lunedì 29 giugno 2020

Oggi è il compleanno...

... della bella, brava e carissima figlia Claudia, la prima dei follower di questo mio blog. 
Claudia, se in questi giorni non sei proprio al massimo della forma e non puoi festeggiare questa ricorrenza come ti piacerebbe, abbi pazienza, verranno tempi migliori, e allora festeggeremo insieme alla grande i nostri due compleanni, così ravvicinati tra loro.
Tantissimi e affettuosissimi auguri di 
BUON  COMPLEANNO!!! 

giovedì 25 giugno 2020

Non vitae sed scholae discimus

Non impariamo per la vita ma per la scuola.
Questa sentenza del filosofo Seneca, che costituisce l'ultima battuta di una delle Epistulae morales - la 106 - indirizzate all'amico e discepolo Lucilio, per ironia della sorte viene sempre citata al contrario: non impariamo per la scuola ma per la vita. Siamo d'accordo che il suggerimento dello scrittore è proprio questo, di non studiare per ottenere un bel voto e l'apprezzamento degli insegnanti, ma per prepararsi alla vita; però se noi leggiamo il brano da cui è stata estrapolata la frase in questione, ci rendiamo conto che essa non pretende di avere una valenza imperativa, ma si risolve nella semplice constatazione di quanto sia sbagliato il sistema di studio di quei tempi e, purtroppo, anche di quelli nostri. Ecco le testuali (per modo di dire, in quanto le ho tradotte in italiano) parole del saggio Lucio Anneo Seneca:

Non c'è bisogno di tanti studi letterari per rendere migliore il nostro spirito, ma noi, abituàti a disperdere tutto il resto nel superfluo, facciamo la stessa cosa con la filosofia. Come in tutte le cose ci affatichiamo alla ricerca dell'eccessivo, così pure negli studi: non impariamo per la vita ma per la scuola.

Si tratta dell'eterno conflitto, che abbiamo ereditato anche noi, tra la frivola, inutile e dispersiva erudizione da una parte e la solida e sofferta cultura dall'altra, tra il tecnicismo di cavilli oziosi e inconcludenti, e la coraggiosa presa di coscienza dei grandi problemi dello spirito e della vita, insomma tra la vuota e inefficace informazione da un lato e l'indispensabile formazione (della mente e del cuore) dall'altro. La battaglia continua.     

lunedì 22 giugno 2020

Il mio segno zodiacale

Oggi, 22 giugno, il Sole entra nella costellazione del Cancro. Leggiamo una brevissima descrizione di questo segno zodiacale, contenuta nel poema De re astronomica di Manilio, poeta latino dell'età augustea (libro IV, versi 162 - 175 passim):

Il Cancro, che risplende nel solstizio d'estate, rivolto verso la bruciante meta, intorno a cui gira il sole tornato indietro al culmine del suo corso, prende possesso del fulcro del mondo e da lì riflette una grande luce... [Chi nasce sotto questo segno] ha l'ingegno acuto ed è combattivo per i suoi interessi.

domenica 21 giugno 2020

Rara avis

Questa locuzione significa uccello raro ed è l'equivalente della nostra espressione "mosca bianca", per indicare una cosa o una situazione o una persona tanto speciale da essere classificata poco più che unica.
Il poeta satirico latino, ma di origine etrusca, Aulo Persio Flacco la usa nella I satira (v. 46), alludendo con autoironia all'eventualità che casualmente egli possa comporre qualche cosa di pregevole.
Successivamente Decimo Giunio Giovenale, l'ultimo in ordine cronologico dei tre grandi poeti satirici latini - Orazio, Persio, Giovenale -, se ne serve come metafora (VI, 165) per indicare una donna dotata di tutte le qualità: bellezza, buone maniere, ricchezza, nobiltà, castità, che è praticamente impossibile trovare riunite nella stessa persona, qualificata appunto come


un uccello raro in terra e molto simile a un cigno nero.

Per capire il riferimento di Giovenale, bisogna tenere presente che i latini ancora ignoravano l'esistenza dei cigni neri, scoperti in Australia solo verso la fine del XVII secolo dall'olandese Willem de Vlamingh. 

venerdì 19 giugno 2020

Vulgus amicitias utilitate probat

Il volgo valuta le amicizie sulla base dell'utilità.

