giovedì 29 ottobre 2020

Mantenete la calma e il coraggio...

è in arrivo già un altro sondaggio! 


La poesia di Orazio è stata per tanti secoli e tuttora rimane un modello esemplare ed insuperabile per la poesia occidentale. Interpretata in maniere diverse nei diversi periodi culturali, non ha mai cessato di proporsi all'attenzione dei lettori più consapevoli e sensibili. In questo mio secondo sondaggio voglio proporvi tre sue Odi, che affrontano, ciascuna in modo differente, i temi del tempo e della morte. Leggetele con attenzione, badando ai concetti espressi da Orazio, non alla mia più o meno efficace traduzione in versi: alla fine vi formulerò i quesiti a cui rispondere.

La prima (I, 11), che chiameremo A, quella famosa del carpe diem (= cogli il giorno, ossia realizzati nel presente), è un suggerimento rivolto alla giovane Leuconoe (= mente bianca, ossia anima candida, ingenua), affinché non si lasci angustiare dal futuro e si concentri nella realtà presente:


(A)

Non chiedere – saperlo non è dato –
che fine a me, che fine a te gli dei
abbiano riservato;
dai calcoli caldei,
Leuconoe, non cercar la verità.
Quanto è meglio accettare
la sorte che sarà!
Sia che molti l'Eterno
a noi conceda o sia l'ultimo inverno
questo, che infrange sugli scogli il mare,
sii saggia, filtra il vino
e la lunga speranza
adegua al breve tempo che ti avanza.
Mentre indugia la voce,
invidioso il tempo se ne va:
cogli l'ora veloce,
non confidare in quella che verrà.


La seconda (IV, 7), che chiameremo B, presenta il contrasto stridente – fonte di angoscia – tra il tempo circolare della natura, che periodicamente ripresenta le stesse situazioni (basti pensare al ciclico ripetersi delle stagioni), e quello rettilineo dell'uomo, che nasce ----> vive ----> muore una volta per tutte:


(B)

La neve si è sciolta, ritorna già l'erba nei campi,
sui rami le foglie;
la terra si muta ed il fiume non più vorticoso
lambisce le rive;
con le sorelle e le Ninfe ardisce la Grazia
guidare le danze.
La fuga del tempo ti avverte di non concepire
speranze immortali:
lo Zefiro mitiga il freddo, subentra l'estate
che è pronta a morire,
appena l'autunno dà i frutti, ma subito il pigro
inverno ritorna.
Le rapide lune riparano i danni del clima:
ma appena caduti
là dove il pio Enea e Tullo ed Anco, non siamo
che polvere ed ombra.
Sai se gli dei del cielo vogliano aggiungere all'oggi
ancora un domani?
Ciò che avrai usato per te, sarà sottratto alle mani
dell'avido erede.
Quando sarai morto e Minosse una saggia sentenza
ti avrà pronunciato,
stirpe, facondia, pietà – Torquato – non ti faranno
ritornare in vita;
infatti dal buio infernale non libera Diana
il casto Ippolito,
né Teseo è in grado di sciogliere al suo Piritòo
i ceppi del Lete.


La terza (III, 30), che chiameremo C, affronta il problema della morte, proponendone una soluzione affidata al ruolo salvifico della poesia, che può garantire l'immortalità all'oggetto della poesia e al suo stesso autore:


(C)

Ho innalzato un monumento più del bronzo duraturo,
più elevato della mole di piramidi regale,
non la pioggia, non il vento lo faranno mai cadere
né la fuga senza posa di anni e secoli infiniti.
Morirò ma non del tutto, in gran parte eviterò
Libitina: nella gloria sempre nuovo crescerò
presso i posteri, finché salirà sul Campidoglio
il pontefice, seguìto dalla tacita vestale.
Nato dove vorticoso scorre l'Aufido scrosciante,
e il re Dauno governò contadini scarsi d'acqua,
si dirà che fui potente, nato da umile famiglia,
e per primo il carme eolio fui capace di adattare
ai latini ritmi. Assumi la superbia a te dovuta
dai tuoi meriti e contenta, o Melpomene, circonda
la mia chioma con l'alloro, caro al dio che Delfi onora.


Il sondaggio consiste nel rispondere ai seguenti quesiti:

tra i testi oraziani A, B, C

quale ritenete più convincente?

Quale più suggestivo?

Quale più illusorio?

