lunedì 28 febbraio 2022

La commedia quotidiana


L'equazione “vita = teatro” è tanto spontanea da apparire ovvia e scontata, eppure su di essa si sono soffermati gli spiriti pensosi di tutti i tempi. Primo fra tutti Pirandello, ma anche il poeta satirico inglese del XVIII secolo Alexander Pope (“recita bene la tua parte, in questo consiste l'onore”), per non parlare dell'imperatore Augusto che, poco prima di morire, pare che abbia detto rivolto ai presenti: “Acta est fabula. Plaudite!” (= La commedia è finita. Applaudite!). Sempre nel mondo latino c'è un altro personaggio illustre, che ha stabilito un paragone tra il contenuto delle sue poesie e il teatro tragico. Alludo a Giovenale, che nelle sue Satire denuncia con toni aspri e taglienti l'infamia, la corruzione e l'immoralità dei suoi tempi. Però lo sfiora il dubbio che i lettori possano pensare che l'enormità di tante nefandezze sia stata esagerata da lui e non corrisponda alla realtà. Per questo nella satira VI (vv. 634 – 642) egli afferma di essere consapevole che la sua è una satira drammatica, che, pur ispirandosi alla realtà, non ha nulla da invidiare ai miti più truculenti portati sulla scena dai tragediografi.

Fingimus haec altum satura sumente coturnum
scilicet, et finem egressi legemque priorum
grande Sophocleo carmen bacchamur hiatu,
montibus ignotum Rutulis caeloque Latino?
nos utinam uani. sed clamat Pontia 'feci,
confiteor, puerisque meis aconita paraui,
quae deprensa patent; facinus tamen ipsa peregi'
tune duos una, saeuissima uipera, cena?
tune duos? 'septem, si septem forte fuissent.'


[È comprensibile: chi può credere che io non mi stia inventando tutto, mentre la mia satira calza l'alto coturno e, avendo oltrepassato i limiti e le regole di chi mi ha preceduto, non stia declamando a gran voce come un invasato, alla pari di Sofocle, una poesia altisonante ignota ai monti dei Rutuli e al cielo latino? Magari m'inventassi tutto. Ma Porzia grida:
“Sono stata io – lo confesso – e ho preparato il veleno per i miei figli; è tutto chiaro e mi hanno colta sul fatto. Sicuro, proprio io ho commesso il delitto.”
<Tu, crudelissima vipera, ne hai uccisi due in una sola cena? Tu... addirittura due?>
“Anche sette, se mai fossero stati sette!”]

sabato 26 febbraio 2022

Oggi è il compleanno...

... della mia carissima mogliettina Rosalba. A lei rivolgo gli auguri più sinceri e più affettuosi di ogni bene. 
 
BUON COMPLEANNO 


 


lunedì 21 febbraio 2022

Che cosa siamo?

Ho letto con molto interesse i post di Sergio Bressan sull'origine del motto delfico Γνῶθι σεαυτόν [= conosci te stesso], ben dettagliati e argomentati [pubblicati nel Gruppo facebook "Filosofia antica e dintorni"]. Senza avere la pretesa di aggiungere qualcosa di particolarmente significativo, vorrei allargare il discorso, per dimostrare quanto questo motto sapienziale sia stato tenuto presente nei secoli successivi, anche da parte di esponenti culturali non necessariamente filosofi di professione e sia diventato il cardine di un atteggiamento eticamente esemplare. Voglio parlare del poeta satirico latino Aulo Persio Flacco, vissuto nel fosco periodo neroniano e avviato alla filosofia stoica dal suo maestro Lucio Anneo Cornuto.
Nella sua III satira, volta a rimproverare un ragazzo, che pensa solo a ubriacarsi e a divertirsi, trascurando gli studi e il perfezionamento morale, Persio formula dieci domande, davvero ineludibili, a cui nessuno può pensare di sottrarsi, perché, come il poeta dice al giovane debosciato: tibi luditur = sei tu ad essere in gioco (Sat. III, 20). Ecco le dieci domande del “questionario” persiano, ricavate dai versi 66 – 72 della terza satira:

