mercoledì 25 novembre 2020

Nostalgia

Il 25 novembre di dieci anni fa cessava di vivere mia madre, alla rispettabile età di 93 anni. Molti penseranno in cuor loro: be' è vissuta abbastanza, non si può davvero lamentare... Come se la vita fosse una vivanda prelibata ma pesante, da mangiare con cautela (= quanto basta) per non fare indigestione. Il fatto è che quando entrano in campo gli affetti, non ha senso dosare con il bilancino i minuti, le ore, i giorni, i mesi e gli anni che dovrebbero spettare (o vorremmo che spettassero) alla persona a cui, in un modo o nell'altro, siamo legati sentimentalmente: il nostro desiderio è unicamente che seguiti a stare con noi il più a lungo possibile, anche a dispetto delle spietate e immodificabili leggi del tempo.
Era stata ricoverata all'ospedale in conseguenza di un infarto, da cui si era pressoché ristabilita: entro pochi giorni sarebbe stata dimessa. Poi un pomeriggio la telefonata inattesa, che m'informava di un improvviso aggravamento. Al mio arrivo all'ospedale lei non c'era più, se n'era andata in punta di piedi, senza disturbare nessuno, come era sempre vissuta, pronta a mettersi al servizio di tutti i suoi cari, ma cercando di non pesare sugli altri. Al suo posto aveva lasciato nel letto un corpo insensibile e inerte, che aveva le sue fattezze e i suoi lineamenti, ma non riusciva a percepire l'angoscia che mi avvolgeva. 
Non so se sono stato un buon figlio: solo lei potrebbe dirmelo, ma sono convinto che in ogni caso mi direbbe di sì, almeno per non deludermi.
Per ricordarla degnamente, prenderò in prestito due poesie di due grandi poeti italiani: Giuseppe Ungaretti e Giovanni Pascoli.

La madre

E il cuore quando d’un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d’ombra,
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa
sarai una statua davanti all’Eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m’avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d’avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.

Sogno

Per un attimo fui nel mio villaggio,
nella mia casa. Nulla era mutato.
Stanco tornavo, come da un vïaggio;
stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato.

Sentivo una gran gioia, una gran pena;
una dolcezza ed un’angoscia, muta.
"Mamma?"  "È là che ti scalda un po’ di cena."
Povera mamma! e lei, non l’ho veduta.





     

venerdì 20 novembre 2020

Maxima debetur puero reverentia

 Al fanciullo è dovuto il massimo rispetto.
Questa frase di Giovenale (Satire, XIV, 47) mi è tornata in mente proprio oggi, leggendo sul televideo le solite e retoriche frasi di circostanza, con cui i nostri beneamati e strapagati governanti celebravano la ricorrenza odierna, 20 n0vembre, ossia la Giornata internazionale del bambino e dell'adolescente. Ormai ci siamo abituati che quasi ogni giorno dell'anno è dedicato al festeggiamento di una particolare categoria di persone: la festa della mamma, la festa del papà, la festa del nonno, la festa del migrante, la festa dei professori, la festa della donna, la festa del bambino... e chi più ne ha, più ne metta. La Convenzione internazionale per la tutela dei bambini, approvata il 20 novembre 1989 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite, consta di 54 articoli, la maggioranza dei quali completamente disattesi in tutti gli stati firmatari della succitata Convenzione e alcuni addirittura grotteschi, come quello che vieta a uno Stato di arruolare  come soldati gli adolescenti di età inferiore ai 15 anni (art. 38 comma 3); altri, invece, in aperto contrasto con altrettanti diritti riconosciuti come sacrosanti per altre categorie di persone. Basti pensare al fatto che viene prevista e garantita una tutela legale al bambino sia prima che dopo la nascita (dal Preambolo della Convenzione ONU 1989: Tenendo presente che, come indicato nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo il fanciullo, a causa della sua mancanza di maturità fisica e intellettuale, necessita di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita), cosa che ovviamente stride terribilmente con il principio di autodeterminazione della donna, a cui è riconosciuto il diritto di interrompere la gravidanza. Tutto ciò non è molto chiaro, né giustificabile da un punto di vista puramente logico.
Giovenale con una sola semplice frase ha detto tutto ciò che c'era da dire, chiamando le cose con il loro nome, senza la riprovevole abitudine dell'odierno e untuoso buonismo, che ha la pretesa di dare sempre ragione a tutti. 

giovedì 12 novembre 2020

Omaggio postumo

Tre giorni fa, precisamente alle tre di notte del 9 novembre, è stato il trentanovesimo anniversario della morte di mio padre. Questa occasione triste, ma che comunque è parte integrante della vita, mi ha suggerito di ricercare tra i miei amati classici un degno modo di commemorarlo. Senza cercare troppo, mi sono rivolto a due grandissimi, che non potevano non venirmi in mente di primo acchito: Orazio e Dante.
Orazio non si è mai vergognato di essere figlio di un ex schiavo, un cosiddetto liberto, anzi più volte nei suoi versi se ne è vantato ed ha espresso tutto il suo affetto e la sua riconoscenza a chi aveva dedicato la sua vita, le sue risorse e il suo amore per offrirgli la possibilità di crearsi un futuro di eccellenza. 
Scelgo il seguente brano solo perché non è eccessivamente lungo (Satire, I, 4, 103 - 120):