È un'amara constatazione che può fare chi sia rimasto deluso dal comportamento di qualcuno, che dichiarava di essergli unito da un legame di affetto, o, più in generale, che si proclamava suo amico, ma che alla prova dei fatti – gli unici che contano perché, come ben sappiamo, le chiacchiere stanno a zero – si è rivelato mosso da mire esclusivamente opportunistiche.
Questo pentametro (= verso di cinque piedi, cioè di cinque raggruppamenti di sillabe brevi e lunghe, secondo la metrica greco-latina) fa parte delle Epistulae ex Ponto (Lettere dal Mar Nero), composte dal poeta latino Ovidio durante la sua lunga relegazione a Tomi, (l'odierna Costanza in Romania) sulle rive del Mar Nero. Il distico (= coppia di versi), di cui fa parte, comprende i versi 7 – 8 della terza epistola del II libro:

Turpe quidem dictu, sed —si modo vera fatemur—
vulgus amicitias utilitate probat.
Certo, è vergognoso a dirsi, ma – se proprio vogliamo essere sinceri –
il volgo valuta le amicizie sulla base dell'utilità.

Lo stesso poeta nei Tristia (II, 1, 207) accenna di sfuggita alle due probabili cause, che nell'8 d. C. spinsero l'imperatore Augusto a decidere la sua improvvisa relegazione, ma le allusioni sono così concise da risultare enigmatiche. Infatti egli le individua in un carmen e in un error, una poesia e un errore, su cui stanno ancora discutendo e questionando i critici letterari. Il carmen potrebbe essere l'Ars amatoria, un'opera un po' troppo audace e licenziosa in confronto all'austera politica moralizzatrice di Augusto, però teniamo presente che fu scritta nell'1 a. C. o d. C., cioè sei o sette anni prima e, quindi, notevolmente lontana nel tempo. Qualcuno ha ipotizzato che la poesia incriminata fosse il lungo brano del suo capolavoro, le Metamorfosi (XV, 60 – 478), in cui Ovidio introduce Pitagora a parlare della metempsicosi e del vegetarianismo, due modi di concepire la vita e la morte, ben differenti dal mos maiorum (il rigido e ruvido costume degli antenati) e, perciò, sentiti come poco romani e troppo esotici. Anche l'error ha dato adito alle interpretazioni più disparate, tra cui, forse, la più plausibile è che egli sia stato al corrente o abbia in qualche modo favorito la tresca della nipotina di Augusto, Giulia minore, con un certo Decimo Giunio Silano. Ella fu esiliata dal nonno l'anno dopo (9 d. C.) nelle isole Tremiti, dove morì nel 28 o 29 d. C. Ovidio, invece, morì a Tomi nel 17 d. C., qualcuno dice nel 18.
Ritornando alla frase del titolo, è abbastanza chiaro il motivo per cui l'abbia scritta: una volta che fu costretto ad allontanarsi da Roma, molti suoi precedenti “amici” gli voltarono le spalle, perché non poteva più essere utile a loro – fino ad allora era un poeta famoso e ricercato nei salotti letterari dell'Urbe – e ci fu pure chi si approfittò della sua assenza per cercare di impossessarsi del suo patrimonio, fingendo di corteggiarne la moglie Fabia, che era rimasta a Roma ad amministrarlo.
Se dopo tanti secoli può consolarlo, lo invito a riflettere su questa sentenza di S. Girolamo:

un'amicizia, che può finire, non è mai stata sincera.

domenica 14 giugno 2020

Semel in anno licet insanire

Questa sentenza, pronunciata quasi sempre in tono scherzoso, che significa:

una volta all'anno è lecito fare pazzie,

a partire dal Medioevo è diventata proverbiale, ma, pur non essendo mai stata scritta in questa forma precisa da autori latini o greci, è riconducibile ad affermazioni analoghe di vari poeti e prosatori classici.
Si ritiene che essa si riferisca a usanze collettive con fini liberatori, cioè a particolari festività svolte in determinati periodi dell'anno, caratteristiche, per quanto sotto diverse forme, di molte società occidentali. Periodi, durante i quali era consentito non rispettare certe regole e certe convenzioni sociali e che dovevano fungere da valvola di sfogo, per dare corpo anche a risentimenti e rivalse, ristabilendo così l'equilibrio all'interno della società. Basti pensare alla solennità latina dei Saturnali (17 - 23 dicembre), in cui i festeggiamenti in onore del dio Saturno - quello che aveva dato origine alla mitica età dell'oro - dovevano riprodurre quell'antica felicità, sia banchettando allegramente e scambiandosi regali, sia concedendo agli schiavi la facoltà di insolentire i padroni e di farsi servire da loro a tavola, al fine di ristabilire - almeno per una settimana - la primitiva uguaglianza tra tutti gli uomini.
In Orazio troviamo questo verso, dal significato assimilabile al proverbio, l'ultimo dell'Ode dodicesima del IV libro:

è piacevole folleggiare al momento opportuno,

ma forse è proprio l'austero filosofo Seneca ad avvicinarsi di più al concetto originario. Leggiamo che cosa dice a tale proposito (De tranquillitate animi, XVII, 10 - 11):

Infatti, sia che crediamo a un poeta greco [= il commediografo Menandro], "ogni tanto è piacevole fare pazzie"; sia a Platone, "inutilmente prova a bussare alla porta della poesia chi è troppo padrone di sé"; sia ad Aristotele, "non ci fu mai un grande ingegno senza un briciolo di follia": non può dire qualche cosa di grande né di superiore agli altri se non una mente in preda all'eccitazione.

