L'attribuzione al secondo Giovenale di un “riso democriteo” con il corollario di un presunto tono sapienziale o, addirittura, oraziano ha portato e porta fuori strada tanti studiosi, allontanandoli dal Giovenale reale, quello – cioè – che risulta da una lettura dei suoi versi libera da pregiudizi, e favorendo l'immaginazione di un Giovenale fittizio, che poggia però su basi inconsistenti. Parliamoci chiaro: se noi esaminiamo le satire X – XVI senza preconcetti – sine ira ac studio, come direbbe Tacito – non ci troviamo proprio nulla da ridere, ma piuttosto l'attuazione di una poetica dell'interiorità, lontana mille miglia dallo sfottente e cinico riso di Democrito, permeata com'è di autentica e convinta vita sentimentale. D'altronde, concependo un Giovenale democriteo, a che cosa si ridurrebbe l'homme océan, che ha visto nel satirico aquinate uno scrittore del calibro di Victor Hugo? Ad un innocuo laghetto alpino, suggestivo e pittoresco – sì – ma privo della spettacolare furia travolgente di una tempesta oceanica. O forse a una brutta copia scolorita – peggio: a una caricatura – di Marziale, di cui non sapremmo che fare. Per non parlare delle satire XV e XVI che, a detta degli stessi critici, riproporrebbero la medesima poetica iniziale dell'indignatio, sconfessando la presunta svolta democritea e ritornando inspiegabilmente al punto di partenza. C'è una logica in tutto ciò?
Nella Satira XV il poeta descrive uno scontro tra due popolazioni egiziane, che culmina con un aberrante episodio di cannibalismo. Egli, considerando l'energia fisica impiegata dalle due parti nel combattimento, osserva che siamo ben lontani dalla forza erculea messa in mostra dagli eroi, che combatterono sotto le mura di Troia. E nei versi 69 – 71 spiega: