giovedì 16 febbraio 2023

Seneca e l'ingratitudine

Il filosofo stoico Lucio Anneo Seneca, tra i tanti libri scritti in diversi generi letterari – consolazioni, trattati filosofici, lettere morali, opere scientifiche, tragedie, un pamphlet satirico contro l'imperatore Claudio – ha composto anche un ponderoso trattato morale in sette libri, intitolato De beneficiis, in cui si sofferma a riflettere sull'ingratitudine umana, per cui egli nutre un profondo disprezzo. Tra le tante osservazioni apprezzabili una mi ha colpito particolarmente (II, 27) per la sua estrema semplicità:


Non patitur aviditas quemquam esse gratum

L'avidità non permette a nessuno di essere riconoscente”.


Ciò significa che, per tutto il tempo in cui il beneficio è in atto, e risultano gratificati i desideri egoistici del beneficato – quelli che Seneca definisce aviditas –, egli mostra a parole la sua gratitudine, che si dilegua in un baleno, quando il beneficio si è concluso.

Inoltre assai profonde e – ahimè! – veritiere sono le considerazioni di Seneca contenute all'inizio del libro III:


Non referre beneficiis gratiam et est turpe et apud omnes habetur, Aebuti Liberalis; ideo de ingratis etiam ingrati queruntur, cum interim hoc omnibus haeret, quod omnibus displicet, adeoque in contrarium itur, ut quosdam habeamus infestissimos non post beneficia tantum sed propter beneficia. Hoc pravitate naturae accidere quibusdam non negaverim, pluribus, quia memoriam tempus interpositum subducit... Multa sunt genera ingratorum, ut furum, ut homicidarum, quorum una culpa est, ceterum in partibus varietas magna; ingratus <est,> qui beneficium accepisse se negat, quod accepit, ingratus est, qui dissimulat, ingratus, qui non reddit, ingratissimus omnium, qui oblitus est.

È vergognoso, e tutti lo considerano tale, il non mostrare riconoscenza, quando si è ricevuto un beneficio, o Ebuzio Liberale; perciò anche gli ingrati si lamentano degli ingrati, mentre questo vizio, che dispiace a tutti, resta attaccato a tutti, e si arriva fino a una tale assurdità, che certi ci diventano assai ostili non soltanto dopo i benefici ma proprio a causa dei benefici ricevuti. Non potrei negare che questo accada ad alcuni per la malvagità della loro natura, ma ai più perché il tempo trascorso cancella i loro ricordi... Ci sono parecchi tipi di ingrati, come di ladri e di omicidi, ma la loro colpa è unica, pur in una grande varietà di modi: è ingrato chi nega di aver ricevuto il beneficio, che invece ha ricevuto; è ingrato chi lo minimizza; è ingrato chi non lo ricambia, ma il più ingrato di tutti è chi se ne dimentica.”


Concludo con un mio commento.

Il metodo infallibile per inimicarsi una persona è di farle dei benefici. Finché essa seguiterà a goderne, userà parole dolci che trasudano stima, riconoscenza e affetto. Ma quando il beneficio ricevuto si sarà esaurito, dopo aver completato il suo effetto vantaggioso, l'orgoglio di chi è stato beneficato, fino ad allora rimasto assopito perché sovrastato dall'opportunismo e dal godimento dell'utile personale, tornerà in primo piano e metterà in luce l'indole reale del soggetto in questione. Non potendo sopportare il peso intollerabile della gratitudine, il beneficato troncherà villanamente i rapporti, con l'illusione che, nascondendo la testa sotto la sabbia, il mondo circostante non solo sparisca alla vista, ma cessi addirittura di esistere.

Questo comportamento, riprovevole nelle persone cosiddette mature (la riconoscenza piace a Dio e agli uomini), è ancora più avvilente se lo si riscontra in un giovane, che, essendo la sua età ancora malleabile e plasmabile, molto spesso viene condizionato da insegnamenti e consigli sbagliati di genitori, parenti e amici, che ne distorcono la sua originaria e reale natura. A simili giovani non si possono che rivolgere tanti e calorosi auguri di buona fortuna, di cui hanno un sacrosanto bisogno, perché, dato il loro carattere, rivelatosi – non sempre per colpa loro – villano e indisponente, sarà molto difficile che nel cammino della vita possano intrattenere duraturi e soddisfacenti rapporti interpersonali.

mercoledì 1 febbraio 2023

Omaggio a Fedro

 

