giovedì 31 dicembre 2020

Anni e mal-anni

Alla fine di un'annata
che non si è ben comportata,
quali sono le parole
che ciascuno sentir vuole?
Oggi i tempi sono duri...
ma facciamoci gli auguri:
"che ritorni nudo il viso,
per godere di un sorriso;
che si stringano le mani
con fiducia nel domani;
che si accorci la distanza
sia al negozio che in vacanza.
Via la pena, via l'affanno!"
Tanti auguri di Buon Anno!
 

venerdì 25 dicembre 2020

Tanti auguri di...

Buon Natale! 

a tutti i miei lettori, sia a quelli fedelissimi - i miei lettori fissi - sia a quelli di passaggio. A tutti giunga il mio auspicio di una felice conclusione del funesto 2020.

Il vostro

Ollecram

                                                        

                                          

lunedì 21 dicembre 2020

Il Natale è sempre più vicino...

La poesia più bella dedicata al Natale è, a mio parere, La Notte Santa, scritta da Guido Gozzano, un intellettuale un po' snob, ondeggiante tra lo scetticismo dissacratore, indossato quasi a bella posta come una corazza contro l'insidia dei sentimenti, e l'aspirazione a una visione mistica della vita, di cui è innegabile che provasse un'acuta nostalgia. E' una poesia semplice, diretta, immediata, che parla al cuore, senza il filtro deviante e raggelante del ragionamento sofistico:

La Notte Santa

- Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
Presso quell'osteria potremo riposare,
ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.
Il campanile scocca
lentamente le sei.
- Avete un po' di posto, o voi del Caval Grigio?
Un po' di posto per me e per Giuseppe?
- Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe
Il campanile scocca
lentamente le sette.
- Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
Mia moglie più non regge ed io son così rotto!
- Tutto l'albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
Tentate al Cervo Bianco, quell'osteria più sotto.
Il campanile scocca
lentamente le otto.
- O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
avete per dormire? Non ci mandate altrove!
- S'attende la cometa. Tutto l'albergo ho pieno
d'astronomi e di dotti, qui giunti d'ogni dove.
Il campanile scocca
lentamente le nove.
- Ostessa dei Tre Merli, pietà d'una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!
- Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi persiani, egizi, greci...
Il campanile scocca
lentamente le dieci.
- Oste di Cesarea... - Un vecchio falegname?
Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
L'albergo è tutto pieno di cavalieri e dame
non amo la miscela dell'alta e bassa gente.
Il campanile scocca
le undici lentamente.
 La neve! - Ecco una stalla! Avrà posto per due?
Che freddo! Siamo a sosta. Ma quanta neve, quanta!
Un po' ci scalderanno quell'asino e quel bue...
Maria già trascolora, divinamente affranta...
Il campanile scocca
La Mezzanotte Santa.
È nato!
Alleluja! Alleluja!
È nato il Sovrano Bambino.
La notte, che già fu sì buia,
risplende d'un astro divino.
Orsù, cornamuse, più gaje
suonate; squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!
Non sete, non molli tappeti,
ma, come nei libri hanno detto
da quattro mill'anni i Profeti,
un poco di paglia ha per letto.
Per quattro mill'anni s'attese
quest'ora su tutte le ore.
È nato! È nato il Signore!
È nato nel nostro paese!
Risplende d'un astro divino
La notte che già fu sì buja.
È nato il Sovrano Bambino.
È nato!
Alleluja! Alleluja!



domenica 20 dicembre 2020

Il Natale si avvicina...

Tra pochi giorni sarà Natale, ma quest'anno - purtroppo - non si riesce a percepire quell'atmosfera particolare, che ha sempre caratterizzato la magia del Natale. Per questo mi è motivo di conforto ripensare al beato tempo della mia infanzia, quando, ancora bambino ingenuo, mi stupivo e mi emozionavo per il clima festoso e misterioso, che avvolgeva i giorni di questo periodo incantato. Che suggestione provocava in me il suono delle zampogne! Una delle poesie, che io sento più evocativa, più natalizia in tutti i sensi, è quella di Giovanni Pascoli, intitolata Le ciaramelle (= Le zampogne), che nel corso degli anni più volte mi è stata fatta leggere e imparare a memoria a scuola, ma mi è rimasta scolpita nel cuore. Eccola:

