lunedì 28 settembre 2020

La scuola: croce e delizia

Non tutti sanno che la parola scuola deriva dal greco σχολή ( leggi: scholé), il cui significato originario è: tempo libero, tempo da dedicare alla distrazione o alla lettura, e anche scuola. Mentre in latino "scuola" si indica con la parola "ludus", che vuol dire anche gioco, ma pure palestra, tanto è vero che il "ludimagister" era il maestro della scuola elementare, ma con il termine ludi si indicavano tanto gli spettacoli del circo quanto quelli teatrali. Insomma, penso che apprendere queste notizie non rallegrerà molto gli attuali studenti, che vedono nella scuola un penoso obbligo, e niente che si possa paragonare al tempo libero o al gioco, anche se i meno diligenti e i più maleducati vanno a scuola proprio per divertirsi, disturbando i professori e ostacolando con le loro bravate i compagni, che vorrebbero apprendere qualche cosa.
Negli scrittori latini ci sono gustose rappresentazioni di istantanee scolastiche, interessanti e istruttive. Orazio ci racconta l'esperienza vissuta a Roma da scolaro presso la scuola del grammatico Lucio Orbilio Pupillo, noto semplicemente come Orbilio, un insegnante manesco, definito "plagosus" (= che infligge colpi, che percuote) dal poeta latino. A quanto ci dice Orazio (Epistulae, II, 1, 69-72), Orbilio era un amante della poesia latina arcaica, specialmente di Livio Andronico, i cui versi faceva imparare a memoria ai suoi alunni a colpi di sferza. Questo può spiegare perché Orazio non abbia mai espresso giudizi del tutto positivi sugli antichi poeti latini come Livio, Ennio, Lucilio... Non poteva davvero ricordarli con simpatia.
Giovenale, invece, stava dall'altra parte della barricata, perché è assai probabile che per un certo periodo di tempo abbia insegnato. Nella VII satira, dedicata alla decadenza della cultura, parla anche della scuola e della triste condizione degli insegnanti, che, oltre a dover fronteggiare ogni giorno gli alunni sfaticati e indolenti e vigilare che non compiano sconcezze, devono anche sopportare i loro genitori, che esigono tanto dagli insegnanti, ma pensano che essi pretendano una ricompensa superiore ai loro meriti. Da qui l'amara considerazione del poeta satirico (VII, 157):


"nosse volunt omnes, mercedem solvere nemo"
tutti vogliono imparare, ma nessuno vuole pagarne il prezzo.


Non posso non essere d'accordo con il mio caro Giovenale, anche perché le sue osservazioni andrebbero integrate con la seguente riflessione: in tutti i tempi, ma specialmente oggi, che si è succubi psicologicamente della tecnologia e dello scientismo, si dà tantissima importanza all'informazione (fornire nozioni su nozioni), e poca alla formazione (intellettuale e morale) dei giovani studenti. Non ha senso concepire la scuola come un avviamento al lavoro (= l'aberrazione dell'alternanza scuola/lavoro, che oscilla tra l'aspetto puramente demagogico e quello di sfruttamento del lavoro minorile e, in definitiva, si risolve, in un'insulsa perdita di tempo sottratto allo studio serio), perché il suo scopo è puramente teorico e formativo. Attraverso le pur necessarie nozioni (ineliminabili!) essa deve insegnare a ragionare correttamente nell'ambito di quelle discipline, nelle quali si ha intenzione di esplicare la propria futura attività lavorativa, senza trascurare la formazione del carattere: senso del dovere, spirito di sacrificio, senso di responsabilità. Inoltre lo studio scolastico deve consentire agli studenti di prendere conoscenza e coscienza delle radici culturali, che hanno dato origine al mondo di oggi, per poterlo comprendere e, quando è il caso, sforzarsi di cambiarlo in meglio.
Sì, se ragioniamo così, la scuola può e deve diventare la migliore palestra della gioventù.
  


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