1. Che cosa siamo?

2. Per quale vita siamo stati messi al mondo?

3. Quale posto ci è stato assegnato?

4. Qual è il modo e il punto più adatto per girare intorno alla meta?

5. Qual è la giusta misura per la ricchezza?

6. Che cos'è lecito desiderare?

7. Qual è l'utilità della ruvida moneta?

8. Quanto è giusto dare alla patria e ai cari parenti?

9. Il dio chi ha voluto che tu fossi?

10. Quale ruolo ti è stato assegnato nella condizione umana?

Tengo a precisare che il poeta ci presenta solo le domande, ma, a differenza di un vero e proprio catechismo, non ci fornisce le risposte, lasciando a noi la responsabilità e la soddisfazione di elaborarle. Però, se noi esaminiamo con cura le sue sei satire, possiamo trovare degli spunti che ci facilitano la ricerca delle risposte. Fermiamoci a riflettere sulla prima.
Nel verso 7 della prima satira Persio pronuncia una sentenza: “non cercarti al di fuori di te” (nel testo latino: “nec te quaesiveris extra”), originale rielaborazione della massima più famosa del pensiero umano: Γνῶθι σεαυτόν (= conosci te stesso), incisa sul frontone del tempio di Apollo a Delfi. Chi non si sforza di conoscere se stesso, è condannato ad ignorare gran parte della propria personalità, ad accettare in modo acritico le mode e le idee dominanti, a cui non può contrapporre nessun pensiero veramente suo: in poche parole, ad essere succube del pensiero unico, del conformismo, della più abietta e ridicola omologazione. Cercarsi nel proprio animo, perdersi nella propria dimensione interiore significa anche – e soprattutto – prendere coscienza e possesso della propria singolarità, ancorarsi a una realtà che trascende la banale, pur se apprezzabile, corporeità e che apre, o può aprire, inaspettati orizzonti.
L'emistichio collocato nella seconda metà del settimo esametro della prima satira, non è stato apprezzato come meriterebbe. Infatti, anche i filologi estimatori di Persio, che non sono molti, tendono a banalizzarlo, proponendo una sterile alternativa, che non conduce a grandi esiti interpretativi: il futile dilemma è se considerare il te come complemento oggetto di quaesiveris (= non cercarti al di fuori), oppure in dipendenza di extra (= non cercare [chi? che cosa?] al di fuori di te). Io preferisco sdoppiare il te e collegarlo sia al verbo che alla preposizione: "non cercarti al di fuori di te". In questo modo otteniamo un pensiero molto profondo, che ci invita alla ricerca dell'autocoscienza. Si tratta in definitiva dell'esigenza di riappropriarci della nostra identità, unica e irripetibile, senza tener conto dei diversissimi giudizi emessi dagli altri sulla nostra natura e sul nostro comportamento; si pone, altresì, il problema di scavare nelle profondità del nostro io, per cercare di capire chi siamo veramente (corpo? spirito? anima e corpo? E, in questo caso, in che rapporto reciproco?) e quale sia il dovere che siamo chiamati a svolgere nella vita: quale sia – cioè – la nostra vocazione. Ma questo rientra nella seconda domanda ed è un altro problema.

venerdì 11 febbraio 2022

A che serve il latino?