E allora? Che cosa aspettiamo? Diamoci da fare...
Sotto a chi tocca!  



     


giovedì 11 giugno 2020

Uomini a quattro zampe

A differenza dei Greci, che erano più propensi all'esercizio del pensiero astratto e proprio per questo raggiunsero risultati d'eccellenza nel campo filosofico - basti pensare, tra i tanti, ai soli grandissimi Socrate, Platone e Aristotele -, i Latini avevano un carattere più concreto, interessato agli aspetti pratici dell'esistenza, tanto è vero che acquistarono la massima fama in qualità di soldati, avvocati, giureconsulti, ingegneri e architetti. Questo, però, non esclude che i più riflessivi si dedicassero anche all'approfondimento di temi spirituali, specialmente di argomento morale, che, a prescindere dagli scrittori più motivati nel campo filosofico, come Cicerone, Lucrezio e Seneca, non è affatto difficile rintracciare nei testi più diversi di numerosi autori latini. Oggi voglio parlare di un concetto che tre diversi scrittori presentano in forma analoga ma differente, pur rifacendosi alla suggestione della stessa immagine.
Due sono poeti satirici dell'età imperiale - Persio e Giovenale -, mentre il terzo è lo storico Sallustio, vissuto nel I secolo a. C. Non ci può meravigliare che scrittori del genere satirico e storico si siano interessati di problemi morali, visto che entrambi i generi letterari vertono sul comportamento umano, per criticarlo e correggerlo nel primo caso, per analizzarlo e spiegarlo nel secondo. E' un po' più sorprendente, invece, che parli da moralista un personaggio come Sallustio, che trascorse la prima parte della sua vita militando come politicante fazioso nel partito di Giulio Cesare e, senza badare ai mezzi, accumulò una grande ricchezza come governatore della Numidia. In seguito, però, ritiratosi a vita privata e dedicatosi agli studi storici, ebbe il coraggio e l'onestà di fare autocritica e di pentirsi pubblicamente della sua condotta precedente, che, obiettivamente, non fu più scandalosa di tanti altri personaggi politici dei suoi e dei nostri tempi. 
Sallustio, scrittore vivacissimo dallo stile inconfondibile pieno di chiaroscuri, nel primo capitolo della monografia, intitolata La congiura di Catilina, soffermandosi sulla corruzione degli uomini del suo tempo, li presenta 

"come animali, che la natura ha creato curvi in avanti e obbedienti al ventre".

Persio, a sua volta, nella II satira critica aspramente gli uomini che concepiscono la religione da un punto di vista utilitaristico, come un semplice scambio di favori tra l'uomo e la divinità. Al verso 61 prorompe in questo rimprovero:


"Anime curve al suolo e ignare di cose celesti!" 

L'immagine suggerita da questa apostrofe non lascia adito a dubbi: gli uomini sono equiparati alle bestie,  in quanto curvi al suolo e ignari di ogni realtà soprannaturale (la parola che usa Persio è ancora più efficace: inanes, cioè vuoti), ma teniamo presente che l'abbrutimento umano viene ancor più accentuato dall'uso della parola anime al posto di uomini.
Giovenale, infine, nella XV satira, esaltando il dono sublime delle lacrime, manifestazione di empatia da parte di chi si immedesima nei dolori degli altri, spiega che è proprio questo a distinguerci dalle bestie (vv. 142 - 147):

Questo ci divide dal gregge degli animali muti e perciò, avendo ricevuto in sorte noi soli il venerabile ingegno ed essendo capaci di concepire il divino e adatti ad esercitare e a produrre le arti, abbiamo ricevuto quella sensibilità inviataci dal regno celeste, della quale sono privi gli animali curvi al suolo e che fissano la terra.