Di Fedro è incerta la forma precisa del nome latino, dato che nei manoscritti la sua opera è intitolata così: Phaedri Augusti liberti Fabulae Aesopiae, cioè “Favole esopiane di Fedro liberto di Augusto”, tenendo presente che Phaedri può essere genitivo sia di Phaedrus che di Phaeder. Nacque in Tracia o in Macedonia tra il 20 e il 15 a. C.: due affermazioni, contenute nel prologo del suo III libro di favole, potrebbero giustificare l'una o l'altra patria. Portato a Roma come schiavo in giovane età e poi affrancato da Augusto, rimase nel palazzo imperiale da liberto. Sotto il principato di Tiberio, il prefetto del pretorio Seiano si sentì offeso da alcune sue favole, in cui colse allusioni malevole alla sua persona, e gli intentò un processo da cui il poeta uscì condannato (non sappiamo a quale pena). Comunque, seguitò a scrivere e morì probabilmente sotto Claudio intorno al 50 d. C. Di lui ci sono giunti cinque libri incompleti di Fabulae in versi (senari giambici), a cui vanno aggiunte le 32 favole scoperte nel XV secolo dall'umanista Niccolò Perotti e denominate per questo motivo Appendix Perottina. Fedro si ispira alle favole esopiche, piene di una bonaria saggezza popolare, ma presenta una visione della vita molto più amara e disincantata, espressione degli ideali e delle convinzioni della classe subalterna – gli schiavi e i liberti – nella capitale dell'Impero. I personaggi delle favole di Fedro sono in larga maggioranza animali, umanizzati dall'autore, e da lui innalzati a simboli viventi di qualche qualità, positiva o negativa: l'asinello = la laboriosità paziente ma talora la stupidità, la pecora = la timida sottomissione, la volpe = l'astuzia, il lupo = l'ingordigia, il leone = la superbia e la prepotenza, etc. Nelle considerazioni morali, che precedono o seguono le narrazioni, risuona frequente l'invito alla sopportazione dei propri mali, dato che ogni ribellione è inutile. Caratteristica delle sue poesie è la brevitas, che non si sofferma su particolari descrittivi, ma conduce la vicenda alla sua conclusione con efficace linearità, favorita anche dalla lingua semplice e dalla forma abbastanza curata, pregi che per tanti anni gli hanno permesso di essere considerato l'autore più adatto, su cui dovessero cimentarsi i ragazzi della Scuola Media nelle loro prime traduzioni dal latino.

Fedro ha avuto la sfortuna di non essere preso molto sul serio già fin dall'antichità. Ha cominciato a ignorarlo Seneca, che nella Consolatio ad Polybium, scritta forse nel 43 d. C. durante la sua relegazione in Corsica allo scopo di consolare Polibio, liberto dell'imperatore Claudio, per la morte del fratello, gli suggerisce di distrarsi scrivendo favolette, affermando che il genere favolistico non era mai stato trattato da autori latini, cosa che gli avrebbe concesso il merito dell'originalità. Marziale, invece, lo nomina nell' epigramma 20 del III libro, ma lo definisce inprobus, usando un aggettivo sulla cui interpretazione ancora si discute: io propendo per la traduzione che ne dà Concetto Marchesi, ossia malizioso, forse – suppongo – in riferimento alla scelta di Fedro di voler presentare alcuni comportamenti animaleschi come allusione alle nefandezze di certi potenti suoi contemporanei; nel contempo Marziale avrebbe messo in burla Fedro, che nelle sue Favole usa con predilezione quell'aggettivo.

Voglio proporre la lettura del solo prologo del I libro, perché credo che sia sufficiente per restituire a Fedro la dignità che gli compete:

Aesopus auctor quam materiam repperit,
hanc ego polivi versibus senariis.
Duplex libelli dos est: quod risum movet
et quod prudenti vitam consilio monet.
Calumniari si quis autem voluerit,
quod arbores loquantur, non tantum ferae,
fictis iocari nos meminerit fabulis.

Ho impreziosito in versi senari gli argomenti trovati da Esopo, che è l'inventore del genere. Due sono i meriti del mio libretto: che fa ridere e che propone suggerimenti di saggezza utili alla vita. Se poi qualcuno mi volesse criticare perché faccio parlare gli alberi, si ricordi che noi stiamo scherzando con favole inventate.

Alcune osservazioni.

Dopo il doveroso omaggio a Aesopus auctor, di cui Fedro non si considera un semplice traduttore in versi ma un rielaboratore della stessa materia, il poeta rivendica senza vanterie la propria originalità, consistente nell'avere abbellito il genere favolistico di Esopo trasferendolo in senari giambici. Da sottolineare una cosa spesso sfuggita a molti. Nei versi 3 e 4, contenenti il duplice merito del suo libretto, Fedro nobilita la sua produzione poetica facendo propria la lezione oraziana contenuta nei versi 343 – 344 dell'Epistula ad Pisones:

Omne tulit punctum qui miscuit utile dulci,

lectorem delectando pariterque monendo

Ha meritato il voto migliore chi ha unito l'utile al piacevole,

procurando al lettore divertimento e fornendo insieme saggi consigli”

Il riferimento finale alle piante parlanti è l'ovvia precisazione che alla fantasia tutto è permesso.

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Festìna lente

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