A volte chi ha studiato il latino, anche in modo abbastanza approfondito, per una malintesa forma di salamonica (pardon: salomonica) imparzialità o per un meschino tentativo di "captatio benevolentiae" nei confronti dei profani rinnega idealmente tanti anni di studio - forse svolto malvolentieri - e sostiene da vero esperto (lui sì che se ne intende...) l'inutilità di questa lingua, troppo (!) morta per essere ancora utile a qualche cosa. Ma chi ha stabilito che il latino debba servire? E' forse una domestica, che ci serve il pranzo a tavola? E' un martello, una tenaglia, un cacciavite, uno scalpello, che ci possa servire nei lavoretti di bricolage? E' una pompa di benzina, con cui fare il pieno? No, forse "utile" è una parola sbagliata: io lo definirei, piuttosto: prezioso. Però, bisogna inquadrare bene l'oggetto della discussione, altrimenti può capitare che mentre uno con il dito indica la luna, l'interlocutore furbetto sottolinei con sussiego che l'unghia dell'indice è leggermente annerita.
Alla ricerca di un potente alleato citerò una pagina memorabile di Antonio Gramsci, tratta dai "Quaderni dal carcere":

"Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno. Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete. Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali."

Non ci sarebbe niente da aggiungere a un discorso così meditato e persuasivo, però, dato che sono stato io ad iniziare questa apologia del latino, permettetemi anche di concluderla. Nella prefazione a un mio libro dedicato alle Epistole di Orazio, intitolato: "Tanti saluti da Orazio" (Kimerik 2014, ebook), a un certo punto mi esprimevo così:
"A che serve lo studio del latino e del greco? Questa domanda mi ha perseguitato per tanti anni - dopo la maturità classica mi sono laureato in Lettere antiche - e il più delle volte mi ha lasciato nell'imbarazzo: come rispondere in modo convincente a chi ignora l'argomento del proprio quesito? Oltre tutto simili parole sono accompagnate di solito da un sorrisetto di superiorità, che anticipa la risposta già implicita nella domanda: <A niente!>. La vita mi ha insegnato che - se c'è - la verità consiste più nel fare che nel dire... Pertanto, se riuscirà a destare un minimo interesse o a suscitare anche un solo fuggevole sorriso, la presente opera sulle Epistole di Quinto Orazio Flacco sarà stata - ne sono convinto - la migliore risposta."

martedì 8 febbraio 2022

Una poetessa spregiudicata


Per uno strano gioco del destino le due uniche poetesse latine di un certo spessore, di cui ci sono giunti testi e notizie, si chiamavano entrambe Sulpicia. La prima, vissuta nel I secolo a. C., era la figlia di Valeria, sorella di Marco Valerio Messalla Corvino, che diventò il suo tutore quando ella diventò orfana alla morte dell'oratore Servio Sulpicio Rufo, marito di Valeria. Sulpicia, che poté giovarsi di un'educazione e di un'istruzione raffinate, fece parte del circolo letterario diretto dallo zio, che in un certo senso rivaleggiava con il contemporaneo e più potente circolo di Mecenate. Nell'ultima sezione del Corpus Tibullianum sono contenuti alcuni componimenti attribuiti alla giovane poetessa: cinque elegie – il cosiddetto ciclo di Sulpicia – la cui attribuzione è controversa, e sei altre brevi elegie, definite elegidia, attribuibili senz'altro a lei. Sicura di sé e sincera nell'esprimere i suoi sentimenti, nei suoi versi si dimostra una ragazza appassionata, che non prova alcuna vergogna a sfidare le convenzioni sociali, prendendo l'iniziativa nei confronti dell'amato.
Ma non è di lei che voglio parlare, dato che bene o male è abbastanza conosciuta, bensì della sua omonima, praticamente ignorata da tutti, dal momento che di lei ci sono rimasti due soli versi. La seconda Sulpicia visse nel I secolo d. C. al tempo di Domiziano e pare che fosse in buoni rapporti con il poeta Marziale, che non risparmia lodi nei confronti di lei e di suo marito Caleno. Ma vediamo per quali motivi l'epigrammista ispanico ne parla tanto bene:

(X, 35)
Omnes Sulpiciam legant puellae,
uni quae cupiunt viro placere;
omnes Sulpiciam legant mariti,
uni qui cupiunt placere nuptae.
Non haec Colchidos adserit furorem
diri prandia nec refert Thyestae;
Scyllam, Byblida nec fuisse credit:
sed castos docet et probos amores,
lusus, delicias facetiasque.
Cuius carmina qui bene aestimarit,
nullam dixerit esse nequiorem,
nullam dixerit esse sanctiorem.
Tales Egeriae iocos fuisse
udo crediderim Numae sub antro.
Hac condiscipula vel hac magistra
esses doctior et pudica, Sappho:
sed tecum pariter simulque visam
durus Sulpiciam Phaon amaret.
Frustra: namque ea nec Tonantis uxor
nec Bacchi nec Apollinis puella
erepto sibi viveret Caleno.

