domenica 11 dicembre 2022

Poeti sì, poeti no

Nella cultura latina la poesia è concepita come l'esito dell'equilibrata convergenza di due risorse, l'una in funzione dell'altra: l'ingenium e l'ars. Il primo termine indica le doti naturali e innate, mentre il secondo mette l'accento sulla tecnica compositiva. Il solo ingenium può essere sufficiente a qualificare un poeta, ma rozzo, in quanto egli ha – sì – qualche cosa da dire, ma la dice male, in modo inadeguato. La sola ars non è in grado di raggiungere la poesia, ma nel migliore dei casi può rendere qualcuno un buon verseggiatore, un facitore di versi. L'indispensabile compresenza di questi due elementi è testimoniata da Cicerone nel giudicare positivamente il poema di Lucrezio, un poeta a lui non molto gradito, perché appartenente alla corrente filosofica dell'epicureismo, da condannare, secondo il grande oratore, che non approvava né la sua etica basata sul piacere, né il suggerimento di astenersi dall'attività politica. In una lettera al fratello Quinto (libro II, 9, 3) egli riconosce obiettivamente che nel De rerum natura si trovano molti sprazzi d'ingegno (multis luminibus ingenii) ma anche molta arte (multae tamen artis).

Fatta questa doverosa premessa, passo ad esaminare tre particolari concetti di poesia presenti nelle opere di Orazio, Persio e Giovenale: in realtà si potrebbero definire tre “variazioni sul tema”, perché sono tre personali interpretazioni dello stesso argomento. Non è un caso che io abbia scelto tre esponenti del genere satirico, un genere letterario pericolosamente in bilico tra la tentazione prosastica – anche prosaica! – e la vibrante asserzione di elevati princìpi morali, spesso assai curata stilisticamente.

Ometto di sottolineare ancora una volta l'alto livello artistico raggiunto dalla varia produzione oraziana – è ovviamente superfluo –, ma mi preme precisare che il poeta venosino è stato anche un grande teorico di poesia, come testimonia l'Epistola ai Pisoni, il poemetto didascalico, anch'esso – tra l'altro – pregevole opera di poesia, in cui egli si dimostra un esperto conoscitore dei canoni dell'arte poetica, tra cui la necessità che l'ingenium e l'ars svolgano un ruolo combinato per il raggiungimento dei più soddisfacenti risultati artistici. Ma non è su questo che vorrei soffermarmi.

Nella II epistola del II libro, dedicata a Floro, rievocando tra il serio e il faceto gli inizi della sua carriera poetica, egli dice con una formula autoriduttiva e autoironica (cfr. per es. l'equipollente espressione Epicuri de grege porcum nel verso 16 dell'epistola I, 4):

paupertas impulit audax ut versus facerem

sotto la spinta della povertà trovai il coraggio di fare versi

(Epistole II, 2, 51 – 52)

Molti critici hanno preso alla lettera questa osservazione, scandalizzandosi perché la povertà non è assolutamente un movente adeguato per trasformare in poeta chi già non lo sia. Ma Orazio non ha detto questo, dato che ha usato la locuzione versus facere, fare versi, che è ben diversa da “essere poeta”, ma equivale a “essere un verseggiatore, un facitore di versi”. Chi sarebbe tanto sventato e irriverente da qualificare come verseggiatore o facitore di versi un Dante, un Petrarca, un Tasso o un Leopardi?

Persio, l'immediato successore satirico di Orazio, dimostra invece di aver inquadrato nei giusti termini l'ambigua confessione del suo predecessore, approfondendone la portata per rivolgere un giudizio di disvalore alla pseudopoesia dei suoi contemporanei. È la critica tagliente contenuta nella seconda metà dei Choliambi, in cui i poetastri coevi sono paragonati a corvi, gazze e pappagalli che, stimolati dall'offerta di cibo, si sforzano di ripetere meccanicamente parole umane. Alla paupertas oraziana egli sostituisce più prosaicamente il venter, l'appetito, la voracità:

Quis expedivit psittaco suum 'chaere'
picamque docuit nostra verba conari?
Magister artis ingenique largitor
venter, negatas artifex sequi voces.

Chi ha reso agevole al pappagallo il suo <buongiorno!> e ha insegnato alle gazze a cimentarsi nella pronuncia di parole umane? Il ventre, maestro dell'arte e donatore d'ingegno, capace di far riprodurre suoni umani non consentiti dalla natura” (Choliambi, 8 – 11)

Da notare che, secondo Orazio, la paupertas aveva potuto trasformarlo in un buon versificatore (impulit ut versus facerem), cioè gli aveva concesso l'ars, mentre Persio nel suo impietoso sarcasmo va ben oltre, perché qualifica il ventre come “maestro dell'arte e donatore d'ingegno”, quindi del tutto in grado di trasformare in vero poeta – in cui si abbinano ingenium ed ars – anche chi non abbia ricevuto dalla natura un'indole poetica.

Giovenale, l'ultimo grande satirico latino, non poteva non dire la sua a questo proposito. Nella I satira egli passa in rapida rassegna la corruzione presente in Roma. Davanti a tanta depravazione e perversione non può rimanere indifferente e decide di scendere nell'agone poetico, per denunciare il vizio dilagante. Ma un dubbio l'assale: sarà in grado di scrivere versi all'altezza di un argomento così impegnativo e coinvolgente? Avrà la giusta ispirazione? Ed ecco la risposta:

Si natura negat, facit indignatio versum

Se la natura mi nega l'indole poetica, sarà l'indignazione a dettarmi i versi”

(Satire, I, 79)

Quindi Giovenale è convinto che l'assenza del talento (dote innata = ingenium) può essere compensata dall'indignatio, accompagnata nel suo caso da una sofisticata tecnica compositiva (= ars), dovuta ai suoi studi retorici. È questa, come abbiamo visto una terza interpretazione particolare del controverso rapporto tra ingenium ed ars, che Orazio affronterà in modo più impegnativo nell'Epistola ai Pisoni, la fondamentale Ars Poetica, oggetto di culto fino alle soglie del Romanticismo.

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