Ritorna la stessa immagine usata da Sallustio e suggerita da Persio. Però la somiglianza riguarda solo la posizione curva al suolo (o in avanti), mentre cambia il soggetto rappresentato: nei primi due è costituito dagli uomini, degradati a un livello semibestiale; ma dagli animali in Giovenale, che, inoltre, attribuisce al genere umano la dote negata invece ad esso da Persio, cioè la facoltà di concepire la realtà divina.
Mi sembra superfluo sottolineare che il tanto vituperato Giovenale, accusato di essere un pretestuoso e preconcetto fustigatore dei costumi corrotti di uomini, donne, omosessuali, immigrati greci, egiziani e orientali, rivela una profonda e dolente humanitas, senz'altro superiore a quella dei suoi critici.


mercoledì 10 giugno 2020

Est modus in rebus

Questo invito alla moderazione, ancora in uso tra chi mastica un po' di latino (significa c'è una misura nelle cose), è un emistichio (= mezzo verso) di Orazio, contenuto nella I satira del I libro, che risulterà più chiaro se cito per intero i due versi cui appartiene (vv. 106 - 107):

est modus in rebus, sunt certi denique fines,
quos ultra citraque nequit consistere rectum

ossia:

c'è una misura nelle cose, ci sono infine certi limiti, al di qua e al di là dei quali non può risultare ciò che è giusto.

Questo principio del giusto mezzo, ovvero l'equidistanza dai due estremi opposti, non l'ha inventato Orazio, ma è stato proposto dal celebre filosofo Aristotele - tra l'altro precettore di Alessandro Magno - come fondamento di un comportamento virtuoso, che eviti il troppo e il troppo poco: per es. il coraggio è la posizione intermedia tra la viltà e la temerarietà. La parola greca con cui la definisce è μεσότης, cioè via di mezzo, quella che in latino viene tradotta con medietas oppure mediocritas, termine gradito ad Orazio e da lui usato in una famosa poesia: la decima Ode del II libro, in cui esalta l'aurea mediocritas, che non è un elogio della mediocrità, perché in latino mediocritas vuol dire anche moderazione, via di mezzo, senso della misura. Ne riporto la mia traduzione integrale, dato che si tratta di uno dei suoi testi basilari, che ci aiutano a capire il modo di pensare - la forma mentis! - del poeta venosino, uno dei più grandi della latinità, preso a modello insuperabile per tutto il corso dei secoli:

Più giustamente tu vivrai, Licinio,
se non ti spingi sempre in alto mare
né, mentre cauto temi le tempeste,
troppo ti accosti all'insidiosa riva.

Chi ama la dorata via di mezzo,
dal sudiciume è esente di una casa
trascurata, come pure, modesto,
non vive in una reggia da invidiare.

E' agitato dai venti il grande pino
con impeto maggiore e le alte torri
con più violenza crollano e colpisce
il fulmine la sommità dei monti.

Un animo che sia ben preparato,
spera che cambi la sua sorte avversa,
lo teme, se è propizia. E' sempre Giove
che riporta e allontana i freddi inverni.

Oggi le cose vanno male? Pensa
che non sarà così pure domani:
talvolta Apollo desta nella cetra
note già mute né saetta sempre.

Nelle sventure mostrati animoso
e forte, ma sii pronto saggiamente
a ridurre le vele, se gonfiate
da un vento che sia troppo a te benigno.


Il principio del giusto mezzo, inteso come capacità di sapersi accontentare e di non voler mai strafare, viene espresso anche da Giovenale, ma in una forma più originale e concreta, in un famoso apoftegma (= sentenza) contenuto nell'ultimo verso della satira XI:

se vuoi godere di un piacere, devi usarlo raramente.

Come è facile vedere, si tratta di un consiglio pratico di saggezza spicciola, utilizzabile in qualunque situazione e valido per qualunque argomento.

 

  

venerdì 5 giugno 2020

Ne bis in idem

Questa sentenza latina, che letteralmente significa "non due volte nella stessa cosa", non si trova in un testo letterario né di prosa né di poesia, ma è un principio giuridico del diritto processuale romano, rintracciabile, anche se non in questa forma precisa, nelle Institutiones, l'opera fondamentale del giurista latino Gaio, vissuto nel II secolo d. C. Essa esprime il concetto che nessuno può essere giudicato due volte per lo stesso fatto criminoso.
In un ambito più generale queste parole vengono pronunciate correntemente con una finalità diversa, non più prescrittiva ma esortativa, nel senso di consigliare a qualcuno di "non cadere due volte nello stesso errore". A questo proposito, non posso fare a meno di ricordare un'esperienza autobiografica. A una mia brava alunna privata, da me definita sotto molti aspetti la mia allieva ideale, ripetevo - e ogni tanto mi capita di ripetere - di non vergognarsi a dire o fare qualcosa di sbagliato con me: "Più sbagli con me, meno sbaglierai in classe nei compiti scritti e nelle interrogazioni. Con me sbaglia tranquillamente e quanto ti pare, tanto non ti prendo in giro e sono qui proprio per correggerti. L'importante è che tu faccia tesoro delle mie correzioni e dei miei chiarimenti e che tu non cada due volte nello stesso errore." Appunto: ne bis in idem.  

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Festìna lente

Questo motto latino, tuttora molto usato, significa: affréttati lentamente, e pare che fosse pronunciato spesso dall'imperatore Augusto,...