Udii tra il sonno le ciaramelle,
ho udito un suono di ninne nanne.
Ci sono in cielo tutte le stelle,
ci sono i lumi nelle capanne.
Sono venute dai monti oscuri
le ciaramelle senza dir niente;
hanno destata ne' suoi tuguri
tutta la buona povera gente.
Ognuno è sorto dal suo giaciglio;
accende il lume sotto la trave;
sanno quei lumi d'ombra e sbadiglio,
di cauti passi, di voce grave.
Le pie lucerne brillano intorno,
là nella casa, qua su la siepe:
sembra la terra, prima di giorno,
un piccoletto grande presepe.
Nel cielo azzurro tutte le stelle
paion restare come in attesa;
ed ecco alzare le ciaramelle
il loro dolce suono di chiesa;
suono di chiesa, suono di chiostro,
suono di casa, suono di culla,
suono di mamma, suono del nostro
dolce e passato pianger di nulla.
O ciaramelle degli anni primi,
d'avanti il giorno, d'avanti il vero,
or che le stelle son là sublimi,
consce del nostro breve mistero;
che non ancora si pensa al pane,
che non ancora s'accende il fuoco;
prima del grido delle campane
fateci dunque piangere un poco.
Non più di nulla, sì di qualcosa,
di tante cose! Ma il cuor lo vuole,
quel pianto grande che poi riposa,
quel gran dolore che poi non duole;
sopra le nuove pene sue vere
vuol quei singulti senza ragione:
sul suo martòro, sul suo piacere,
vuol quelle antiche lagrime buone!

  

martedì 15 dicembre 2020

Non vitae sed scholae discimus (ahimè!)

Permettetemi di citare me stesso e di ricollegarmi a un mio post scritto alcuni mesi fa: il 25 giugno, per la precisione. Citavo una frase del filosofo Seneca che, polemicamente, affermava il contrario di quanto effettivamente pensasse, rammaricandosi che si studiasse per la scuola e non per la vita. Chi, come me, ha una notevole esperienza di scuola, sa bene che è molto difficile trovare dei ragazzi o delle ragazze, che vedano nello studio qualche cosa di diverso da un mezzo per ottenere un bel voto, con la conseguenza di farsi apprezzare dai professori e risultare vincitori - o, almeno, non perdenti - nella quotidiana gara di vanità con i compagni. Un tempo questa concezione distorta, gretta e utilitaristica dello studio poteva anche avere una sua giustificazione, perché l'inesistenza di quella ridicola oscenità, che risponde al nome di interrogazione programmata, costringeva i ragazzi a un serio studio quotidiano, dato che si poteva essere interrogati ogni giorno (senza preavviso) e anche più volte di seguito, come capitò una volta pure a me in III liceo, che fui interrogato in italiano tre volte nella stessa settimana, ottenendo 7-, 7 e 7 e mezzo, mentre la mia professoressa di volta in volta pensava di trovarmi impreparato, credendo che io mi illudessi di non poter essere interrogato, essendo stato appena interrogato prima una volta e poi ben due volte in pochi giorni. Un tempo, dunque, non ci si poteva cullare sugli allori di un buon voto, confidando nel fatto che il professore potesse riinterrogarci una seconda volta solo dopo aver sentito tutti gli altri. Questo per chiarire che, bene o male, bisognava portare avanti uno studio continuo e coerente, che alla fine dava i suoi frutti e lasciava il segno, perché il dopo presupponeva in continuazione un prima e alla fine si possedeva una visione d'insieme, che permetteva una conoscenza sintetica dell'argomento, basata però sullo studio analitico condotto momento per momento. 
Adesso, invece, è uno sfacelo: lezione per lezione il professore spiega, ma nessuno studia, perché tutti aspettano che si fissino le date per l'interrogazione di ciascuno. Si incomincia a studiare una settimana prima, se tutto va bene, perché a breve distanza potrebbe esserci un'altra interrogazione o uno o più compiti in classe e allora manca la terra sotto i piedi e subentra l'ansia, l'agitazione e l'angoscia. Nei pochi giorni disponibili (rimasti a disposizione per la scelta sbagliatissima dello studente) si è costretti alla classica ammazzata, studiando giorno e notte per prendere un bel voto. Però è ovvio che ciò che si è studiato in pochi giorni, con una notevole tensione intellettuale, sarà dimenticato e svanirà dalla mente, quando quella tensione si allenterà: entro quindici o venti giorni non si ricorderà più niente o, tutt'al più, resterà una grande confusione nella testa. Purtroppo è così e non ci sono eccezioni. Mi risulta di persona, avendo chiesto dopo uno o due mesi degli argomenti già studiati (!) e su cui, oltretutto, si era preso un bel voto: buio assoluto. Se poi gli studenti o le studentesse in questione devono affrontare un esame di maturità, in cui, anche se in modo limitato e non su tutte le materie, bisogna saper rispondere sul programma di tutto l'anno, le cose si complicano, perché è necessaria anche un'ulteriore maxi-ammazzata, non su pochi argomenti ma su tutto il programma.
Oggi studiare per la scuola significa questo, una cosa perfettamente in linea con il carrierismo e la frenesia della vita moderna, con il materialismo e il consumismo. E' uno studio (seguitiamo a chiamarlo così?) che si può definire: USA E GETTA.
Che cosa significhi studiare per la vita lo vedremo un'altra volta.            

