venerdì 25 novembre 2022

Orazio e la fuga del tempo

Se Orazio avesse scritto solo i diciassette Epòdi, sarebbe rimasto nell'ombra come uno dei tanti poeti latini minori, perché la loro composizione non ha dato un contributo determinante alla sua fama immortale. Però ce ne sono alcuni che, a mio parere, pur nei loro limiti non sfigurano a confronto con le opere maggiori, Uno di questi pochi è il tredicesimo. In esso troviamo un'anticipazione, ancora un po' sfocata, della concezione oraziana del tempo, che sarà presentata in maniera nitida e insuperabile nelle Odi I, 9 e 11 e nella IV epistola del primo libro. È assai probabile che questa poesia sia stata composta da Orazio subito dopo la battaglia di Filippi (42 a. C.) o subito dopo il suo ritorno in Italia, pur riferendosi a quello sfortunato avvenimento a cui partecipò in prima persona. Questo Epòdo ci presenta la stessa struttura, che ritroveremo nelle Odi dello stesso argomento: un esterno gelido o piovoso e ventoso, comunque minaccioso; un interno accogliente, confortato dal calore dell'amicizia e dal vino, che suggerisce sagge considerazioni sulla vita. A questo schema si aggiunge un riferimento mitologico, che non persegue alcun fine di estetismo, come nella poetica alessandrina, ma collabora all'impostazione sapienziale del disincantato moralismo oraziano.

Horrida tempestas caelum contraxit et imbres
nivesque deducunt Iovem; nunc mare, nunc siluae
Threicio Aquilone sonant. Rapiamus, amici,
occasionem de die dumque virent genua
et decet, obducta solvatur fronte senectus.
Tu vina Torquato move consule pressa meo.
Cetera mitte loqui: deus haec fortasse benigna
reducet in sedem vice. Nunc et Achaemenio
perfundi nardo iuvat et fide Cyllenea
levare diris pectora sollicitudinibus,
nobilis ut grandi cecinit Centaurus alumno:
“Invicte, mortalis dea nate puer Thetide,
te manet Assaraci tellus, quam frigida parvi
findunt Scamandri flumina lubricus et Simois,
unde tibi reditum certo subtemine Parcae
rupere, nec mater domum caerula te revehet.
Illic omne malum vino cantuque levato,
deformis aegrimoniae dulcibus adloquiis.”

Una paurosa tempesta ha contratto il cielo e le piogge e le nevi lo riversano sulla terra; ora il mare, ora i boschi risuonano sotto il soffio dell'Aquilone trace; amici, strappiamo al giorno l'occasione che ci porge e, finché la gioventù rende salde le ginocchia e non è sconveniente, sparisca dalla nostra fronte l'ombra della vecchiaia. Tu, metti mano al vino che fu preparato al tempo del mio console Torquato. Non dire altro: forse un dio, a sua volta, rimetterà le cose a posto, rendendole a noi favorevoli. Ora è bello spalmarsi di nardo persiano e alleggerire i cuori delle meste preoccupazioni con la lira del dio di Cillene, come cantò il nobile Centauro al grande alunno: “O invincibile mortale, figlio della dea Teti, ti attende la terra di Assaraco, che attraversano le fredde acque del piccolo Scamandro e il Simoenta che scorre veloce, da dove le Parche ti hanno troncato il ritorno nel loro filo infallibile, né la tua madre cerulea potrà ricondurti a casa. Lì allevierai ogni angoscia con il vino e con il canto, dolci conforti dell'avvilente tristezza”.


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