Se non vi chiedo troppo, gradirei anche le relative motivazioni.



lunedì 26 ottobre 2020

Nusquam est qui ubique est

Chi è dovunque, non è in nessun luogo 
(Seneca, Lettere a Lucilio, II, 2)

Seneca, filosofo e tragediografo latino, precettore e infine vittima di Nerone, è celebre anche per le sue sentenze rapide, concettose e suggestive. Molte sue frasi sono diventate famose e proverbiali grazie a un personale e inimitabile modo di scrivere, riconducibile al cosiddetto stile asiano, caratterizzato da una ricchezza di immagini, di chiaroscuri, di contrapposizioni e da una spesso esasperata ricerca dell'effetto.
La frase del titolo è una di queste, ma l'autore che cosa intende dire? Le interpretazioni possibili sono due.
La prima, strettamente letterale, implica un significato puramente spaziale e allude alla mania dei viaggi. Chi viaggia di continuo, passando freneticamente da un luogo all'altro, è convinto di avere visitato tante località diverse, ma in realtà non ne ha conosciuto veramente nessuna, perché in nessuna di esse ha trovato qualche cosa di "suo", che lo attraesse e lo trattenesse lì.
La seconda interpretazione, metaforica, è applicabile a tanti ambiti diversi:
a) assaggiare tanti cibi è proprio di uno stomaco inappetente, che non trova soddisfazione in nessuno di essi;
b) passare continuamente da un libro all'altro, da un autore all'altro è proprio di una mente superficiale, che si accontenta di accumulare nozioni su nozioni, idee su idee, senza soffermarsi a fondo su nessuna, per farla veramente sua;
c) circondarsi di tante amicizie o - peggio - di tanti amori è indice di una fondamentale aridità di cuore, che privilegia la quantità a scapito della qualità.
Volendo, l'elenco potrebbe continuare, però mi preme soltanto sottolineare come e quanto possano ancora farci riflettere cinque sole parole di un antico scrittore latino. 
 


mercoledì 21 ottobre 2020

Chi dice donna...

 Nelle letterature latina e greca scorre una sotterranea vena di misoginia, che ora acquista toni aspri e risentiti, ora più sfumati e umoristici. Questo è il caso di una favoletta di Fedro, che assume l'aspetto di un vero e proprio sorridente apologo. Generalmente si crede che le fabulae di questo autore latino - senz'altro di secondo piano - siano ambientate esclusivamente nel mondo degli animali, ma ce n'è anche un discreto numero, in cui vengono presentati personaggi umani, come quella che vi espongo (II, 2):

Sono proprio gli esempi ad insegnarci che gli uomini in un modo o nell'altro sono spogliati dalle donne, le amino o ne siano amati.

Una donna dotata di un certo garbo, teneva stretto a sé un uomo di mezza età, nascondendo i suoi anni con la raffinata eleganza, e una bella giovane aveva conquistato l'animo del medesimo. Entrambe, mentre vogliono apparire sue coetanee, cominciano a strappare a turno i capelli all'uomo. E lui, che pensava che le due donne volessero acconciarlo con cura, all'improvviso diventò calvo; infatti la ragazza aveva strappato completamente i capelli bianchi, la donna anziana quelli neri.

Chi ne ha voglia, si sbizzarrisca a commentarla. 

giovedì 15 ottobre 2020

Omnia quae ventura sunt in incerto iacent: protinus vive!

Questa sentenza – tutte le cose future sono incerte: vivi subito! – è stata scritta dal filosofo Seneca nell'opera intitolata De brevitate vitae (= La brevità della vita), ma non è di lui che voglio parlare oggi, bensì di uno scrittore latino molto meno serio ed austero: Marziale.
Molto spesso di Marco Valerio Marziale si ricordano – o si vanno a cercare espressamente – gli epigrammi più osceni e pruriginosi per il gusto del proibito, ma bisogna riconoscere, purtroppo, che è diventato famoso principalmente per questi. Sto scrivendo un libro (sono arrivato a un buon punto), proprio per ristabilire su di lui un giusto giudizio, mettendo in evidenza i suoi aspetti più lodevoli, come la spiccata sensibilità e la delicatezza dei sentimenti.
Ma talora egli riesce a sorprenderci per la profonda saggezza – paradossale? A volte pure il paradosso ha una sua decisiva forza di convinzione –, che da lui non ci aspetteremmo e che ci costringe a riflettere, come se leggessimo un verso sentenzioso di Orazio o un acuto giudizio di Seneca.
Vi presenterò due suoi epigrammi, che ritengo molto significativi: entrambi contengono considerazioni sul tempo dell'esistenza umana. Il primo (V, 58) è indirizzato a un certo Postumo, un evidente nome parlante, ossia un nome che già di per se stesso delinea il carattere di quel personaggio, tutto proiettato nel futuro:

Postumo, tu ripeti sempre che vivrai domani, domani... Dimmi, Postumo: quando viene questo domani? Quanto è lontano questo domani! Dov'è? O dove bisogna cercarlo? Forse è nascosto presso i Parti e gli Armeni? Ormai questo domani ha gli anni di Priamo o di Nestore. Questo domani – dimmi – a quanto si potrebbe comprare? Vivrai domani? Postumo, è già tardi vivere oggi: il vero saggio, Postumo, è chi è vissuto ieri.

