lunedì 13 marzo 2023

"O natura, o natura": Lucrezio e Giovenale a confronto

Una delle cose più tragicomiche con cui dobbiamo fare i conti nella società contemporanea è il tentativo maldestro e grottesco – mi si perdoni il gioco di parole – di snaturare la natura. Si ha l'impressione – ma ormai sta diventando una vera certezza – che gli autoproclamatisi padroni del mondo (alludo alle luride oligarchie finanziarie, che gestiscono i fondi di tutte le attività mondiali, dalla pseudosanità al traffico di armi, dalla pseudoecologia all'immigrazione clandestina, dal rigido controllo dei mass-media alla gestione delle cliniche miliardarie per i cambiamenti di sesso) arriccino il naso davanti alla natura, sostenendo che – ohibò! – chiunque l'abbia creata doveva essere un emerito pasticcione e, quindi, è loro preciso compito apportare le dovute correzioni, insomma modificarla a loro piacimento, fino a violentarla. Di questo vanno blaterando gli squilibrati membri del WEF (= World Economic Forum di Davos) nelle loro farneticazioni sulla ripugnante favola del transumanesimo, a questa pretesa va ricondotta la visionaria, e quindi inattuabile, agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile, questo è il fine ultimo dei vaneggiamenti della mai abbastanza deprecata Unione Europea, che nel suo folle tentativo di rinnegare le proprie radici greco-latino-cristiane attraverso la cancel culture, pretende di sostituire ai valori del passato tutto quanto di più immondo e di più disumano – cioè di più contrario alla luminosa humanitas dei nostri padri antichi – stia venendo a galla dalla fetida palude dei conclamati, ma assai discutibili, diritti.

È sorprendente fino all'incoerenza che a sottolineare le presunte manchevolezze della natura siano proprio i materialisti, che, escludendo a priori dal loro orizzonte intellettuale e morale qualunque istanza soprannaturale, dovrebbero invece venerarla e sopravvalutarla. Ma anche riguardo a questo argomento è assai istruttivo il riferimento alla cultura classica.

Tito Lucrezio Caro in uno dei passi più potentemente ispirati, e meno epicurei, del suo splendido poema (De rerum natura, V, 195 – 234) pronuncia contro la natura un'appassionata requisitoria, accusandola di una gelida indifferenza nei confronti degli uomini, dovuta all'imperizia, che la rende incapace di provvedere al benessere del genere umano:

Quod si iam rerum ignorem primordia quae sint,
hoc tamen ex ipsis caeli rationibus ausim
confirmare aliisque ex rebus reddere multis,
nequaquam nobis divinitus esse paratam
naturam rerum: tanta stat praedita culpa.

Del resto, anche se io ignorassi quali siano gli elementi costitutivi delle cose, dalle stesse caratteristiche del clima oserei affermare e sostenere sulla base di molti altri motivi che in nessun caso la natura è stata forgiata per noi da un intervento divino: tanto grandi sono i difetti che essa presenta” (V, 195 – 199).

Quindi con tono accorato e risentito passa in rassegna i vari modi, in cui la natura si dimostra inadeguata nei riguardi dell'uomo, trasformandosi in una sua persecutrice e aguzzina. È un implacabile climax ascendente, che culmina con l'immagine sconsolata del neonato nudo e bisognoso di tutto, gettato sulla spiagge della vita, come un naufrago scaraventato sulla riva del mare dalle onde tempestose:


Tum porro puer, ut saevis proiectus ab undis
navita, nudus humi iacet infans indigus omni
vitali auxilio, cum primum in luminis oras
nixibus ex alvo matris natura profudit,
vagituque locum lugubri complet, ut aequumst
cui tantum in vita restet transire malorum.

“Ecco poi il bimbo, come il marinaio gettato sulla riva dalle onde impetuose, giace nudo a terra, incapace di parlare, bisognoso di ogni aiuto per sopravvivere, non appena la natura lo ha spinto fuori a fatica dal ventre materno nelle regioni della luce, e riempie il luogo di lugubri vagiti, come è giusto per uno a cui nella vita restino da soffrire tanti mali” (V, 222 – 227).

