimo un verso sentenzioso di Orazio o un acuto giudizio di Seneca.
Vi presenterò due suoi epigrammi, che ritengo molto significativi: entrambi contengono considerazioni sul tempo dell'esistenza umana. Il primo (V, 58) è indirizzato a un certo Postumo, un evidente nome parlante, ossia un nome che già di per se stesso delinea il carattere di quel personaggio, tutto proiettato nel futuro:

Postumo, tu ripeti sempre che vivrai domani, domani... Dimmi, Postumo: quando viene questo domani? Quanto è lontano questo domani! Dov'è? O dove bisogna cercarlo? Forse è nascosto presso i Parti e gli Armeni? Ormai questo domani ha gli anni di Priamo o di Nestore. Questo domani – dimmi – a quanto si potrebbe comprare? Vivrai domani? Postumo, è già tardi vivere oggi: il vero saggio, Postumo, è chi è vissuto ieri.

L'affermazione conclusiva si basa sulla ferma convinzione che la vita sia troppo breve. Nel seguente epigramma (VI, 70) il poeta ce ne spiega argutamente il perché:

Caro Marciano, Cotta ha già compiuto – credo – la sua sessantaduesima mietitura e lui non si ricorda di aver sperimentato nemmeno per un sol giorno le noie di un letto caldo. Egli mostra il dito, ma quello osceno, ai [medici] Alconte, Dasio e Simmaco. Ma si conteggino in modo adeguato i nostri anni e si sottragga dalla vita godibile tutto il tempo, che ci hanno portato via le febbri perniciose o la fiacchezza opprimente o i dolori atroci: siamo bambini e sembriamo vecchi. O Marciano, chi pensa che la vita di Priamo e di Nestore sia lunga, s'inganna e si sbaglia di molto. La vita non consiste nell'essere vivi, ma nello stare in buona salute.

C'è da supporre, tuttavia, che la conclusione paradossale dell'epigramma V, 58 – quello indirizzato a Postumo – potrebbe essere una voluta forzatura del poeta, che con essa si sarebbe garantito un finale ad effetto. Infatti, Marziale, rivolgendosi a un certo Giulio, aveva già affrontato il tema dell'irrimediabile fuga del tempo nell'epigramma I, 15, ma prospettando la più sana ed accettabile soluzione oraziana, quella del carpe diem (= cogli il giorno, ossia: realizzati nel presente):

Credimi, non è da saggio dire: “Vivrò”. Vivere domani è troppo tardi: vivi oggi.







 

4 commenti:

  1. E' veramente eccezionale.
    Massimo

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    1. Grazie dell'apprezzamento. Sono davvero contento che questo post ti sia piaciuto.
      Marcello

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    2. Solo oggi mi sono accorto del tuo commento: grazie dell'apprezzamento. Gradirei che ti iscrivessi tra i lettori fissi, se non hai nulla in contrario. Un saluto. A presto.

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