“Leggano Sulpicia tutte le ragazze, che vogliono piacere a un solo uomo; leggano Sulpicia tutti i mariti, che vogliono piacere alla sola sposa. Costei non presenta il furore di Medea né descrive i pranzi del malvagio Tieste; né crede che siano esistite Scilla e Biblide: ma insegna amori casti e onesti, scherzi, tenerezze e motti di spirito. E se uno valuterà bene le sue poesie, dirà che non c'è una donna più sfrontata di lei, che non ce n'è una più onesta. Potrei pensare che di questo tipo fossero stati i giochi amorosi di Egeria e Numa nell'umida caverna. O Saffo, con questa condiscepola o con questa maestra saresti stata più dotta e pudica: avendola vista nello stesso tempo insieme a te, l'insensibile Faone avrebbe amato Sulpicia. Ma inutilmente: e infatti lei non avrebbe voluto vivere né come sposa di Giove, né come amante di Bacco o di Apollo, una volta che le fosse stato tolto il suo Caleno.”

Come abbiamo visto, la simpatia di Marziale per Sulpicia è duplice. Da un lato l'apprezza come poetessa, che rifiuta le invenzioni immaginarie degli argomenti mitologici, vedendo in lei una specie di alter ego al femminile; dall'altro, l'ammira come donna, che non si vergogna di esprimere con la massima franchezza il suo desiderio di intimità con l'amatissimo marito Caleno: quindi “sfrontata” perché parla di argomenti sessuali senza lo schermo dell'ipocrisia, ma “pudica”, perché la sua concupiscenza è rivolta esclusivamente al marito. Il poeta spagnolo dedica a questa coppia di sposi anche l'epigramma X, 38, felicitandosi con Caleno per i quindici anni vissuti e goduti a fianco della bella consorte:

O molles tibi quindecim, Calene,
Quos cum Sulpicia tua iugales
Indulsit deus et peregit annos!
O nox omnis et hora, quae notata est
Caris litoris Indici lapillis!
O quae proelia, quas utrimque pugnas
Felix lectulus et lucerna vidit
Nimbis ebria Nicerotianis!
Vixisti tribus, o Calene, lustris:
Aetas haec tibi tota conputatur
Et solos numeras dies mariti.
Ex illis tibi si diu rogatam
Lucem redderet Atropos vel unam,
Malles, quam Pyliam quater senectam.

“O Caleno, che anni deliziosi, i quindici anni di matrimonio che il dio ti ha concesso e ti ha fatto vivere con la tua Sulpicia! Che notti, che ore, tutte scandite dalle preziose perle della costa indiana! Che battaglie, che scontri avvenuti tra voi due, hanno visto con gioia il letto e la lucerna profumata di essenze di Nicerote! Caleno, sei vissuto per tre lustri: questo è tutto il tempo che ti viene calcolato, tu tieni il conto solo dei giorni vissuti da marito. Se, dopo averglielo chiesto a lungo, Atropo ti restituisse anche uno solo di quei giorni, tu lo preferiresti al quadruplo della vecchiaia di Nestore.”