Infine, a conclusione di questo brano, Lucrezio presenta l'imbarazzante confronto con gli altri animali, sia domestici sia feroci, che, appena nati, non hanno bisogno di sonaglioli, né di un linguaggio carezzevole, né di vestiti diversi secondo le stagioni,

denique non armis opus est, non moenibus altis,
qui sua tutentur, quando omnibus omnia large
tellus ipsa parit naturaque daedala rerum.

“infine a loro non servono armi né alte mura, con cui proteggere le loro cose, dato che la stessa terra e la natura, artefice di ogni cosa, procura in abbondanza tutto a tutti” (V, 232 – 234).

Gli esponenti del moderno Esistenzialismo non avrebbero potuto esprimere la loro (poco originale) teoria del “naufragio” in un modo più drammaticamente significativo. Tutt'altro discorso a proposito di Decimo Giunio Giovenale.

Nella sua seconda e più riflessiva fase poetica, contraddistinta da profonde e amare meditazioni sulla vita, il satirico aquinate espone le sue convinzioni nei riguardi della divinitas e dell'humanitas. È la satira X che fa da spartiacque tra le due poetiche giovenaliane, nella prima parte (vv. 1 – 53), in cui presenta il tema generale (= la vanità dei desideri umani) e l'impostazione della nuova poetica, ossia le opposte reazioni del pianto di Eraclito e del riso di Democrito di fronte alle umane follie, ma soprattutto nel finale (vv. 346 – 366), in cui spiega in che modo egli concepisca le divinità, che cosa gli uomini possano aspettarsi da loro e come debbano indirizzare la propria vita. Ecco il brano in questione, in cui l'innegabile sfoggio oratorio è impreziosito e potenziato da un'autentica ispirazione:

Nil ergo optabunt homines? si consilium vis,
permittes ipsis expendere numinibus quid
conveniat nobis rebusque sit utile nostris;
nam pro iucundis aptissima quaeque dabunt di.
Carior est illis homo quam sibi. Nos animorum
inpulsu et caeca magnaque cupidine ducti
coniugium petimus partumque uxoris, at illis
notum qui pueri qualisque futura sit uxor.
Ut tamen et poscas aliquid voveasque sacellis
exta et candiduli divina tomacula porci,
orandum est ut sit mens sana in corpore sano.
Fortem posce animum mortis terrore carentem,
qui spatium vitae extremum inter munera ponat
naturae, qui ferre queat quoscumque labores,
nesciat irasci, cupiat nihil et potiores
Herculis aerumnas credat saevosque labores
et venere et cenis et pluma Sardanapalli.
Monstro quod ipse tibi possis dare; semita certe
tranquillae per virtutem patet unica vitae.
Nullum numen habes, si sit prudentia: nos te,
nos facimus, Fortuna, deam caeloque locamus.

“Dunque gli uomini non potranno desiderare nulla? Se vuoi un consiglio, lascia che siano gli stessi dei a valutare che cosa convenga a noi e sia utile ai nostri affari: infatti gli dei al posto di quelle piacevoli ci daranno tutte le cose più adatte. L'uomo è più caro a loro che a se stesso. Tuttavia, affinché tu possa avere qualche cosa da chiedere nelle tue preghiere e possa offrire sugli altari le viscere e le salsicce di un candido maialino, devi chiedere agli dei che ti concedano una mente sana in un corpo sano. Chiedi un animo forte, che non abbia paura della morte, che consideri la lunghezza della vita come l'ultima cosa a cui ambire, che sappia sopportare qualunque fatica, che non sappia adirarsi, che non desideri nulla e che ritenga le sventure e le terribili fatiche di Ercole preferibili ai piaceri d'amore, della gola e alle mollezze di Sardanapalo. Ti mostro quello che puoi procurarti da solo; certamente l'unico sentiero di una vita tranquilla passa attraverso la virtù. O Fortuna, se noi siamo saggi, tu non hai alcun potere su di noi: siamo noi, siamo noi che ti facciamo dea e ti collochiamo in cielo”.

