domenica 25 giugno 2023

Un modesto eulogio di Giovenale

No, non è stato un errore di ortografia, ho scritto proprio eulogio: dal verbo greco εὐλογέω [= euloghèo, lodare, esaltare].

Il valore della poesia di Giovenale non è stato ancora adeguatamente riconosciuto da coloro che si occupano professionalmente di Letteratura latina, o almeno non da tutti nella stessa maniera. Me ne sono chiesto il perché.

Ritengo che le risposte possano essere molteplici.

Cominciamo col dire che tuttora sopravvive un concetto retorico di “romanità”, intesa come esaltazione preconcetta di un trionfale imperialismo e come missione civilizzatrice, rintracciabile – per esempio – in alcuni passi di Virgilio e di Orazio i due massimi poeti dell'età augustea e di tutta la latinità. In tempi ben diversi, nel V secolo d. C., gli stessi valori sono stati poi magnificati, ma con una cocente carica di nostalgia, da Rutilio Namaziano, che assisteva con sgomento alla disgregazione dell'Impero romano sotto i colpi convergenti delle invasioni barbariche e della nuova concezione della vita e del destino umano introdotta dal Cristianesimo.

Giovenale, invece, rimpiange il passato glorioso, ma solo per contrapporlo come sferzante rimprovero alla dilagante corruzione e perversione dei discendenti degeneri degli antichi eroi, che avevano reso grande Roma. Davanti ai suoi occhi delusi non si presenta alcuna possibilità di riscatto, né presente né futuro, tanto meno affidato a eventuali imprese militari, considerando che la XVI satira attacca senza mezzi termini i vantaggi e i privilegi di cui godevano i soldati e particolarmente la milizia pretoriana, divenuta sotto l'imperatore Adriano un vero e proprio corpo d'élite.

Un'altra motivazione potrebbe essere il comprensibile disagio procurato ai più dalle incrollabili convinzioni del “malpensante” Giovenale sugli immigrati, sulle donne e sugli omosessuali, in evidente contrasto con le teorie sostenute oggi dal pensiero “politicamente corretto”, a cui molto spesso devono uniformarsi – anche obtorto collo – tutti coloro che ambiscono a riconoscimenti dalla cultura ufficiale o alla concessione di finanziamenti per le loro attività di ricercatori.

Inoltre alcuni possono essere disturbati dall'innegabile sfoggio di artifici retorici del poeta aquinate, che a volte – non lo nego – possono dare l'impressione di una palla al piede, ma nei momenti più ispirati della sua poesia, che sono davvero molti, si rivelano un elemento determinante, per conferire brillantezza ed efficacia espressiva a tante sue riflessioni e a singole locuzioni diventate proverbiali.

Nella valutazione obiettiva delle satire di Giovenale fa da ostacolo, infine, il secolare confronto con quelle oraziane, presentate dalla maggioranza degli studiosi come il modello insuperabile della satira latina: bonarie, sorridenti, ironiche e spesso autoironiche, rivolte a una ristretta cerchia di amici dai gusti raffinati, ma in conclusione fondamentalmente innocue, perché trascurano volutamente il lato drammatico dell'esistenza. Proprio per questo motivo ritengo improponibile e fuorviante il confronto tra le satire di Orazio e quelle di Giovenale, essendo convinto che la comune qualifica di satire non sia sufficiente a giustificare la loro appartenenza al medesimo genere letterario. Per quanto l'aquinate spesso tenga presente la lezione del venosino, tra l'ispirazione dell'uno e quella dell'altro non c'è niente in comune: sono due tipi di poesia diversi, sebbene definiti entrambi come satira.

C'è però da considerare che l'incomprensione di molti cattedratici, spesso fuorviati da un eccessivo ed astratto furor philologicus, è largamente compensata dal favore riscosso da Giovenale in ogni tempo presso gli autentici uomini di cultura. Basti pensare all'ammirazione incondizionata di un gigante della letteratura come Victor Hugo, che ha inserito il satirico aquinate nella ristretta categoria degli hommes océans (= uomini oceano) alla pari di Isaia, Eschilo, Dante, Shakespeare e Michelangelo: non so se mi spiego... 

giovedì 1 giugno 2023

Omofollia

Negli ultimi giorni qualcuno con una dichiarazione inopportuna, anche se – o proprio perché – dettata dal dominante e prevaricatore pensiero unico, ha intonato una geremiade sulla piaga insopportabile di alcune fobie, riguardanti però una minima percentuale di persone, a cui, quando è necessario, va tutta la solidarietà, ma che non possono pretendere di monopolizzare con i loro problemi personali l'attenzione di un'intera società per tutte le ore di tutti i giorni di tutti gli anni. Oltretutto le vere piaghe insanabili sono ben altre, e non riguardano i personalissimi gusti che si esplicano in camera da letto, su cui – giustamente – nessuno ha il diritto di sindacare, ma le esigenze primarie della vita, anzi della sopravvivenza: la difficoltà di trovare un lavoro dignitoso e remunerato decentemente, il problema dell'alloggio, due problemi che, uniti, sono l'ostacolo maggiore che impedisce a un uomo e a una donna di poter formare una famiglia, e poi la malasanità, che si è ben messa in mostra negli ultimi anni, il degrado irrecuperabile in cui è caduta la scuola, che ha trasformato la sua fondamentale funzione formativa in un'indegna funzione informativa, sostanziata dalle stupide e squallide teorie suggerite dalle mode del momento, la follia bellicista che fa sprecare diabolicamente nella pervicace ricerca della morte ingenti risorse, che potrebbero risolvere almeno in parte non pochi dei problemi vitali suaccennati, lo sfruttamento dei bambini, non soltanto a proposito del lavoro minorile ma anche della pedofilia, del loro indegno traffico, dell'espianto dei loro organi, e chi più ne ha, più ne metta.

C'è da aggiungere che questi personaggi, che vorrebbero fare la morale agli altri, pontificando e atteggiandosi a grandi saggi, ignorano pure il significato delle parole che usano con tanta superficiale sicumera. Per esempio, tutti i nomi composti con il suffisso -fobia, che in greco significa paura: agorafobia, claustrofobia, acrofobia, aracnofobia etc., equivalgono a paura dello spazio aperto, di un luogo ristretto, dell'altezza, dei ragni e, quindi, sono un disturbo della personalità, che nessuno si è mai sognato di definire un crimine, ma un'oggettiva limitazione nel comportamento di chi ne è soggetto. Pertanto – e veniamo al punto – la parola omofobia, formata da due parole greche: omoios (= uguale) e fobia (= paura), equivarrebbe semplicemente a: paura dell'uguale ed è un erroneo e inammissibile stravolgimento linguistico e logico farle acquistare l'attuale e vituperato significato di: odio per coloro che fanno l'amore con uno(a) dello stesso sesso.

D'altra parte, se il pensiero dominante, cioè non quello dei più, ma di chi ha voce in capitolo in quanto detentore del potere (economico, finanziario, militare, politico, religioso), impone certi valori folli e inaccettabili, come quelli in gran voga oggi, forse dovremmo cominciare ad avere paura dei nostri simili, che li partoriscono, e a sentirci un po' omofobi... ma questa volta a stretto rigore di termini. 

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