lunedì 31 gennaio 2022

Un angolo di paradiso

L'esordio della Satira VI di Aulo Persio Flacco si può definire icastico per due ordini di motivi: da un punto di vista oggettivamente realistico e altresì perché suggerisce un accattivante ma verosimile senso di intimità, di rifugio, di valorizzazione dell'interiorità. Tali sensazioni psicologiche creano delle risonanze soggettive rintracciabili sia nella cordiale apostrofe rivolta all'amico Cesio Basso, che all'arrivo dei primi freddi si rifugia accanto al focolare della sua villa in Sabina, sia nella presentazione dell'angulus prediletto da Persio, una specie di locus amoenus, individuato dal poeta volterrano nel suggestivo paesaggio marino, in cui è situata la sua villa nel golfo di Luna (attualmente Luni Scavi, nel comune di Luni, in provincia della Spezia). Simpatica e degna di considerazione è pure la chiamata in causa del poeta Ennio, su cui sarà doveroso che io mi soffermi.
Leggiamolo insieme nel testo critico di Nino Scivoletto (VI, 1 – 17):

"O Basso, l'inverno ti ha già fatto accostare al focolare della tua villa in Sabina? Ormai le corde della tua lira tornano a vibrare sotto il tuo austero plettro? Mirabile artista, che sai modulare con il giusto ritmo gli arcaici accenti dei nostri antichi e l'armonia virile della cetra latina, d'altra parte, pur se anziano, capace di cantare amori giovanili, usando espressioni pudiche. Ora la riviera ligure mi offre il suo tepore e il mio mare trascorre l'inverno in tutta tranquillità, protetto dal baluardo di una massiccia scogliera, dove la costa si ritira in una profonda insenatura. “Uomini, vale la pena che voi conosciate il porto di Luni!” Questo ordina il cuore di Ennio, quando cessò di sognare di essere Quinto il Meonide, originato dal pavone pitagorico. Qui io vivo incurante del volgo e di quale minaccia prepari al bestiame il funesto scirocco, indifferente al fatto che il campo del vicino sia più fertile del mio; anche se tutti quelli di umile origine si arricchissero tanto, rifiuterei sempre di andare curvo e avvilito sotto il peso del dispiacere o di pranzare di magro e di toccare con il naso il sigillo di un fiasco, che contiene vino ormai inacidito."

Di Cesio Basso abbiamo poche notizie. Amico di Persio, delle cui satire curò la pubblicazione, compose un trattato di metrica e, come apprendiamo da questa sesta satira del Volterrano, si dedicò alla poesia, pare con ottimi risultati. Infatti il retore Quintiliano (35 – 96), parlando della poesia lirica nel libro X dell'Institutio oratoria (1, XCVI), afferma che tra i lirici Orazio è quasi l'unico che sia degno di essere letto: se poi si fosse voluto aggiungere qualcun altro, quello sarebbe stato appunto Cesio Basso. Alcuni ritengono che egli sia morto durante l'eruzione del Vesuvio nel 79 d. C., perché ipotizzano che egli fosse il marito di Rectina, che inviò a Plinio il Vecchio, ammiraglio della flotta imperiale del Mar Tirreno con base a Capo Miseno, un biglietto con una richiesta d'aiuto all'inizio dell'eruzione. Ce ne parla Plinio il Giovane nella famosa lettera VI, 16 indirizzata all'amico Tacito, precisando che la matrona era la moglie di un uomo, il cui nome non è perfettamente leggibile ed è stato decifrato come Casco, Tasco o, addirittura Basso.
Invece il riferimento al poeta epico arcaico Quinto Ennio (239 – 169 a. C.) richiede un'esposizione più approfondita.
Nel primo libro del De rerum natura (vv. 112 – 126) Tito Lucrezio Caro parla di Ennio (il nostro Ennio) con grandissima ammirazione, manifestando un tale apprezzamento entusiastico per la sua poesia, al punto di presentare con la massima obiettività anche una teoria filosofica per lui inaccettabile, come la metempsicosi, di cui Ennio era un convinto sostenitore.

"S'ignora, infatti, quale sia la natura dell'anima, se sia nata o al contrario s'introduca in coloro che stanno nascendo e allo stesso tempo se muoia con noi, distrutta dalla morte, o veda le tenebre e i profondi abissi degli Inferi o entri per volontà divina in altri esseri animati, come ha cantato il nostro Ennio, che per primo ha portato giù dal ridente Elicona una corona di foglie sempreverdi, tale da assicurargli una luminosa fama tra le popolazioni italiche; anche se, tuttavia, Ennio, cantando in versi immortali, afferma inoltre che esistono le regioni acherontee, dove non risiedono né le anime né i nostri corpi, ma certe immagini spettrali di un eccezionale pallore; e racconta che il fantasma del sempre illustre Omero, venuto fuori da lì, cominciasse a versare lacrime amare e ad esporgli la natura delle cose."

Questi versi lucreziani ci permettono di comprendere meglio il significato del riferimento ad Ennio, contenuto nei citati versi della satira VI di Persio.
Infatti, all'inizio del suo poema epico in esametri omerici, “Annales”, Ennio riferisce di aver fatto un sogno, in cui gli sarebbe apparsa l'anima di Omero, che gli avrebbe detto di essersi reincarnata in lui. I vari passaggi delle trasmigrazioni secondo alcuni sarebbero stati i seguenti, anche se resta incerto il preciso ordine di successione: Pitagora, un pavone (animale ritenuto sacro dai pitagorici in quanto simbolo dell'immortalità dell'anima), Euforbo (mitico guerriero troiano), Omero e, per ultimo, Ennio. Pertanto Ennio, che oltre tutto aveva Quinto come prenome, sarebbe stato il quinto della serie (di nome e di fatto).

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