Ma è nella satira XIV che troviamo l'esplicita – pur se non intenzionale – confutazione dell'accusa rivolta da Lucrezio alla natura:

numquam aliud natura, aliud sapientia dicit
“è impossibile che la natura e la saggezza dicano due cose diverse”
(Satira XIV, 321)

palese e netto riconoscimento di quanto dobbiamo ritenere saggia la natura. Ma Giovenale va ben oltre. Nei versi 131 – 158 della satira XV c'è un lungo e commosso elogio della natura, madre benigna degli uomini, che sfocia nell'apprezzamento dell'azione benefica dell'unico creatore del mondo – mundi... communis conditor –, locuzione che richiama alla mente l'aeterne rerum conditor dell'inno di S. Ambrogio:

Mollissima corda
humano generi dare se natura fatetur,
quae lacrimas dedit. haec nostri pars optima sensus.
Plorare ergo iubet causam dicentis amici
squaloremque rei, pupillum ad iura vocantem
circumscriptorem, cuius manantia fletu
ora puellares faciunt incerta capilli.
Naturae imperio gemimus, cum funus adultae
virginis occurrit vel terra clauditur infans
et minor igne rogi. Quis enim bonus et face dignus
arcana, qualem Cereris volt esse sacerdos,
ulla aliena sibi credit mala? Separat hoc nos
a grege mutorum, atque ideo venerabile soli
sortiti ingenium divinorumque capaces
atque exercendis pariendisque artibus apti
sensum a caelesti demissum traximus arce,
cuius egent prona et terram spectantia. Mundi
principio indulsit communis conditor illis
tantum animas, nobis animum quoque, mutuus ut nos
adfectus petere auxilium et praestare iuberet,
dispersos trahere in populum, migrare vetusto
de nemore et proavis habitatas linquere silvas,
aedificare domos, laribus coniungere nostris
tectum aliud, tutos vicino limine somnos
ut conlata daret fiducia, protegere armis
lapsum aut ingenti nutantem volnere civem,
communi dare signa tuba, defendier isdem
turribus atque una portarum clave teneri.

“La natura, donandoci le lacrime, rivela di aver dato al genere umano dei cuori molto teneri. Questa è la parte migliore della nostra sensibilità. Essa ci fa compiangere il miserevole aspetto di un amico costretto a difendersi in tribunale, il pupillo che cita in giudizio il tutore che l'ha raggirato, mentre i suoi lunghi capelli da fanciulla ne rendono incerti i lineamenti bagnati di lacrime. È un impulso naturale, che ci spinge al pianto, se c'imbattiamo nel corteo funebre di una ragazza ormai pronta per le nozze o assistiamo alla sepoltura di un bimbo ancora troppo piccolo per le fiamme del rogo. Infatti, quale persona dall'animo buono e degna di portare la fiaccola dei Misteri, come prescrive il sacerdote di Cerere, può credere che i dolori altrui le siano estranei? Questo ci divide dal gregge degli animali muti e perciò, avendo ottenuto in sorte noi soli il venerabile ingegno ed essendo capaci di concepire il divino e adatti ad esercitare e a produrre le arti, abbiamo ricevuto quella sensibilità inviataci dal regno celeste, della quale sono privi gli animali curvi al suolo e che fissano la terra.
All'inizio del mondo il creatore di tutte le cose concesse a loro soltanto la vita ma a noi anche la ragione e i sentimenti, affinché un reciproco affetto ci inducesse a chiedere e a prestare aiuto, a riunire in un popolo quelli che erano dispersi, a migrare dall'antico bosco e a lasciare le foreste abitate dagli antenati, a unire un altro tetto alla nostra abitazione, in modo che la fiducia degli uni negli altri rendesse sicuri i sonni per la vicinanza delle soglie, ci spingesse a proteggere con le armi un cittadino caduto o barcollante per una grave ferita, a dare segnali con la tromba comune, ad essere difesi dalle stesse torri e a stare al riparo delle porte chiuse da una sola chiave.”



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