venerdì 11 dicembre 2020

Ha da passa' 'a nuttata

Questa famosa battuta contenuta nella commedia "Napoli milionaria" di Eduardo De Filippo ben si adatta ai nostri tempi, funestati dal Covid-19. E' un invito alla pazienza, nella consapevolezza della fondamentale e ineliminabile temporalità in cui nasce, si sviluppa e si esaurisce ogni realtà umana e terrena e, quindi, anche questo maledetto virus. Pazienza: altro non si può fare, al di là delle poco affidabili promesse, spacciate per certezze, da parte dei politici e dell'imbarazzante e contraddittoria sicumera ostentata dai cosiddetti scienziati. In natura tutto è sottomesso al tempo, al dì succede la notte e a ogni notte succede una nuova alba, come indica appunto il titolo di un mio romanzo - scusate se mi cito - composto nel 2017: "E infine spuntò l'alba". 
Ma per restare nel tema specifico di questo blog, voglio avvalorare la battuta del titolo con l'autorevole testimonianza di Quinto Orazio Flacco (Odi, II, 10, vv. 17-18):

Non, si male nunc, et olim / sic erit
Se ora le cose vanno male, non sarà così anche in futuro

Aspettiamo pazientemente e intanto prendiamo tutte le precauzioni possibili.


mercoledì 9 dicembre 2020

Maiora premunt

Questa espressione latina, "urgono cose più importanti", è stata scritta da Marco Anneo Lucano, nipote di Lucio Anneo Seneca, che, però, l'ha usata con un significato ben diverso da quello che comunemente gli attribuiamo. Nel suo poema epico, intitolato La guerra civile o anche La Farsaglia, Lucano racconta la guerra civile tra Cesare e Pompeo, desiderosi entrambi di impadronirsi del supremo potere. Essa è preceduta da vari prodigi, che fanno presagire gli orrori a cui essa darà origine (Libro I, vv. 673 - 674):

   Terruerant satis haec pauidam praesagia plebem,
sed maiora premunt
(Questi presagi avevano atterrito abbastanza il popolo timoroso,
ma se ne aggiungono altri ancora maggiori).

Noi, invece, citiamo questa frase con un altro scopo, per spiegare, cioè, che trascuriamo certe cose, per dedicarci ad altre che ci appaiono di maggior valore. Si tratta dello stesso senso contenuto nell'anonima sentenza medievale:

De minimis non curat praetor
(Il pretore non si cura di cose di poca importanza)

Tra le due frasi preferisco la prima, sia perché è una citazione tratta da un autore classico, sia perché ho l'impressione che la seconda non possa essere pronunciata se non con aria supponente da qualcuno che abbia la puzza sotto il naso. E mi fermo qui, anche perché maiora premunt...


venerdì 4 dicembre 2020

Oggi parliamo... del poliptoto

Tranquilli! Non è una parolaccia e neppure il nome di una malattia. Si tratta di una figura retorica che consiste nell'usare più volte la stessa parola declinandola o coniugandola in modi diversi. Molto usata nel greco e nel latino, due lingue che, avendo i cosiddetti casi, possono presentare lo stesso nome, pronome o aggettivo con tante desinenze diverse, non è rara nemmeno nella poesia italiana. Eccone quattro esempi significativi:

Cred'io ch'ei credette ch'io credesse
(Dante, Inferno, XIII, 25)

io credea e credo, e creder credo il vero,
ch'amassi et ami me con cor sincero
(Ariosto, Orlando Furioso, IX, 23, 7-8)

Ahi! tanto amò la non amante amata
(Tasso, Gerusalemme Liberata, II, 28, 8)

Ed eccone due latini:

si canimus silvas, silvae sint consule dignae
(se cantiamo le selve, le selve siano degne del console)
(Virgilio, Ecloghe, IV, 3)

Scire tuum nihil est, nisi te scire hoc sciat alter?
(il tuo sapere non è nulla, se un altro non sa che tu sai?)
(Persio, Satire, I, 27)

Tutto ciò produce un innegabile potenziamento degli effetti espressivi ed è - a mio parere - assai carino, anche se molti pensano che sia qualcosa di ridicolo e ormai passato di moda. Già, come il disinteresse e le buone maniere...  







  

Post in evidenza

Festìna lente

Questo motto latino, tuttora molto usato, significa: affréttati lentamente, e pare che fosse pronunciato spesso dall'imperatore Augusto,...