L'affermazione conclusiva si basa sulla ferma convinzione che la vita sia troppo breve. Nel seguente epigramma (VI, 70) il poeta ce ne spiega argutamente il perché:

Caro Marciano, Cotta ha già compiuto – credo – la sua sessantaduesima mietitura e lui non si ricorda di aver sperimentato nemmeno per un sol giorno le noie di un letto caldo. Egli mostra il dito, ma quello osceno, ai [medici] Alconte, Dasio e Simmaco. Ma si conteggino in modo adeguato i nostri anni e si sottragga dalla vita godibile tutto il tempo, che ci hanno portato via le febbri perniciose o la fiacchezza opprimente o i dolori atroci: siamo bambini e sembriamo vecchi. O Marciano, chi pensa che la vita di Priamo e di Nestore sia lunga, s'inganna e si sbaglia di molto. La vita non consiste nell'essere vivi, ma nello stare in buona salute.

C'è da supporre, tuttavia, che la conclusione paradossale dell'epigramma V, 58 – quello indirizzato a Postumo – potrebbe essere una voluta forzatura del poeta, che con essa si sarebbe garantito un finale ad effetto. Infatti, Marziale, rivolgendosi a un certo Giulio, aveva già affrontato il tema dell'irrimediabile fuga del tempo nell'epigramma I, 15, ma prospettando la più sana ed accettabile soluzione oraziana, quella del carpe diem (= cogli il giorno, ossia: realizzati nel presente):

Credimi, non è da saggio dire: “Vivrò”. Vivere domani è troppo tardi: vivi oggi.







 

sabato 10 ottobre 2020

Casus belli

Come sappiamo, questa locuzione latina, diventata di uso comune, significa pretesto per scatenare una guerra, interpretando quest'ultimo termine in modo estensivo: contrasto, lotta, aggressione. La storia politica e militare di tutti i tempi ce ne fornisce tanti e tristi esempi - basti pensare a uno dei più antichi: il ratto di Elena -, ma anche la vita quotidiana e l'esperienza di ciascuno di noi non mancano di presentarci ogni tanto il perfetto esemplare di attaccabrighe, pronto a trovare - o ad inventarsi - qualunque pretesto per offendere ed aggredire, talora non solo verbalmente.
Queste considerazioni mi riportano alla mente la mia infanzia, quando, ancora bambino ingenuo, frequentavo la Scuola Media e cominciavo ad apprendere dalla vita di classe e dai libri i diversi aspetti dell'esistenza, anche quelli più negativi. In questo era di grande ausilio la lettura dei primi classici latini, i cui testi più elementari - sì, ma fino a un certo punto! - ci venivano fatti leggere e tradurre, per rintracciare in essi e approfondire le regole grammaticali e sintattiche della lingua latina, tanto bella quanto complessa.
Il primo testo "serio" che ci fu sottoposto furono le Favole di Fedro, di cui facemmo una vera scorpacciata, cominciando a popolare il nostro mondo immaginario di lupi voraci, timidi agnelli, asini pazienti, cornacchie troppo loquaci, volpi furbette, leoni superbi e violenti ma, a modo loro, generosi. La prima favola della raccolta fu anche la prima che mi capitò di leggere, quella famosissima del lupo e dell'agnello, che, proprio in quanto prima, acquistò allora, e sempre più con il passar del tempo, i contorni della favola per eccellenza, la più familiare e rappresentativa, ma anche la più adatta ad illustrare l'argomento di questo mio post. Rileggiamola.

Un lupo e un agnello, spinti dalla sete, erano giunti allo stesso ruscello; il lupo stava più in alto, l'agnello molto più in basso. Allora quel predone, eccitato da una voracità eccessiva, inventò il pretesto di una lite.
"Perchè - disse - mi hai reso torbida l'acqua che bevo?"
Il lanuto gli rispose timoroso:
"Di grazia, come posso fare quello di cui mi accusi, o lupo? L'acqua scorre da te alle mie sorsate."
Quello, svergognato dalla forza della verità, replicò:
"Sei mesi fa hai parlato male di me."
L'agnello rispose:
"In verità non ero ancora nato."
Quello disse:
"Tuo padre, per Ercole, ha parlato male di me."
E così, dopo averlo afferrato, lo sbranò con un'ingiusta morte.
Questa favola è stata scritta a causa di quegli uomini, che opprimono gli innocenti con motivazioni inventate.