In passato alcuni hanno preteso di attribuire a Sulpicia i 70 versi della Sulpiciae conquestio, una satira rivolta contro la decisione di Domiziano di allontanare da Roma i filosofi, tra cui ci sarebbe stato anche Caleno. Ma pare che ragioni linguistiche spingano la sua collocazione temporale fino al IV-V secolo d. C. Perciò che cosa ci è rimasto di veramente suo? Solo un misero frammento di due versi, sufficienti, però, a darci un'idea di quella poesia erotica a cui allude Marziale. I due trimetri giambici fanno parte di uno scolio a Giovenale, rinvenuto nel XV secolo dall'umanista Giorgio Valla:

"Si me cadurci restitutis fasciis
nudam Caleno concubantem proferat"

“Se, una volta aggiustate le cinghie del materasso, mi mostrasse nuda mentre sono a letto con Caleno.”

Manca il soggetto di proferat, che, probabilmente, è la stessa lucerna menzionata da Marziale nel settimo verso del secondo epigramma.
Senza dubbio una poetessa molto simpatica nella sua autenticità, che però è destinata a restare poco più di un nome, data la perdita irreparabile di tutti i suoi scritti tranne due versi. E pensare che sono stati conservati fino a noi, straletti e stracommentati tanti scrittori scialbi e inconcludenti, che fanno la gioia di altrettanti filologi loro simili... 

mercoledì 2 febbraio 2022

Da Swift a... Giovenale

Uno dei classici moderni da me più apprezzati è il romanzo "I viaggi di Gulliver", indegnamente retrocesso nel genere della letteratura per l'infanzia. È stato un escamotage dei benpensanti, sostenitori del “politicamente corretto” e delle “magnifiche sorti e progressive”, per annacquare – se non per annullare – lo spirito corrosivo e velenoso di Jonathan Swift, mettendo in ombra la sua satira aspra e tagliente, la sua visione impietosa della società, assolutamente irredimibile. Swift è stato un geniale discepolo del grande Giovenale e, come tutti gli alunni di valore, ha superato il maestro, almeno dal punto di vista dell'estro e della fantasia. Lilliput, con la sua popolazione di minipigmei, è uno schiaffo all'umanità – perenne – gonfia e tronfia, che non perde l'occasione per vantarsi di meriti pseudoculturali, pseudopolitici, pseudoreligiosi, pseudo...tutto, perché ha perduto la coscienza dell'autenticità. Ha smarrito il senso della sua identità, ma non si interroga, per cercare di recuperarla – no: sarebbe indice di umiltà – bensì, si reinventa un'identità posticcia, che, data la volubilità del suo autore, oggi è così e domani... chi lo sa?
Vediamo che cosa ne pensava il suo illustre predecessore, il satirico aquinate.
Nella Satira XV egli descrive uno scontro tra due popolazioni egiziane, che culmina con un aberrante episodio di cannibalismo. Giovenale, considerando l'energia fisica impiegata dalle due parti nel combattimento, osserva che siamo ben lontani dalla forza erculea messa in mostra dagli eroi, che combatterono sotto le mura di Troia. E nei versi 69 – 71 spiega:

Nam genus hoc vivo iam decrescebat Homero,
terra malos homines nunc educat atque pusillos;
ergo deus, quicumque aspexit, ridet et odit.
Infatti il genere umano già andava indebolendosi, mentre Omero era ancora vivo: ora la terra fa nascere uomini malvagi e meschini; pertanto un dio che li guardi – chiunque egli sia –, ride e li odia.

Da notare che Giovenale usa il termine pusillos, che, mentre denigra il loro aspetto fisico, indicando una corporatura minuta, minuscola (lillipuziani?!), svaluta anche le loro – presunte – doti intellettuali e morali (infatti la mia traduzione: “meschini” è ambivalente). Inoltre, utilizza la parola “odia” non “disprezza”, perché, se un dio disprezza la meschinità umana, se ne infischia altamente, ma se la odia, farà di tutto per fargliela pagare. È la phthònos tòn theòn [= l'invidia degli dei], presente nelle Storie di Erodoto e in tante tragedie greche.

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Festìna lente

Questo motto latino, tuttora molto usato, significa: affréttati lentamente, e pare che fosse pronunciato spesso dall'imperatore Augusto,...