Il
volgo valuta le amicizie sulla base dell'utilità.
È
un'amara constatazione che può fare chi sia rimasto deluso dal
comportamento di qualcuno, che dichiarava di essergli unito da un
legame di affetto, o, più in generale, che si proclamava suo amico,
ma che alla prova dei fatti – gli unici che contano perché, come
ben sappiamo, le chiacchiere stanno a zero – si è rivelato mosso
da mire esclusivamente opportunistiche.
Questo
pentametro (= verso di cinque piedi, cioè di cinque raggruppamenti
di sillabe brevi e lunghe, secondo la metrica greco-latina) fa parte
delle Epistulae ex Ponto
(Lettere dal Mar Nero), composte dal poeta latino Ovidio durante la
sua lunga relegazione a Tomi, (l'odierna Costanza in Romania) sulle
rive del Mar Nero. Il distico (= coppia di versi), di cui fa parte,
comprende i versi 7 – 8 della terza epistola del II libro:
Turpe
quidem dictu, sed —si modo vera fatemur—
vulgus
amicitias utilitate probat.
Certo,
è vergognoso a dirsi, ma – se proprio vogliamo essere sinceri –
il
volgo valuta le amicizie sulla base dell'utilità.
Lo
stesso poeta nei Tristia (II, 1, 207) accenna di sfuggita alle
due probabili cause, che nell'8 d. C. spinsero l'imperatore Augusto a
decidere la sua improvvisa relegazione, ma le allusioni sono così
concise da risultare enigmatiche. Infatti egli le individua in un
carmen e in un error, una poesia e un errore, su cui
stanno ancora discutendo e questionando i critici letterari. Il
carmen potrebbe essere l'Ars amatoria, un'opera un po'
troppo audace e licenziosa in confronto all'austera politica
moralizzatrice di Augusto, però teniamo presente che fu scritta
nell'1 a. C. o d. C., cioè sei o sette anni prima e, quindi,
notevolmente lontana nel tempo. Qualcuno ha ipotizzato che la poesia
incriminata fosse il lungo brano del suo capolavoro, le Metamorfosi
(XV, 60 – 478), in cui Ovidio introduce Pitagora a parlare
della metempsicosi e del vegetarianismo, due modi di concepire la
vita e la morte, ben differenti dal mos maiorum (il rigido e
ruvido costume degli antenati) e, perciò, sentiti come poco romani e
troppo esotici. Anche l'error ha dato adito alle
interpretazioni più disparate, tra cui, forse, la più plausibile è
che egli sia stato al corrente o abbia in qualche modo favorito la
tresca della nipotina di Augusto, Giulia minore, con un certo Decimo
Giunio Silano. Ella fu esiliata dal nonno l'anno dopo (9 d. C.) nelle
isole Tremiti, dove morì nel 28 o 29 d. C. Ovidio, invece, morì a
Tomi nel 17 d. C., qualcuno dice nel 18.
Ritornando
alla frase del titolo, è abbastanza chiaro il motivo per cui l'abbia
scritta: una volta che fu costretto ad allontanarsi da Roma, molti
suoi precedenti “amici” gli voltarono le spalle, perché non
poteva più essere utile a loro – fino ad allora era un poeta
famoso e ricercato nei salotti letterari dell'Urbe – e ci fu pure
chi si approfittò della sua assenza per cercare di impossessarsi del
suo patrimonio, fingendo di corteggiarne la moglie Fabia, che era
rimasta a Roma ad amministrarlo.
Se
dopo tanti secoli può consolarlo, lo invito a riflettere su questa
sentenza di S. Girolamo:
un'amicizia,
che può finire, non è mai stata sincera.
Nessun commento:
Posta un commento