Uno dei tanti (troppi!) casi in cui la ragione della forza ha il sopravvento sulla forza della ragione. D'altronde, che resistenza avrebbe potuto opporre il mite e inoffensivo agnello al lupo feroce e aggressivo? Un altro triste esempio di quanto sia crudele la legge di natura, poco adatta - io ritengo - a suggerire norme e comportamenti corretti e veramente umani.  
   

mercoledì 7 ottobre 2020

L'ultimo amore

Il poeta latino Orazio, tra i più grandi della letteratura mondiale, ha scritto poesie di tanti generi diversi, tra cui anche liriche d'amore. A differenza di tanti suoi colleghi - tra i latini possiamo ricordare Catullo e Properzio, focosi amanti rispettivamente di Lesbia e Cinzia - non ha mai vissuto una passione d'amore tragica e devastante, ma tanti innamoramenti che ondeggiavano tra la sensualità e il garbato gioco intellettuale. Nelle mie periodiche rivisitazioni dei poeti latini a me più cari, tra cui ovviamente c'è anche - vorrei dire: principalmente - Orazio, di recente mi è capitato più volte di leggere e rileggere una sua ode, forse non apprezzata dalla critica come tante altre (c'è solo l'imbarazzo della scelta), ma che io ritengo bellissima. Si tratta dell'ode 11 del IV libro. Che cosa ha di tanto bello?
Niente potrà spiegarlo meglio di una lettura diretta:

Ho un orcio di vino albano, invecchiato da più di nove anni; nell'orto, Fillide, c'è l'apio per intrecciare corone: c'è una grande quantità di edera che, avvolta intorno ai tuoi capelli, ti farà apparire uno splendore; la casa scintilla d'argento, l'altare, cinto di pure verbene, brama di essere spruzzato con il sangue di un agnello immolato. Tutta la servitù è affaccendata; le ancelle vanno correndo qua e là insieme ai giovani schiavi; le fiamme tremolanti dalle loro punte emettono tutt'intorno un fumo grigiastro. 
Tuttavia, affinché tu sappia a quali gioie sei invitata, sappi che devi festeggiare le Idi, giorno che divide a metà il mese di Aprile, dedicato a Venere marina; giorno che per me è giustamente solenne e quasi più sacro del mio compleanno, perché a partire da questo il mio Mecenate conta gli anni che scorrono. 
Il Telefo, che tu desideri, un giovane non della tua condizione sociale, lo ha preso prima di te una ragazza ricca e allegra, e lo tiene legato a sé con una catena a lui gradita. La combustione di Fetonte atterrisce le ambizioni umane e l'alato Pegaso, infastidito dal cavaliere terreno Bellerofonte, fornisce il valido esempio affinché tu segua sempre le cose adatte alla tua condizione ed eviti chi è troppo diverso da te, ritenendo empio concepire speranze al di là di ciò che è lecito. 
Orsù, vieni, ultimo dei miei amori (infatti in seguito non mi accenderò per altre donne), apprendi le melodie, che canterà la tua voce amabile: con il canto saranno attenuate le nere angosce.

Orazio sta organizzando i festeggiamenti per il compleanno del suo protettore ed amico Mecenate: nella casa fervono i preparativi e tutta la servitù è indaffarata. Per questa grande occasione il poeta invita pure Fillide, la giovane di cui è attualmente invaghito. Lei, però, spasima per un ragazzo, Telefo, che appartiene a una classe sociale superiore, a sua volta innamorato di una ragazza ricca e allegra. Orazio, come un fratello maggiore, le consiglia il senso della misura, per non concepire speranze e desideri che vadano al di là della sua condizione. Fillide canta con voce melodiosa e per questo Orazio insiste ad invitarla: il suo dolce canto allevierà le nere angosce. Quelle di lui, che avverte tristemente l'avanzare dell'età - Fillide sarà il suo ultimo amore - e quelle di lei, sofferente per una passione non corrisposta.
Da un inizio vivacemente descrittivo, si passa a due riferimenti mitologici, che dovrebbero ammonire gli uomini a non oltrepassare i propri limiti, quindi a una fase più riflessiva - potremmo dire: più oraziana - e infine si giunge alla conclusione intima e tenera al tempo stesso, in cui si sente vibrare una nota affettuosa per la giovane triste, la cui voce amabile potrà dare sollievo a entrambi.     

 

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Festìna lente

Questo motto latino, tuttora molto usato, significa: affréttati lentamente, e pare che fosse pronunciato spesso dall'imperatore Augusto,...