Se io dirò qualche cosa troppo schiettamente, se per caso la dirò con uno scherzo eccessivo, tu mi scuserai e mi concederai questo diritto: mi ci ha abituato il mio ottimo padre, in modo che, indicandomeli con esempi, io fuggissi tutti i vizi. Quando mi esortava a vivere in modo parsimonioso e frugale, contento di ciò che mi avesse procurato lui stesso: “Non vedi – mi diceva – come viva male il figlio di Albio e come sia povero Baio? È un grande insegnamento affinché nessuno voglia dilapidare il patrimonio paterno.” Quando voleva distogliermi dalla turpe relazione con una meretrice: “Cerca di essere diverso da Scetano.” Affinché non facessi la corte alle adultere, pur avendo la possibilità di godere dei loro favori, diceva: “Non è bella la fama di Trebonio colto sul fatto. Un filosofo ti spiegherà le motivazioni su che cosa sia meglio da evitare e da cercare; per me è sufficiente, se posso conservare il costume tramandato dagli antenati e mantenere intatta la tua vita e la tua fama, finché ti serve una guida; non appena l'età avrà irrobustito le tue membra e il tuo animo, nuoterai senza salvagente.” 

Quanto a Dante, i versi che citerò non riguardano il padre biologico, ma il suo maestro di studi, che lo amava come un figlio e che agli occhi di Dante aveva acquistato i contorni di un padre spirituale, come dovrebbe essere ogni vero insegnante. Si tratta di Brunetto Latini, letterato, notaio e uomo politico fiorentino, che l'onestà intellettuale e morale del poeta non poté fare a meno di collocare all'Inferno, data la sua fama di sodomita. Lui e i suoi compagni di pena corrono su un sabbione arroventato sotto una pioggia di fuoco. Dante (ovviamente il Dante personaggio, non il Dante autore) si meraviglia di trovarlo lì, macchiato di un tale peccato, ma questo non gli impedisce di trattenersi a lungo a colloquio con lui e di rivolgergli riconoscenti e affettuose parole di elogio (Inferno, XV, 79 - 87):

"Se fosse tutto pieno il mio dimando",
rispuos’io lui, "voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando;


ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora


m’insegnavate come l’uom s’etterna:
e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo

convien che ne la mia lingua si scerna.

Non voglio aggiungere altro, mi basta questo omaggio letterario, a cui affido il compito di sostituire tutte quelle parole che in certi casi avrei potuto, ma non ho mai detto a mio padre.








  

martedì 3 novembre 2020

Dirò brevemente la mia...

Nell'attesa che qualche ritardatario voglia aggiungere le sue risposte (questo sondaggio non ha un orario o una data di scadenza), vorrei aggiungere sinteticamente alcune mie osservazioni.
Dopo tanti anni di frequentazione di testi poetici prima come studente, poi come insegnante, infine come appassionato studioso sono giunto alla conclusione - opinabile alla pari di tutti i pensieri umani - che il valore autentico di una vera poesia risulti dalla compresenza di tre elementi: logica, sentimento e fantasia rintracciabili in dosi variabili caso per caso. Questo significa che una poesia con la P maiuscola deve essere in grado di convincermi, soddisfacendo più o meno la mia facoltà raziocinante; di suggestionarmi, suscitando in me emozioni e/o commozione; di illudermi, trasportandomi in una dimensione fantastica sradicata dalla realtà. Ribadisco che ciascuna di queste caratteristiche non può non essere presente, pur se in maggiore o minore misura. Ecco perché ritengo che gli aggettivi da me scelti - convincente, suggestivo, illusorio - si adattino a tutte e tre le Odi di Orazio, quale più, quale meno.  Passiamole in rassegna.
A) Penso che l'eccezionale poesia del "carpe diem" possieda una minima carica suggestiva, rivolta com'è a fronteggiare l'ansia del futuro, nel tentativo di neutralizzarlo, concentrando la vita umana nel presente. Quindi la giudico molto convincente, ma... che cosa significa ridurre la propria vita al semplice presente? Francamente non lo so, dato che il presente è indefinibile e inafferrabile: appena tentiamo di fissarlo, è già passato. Il testo latino è irraggiungibile da qualunque tentativo di traduzione: dum loquimur, fugerit invida / aetas (= mentre parliamo, il tempo invidioso sarà fuggito), in cui il futuro anteriore fugerit (= sarà fuggito) è di gran lunga più espressivo di un banale presente, perché non indica contemporaneità tra l'azione di parlare e la fuga del tempo, ma è come se questa precedesse addirittura le nostre parole, mentre l'enjambement tra invida ed aetas prolunga dolorosamente la sensazione di un tempo, che ci è sfuggito di mano e che non potremo mai più vivere. Inoltre, nessuna vita può prescindere da una pur minima progettualità, che, in quanto tale, è rivolta verso quel futuro, che vorremmo esorcizzare o annullare. Quindi, questa poesia, che da un lato mi è apparsa convincente, da un altro mi si rivela anche illusoria.
B) La poesia della contrapposizione tra il tempo ciclico delle stagioni e quello rettilineo della singola vita umana presenta, a mio parere, un minimo aspetto di illusorietà, poiché mi appare come la constatazione di un dato di fatto riscontrabile nell'esistenza umana, perciò convincente. C'è da aggiungere, però, che le immagini del succedersi delle stagioni e quelle della morte creano un reciproco contrasto atto a favorire emozioni e commozione, quindi è a suo modo un testo anche suggestivo.
C) La poesia della gloria poetica, che rende immortali (non omnis moriar = non morirò del tutto), ha una potente carica suggestiva - sarebbe bello sopravvivere alla morte anche solo nel ricordo costante di chi ci ha apprezzato - ma a volte penso più realisticamente che questa sia soltanto una grande illusione e che il tempo tenda implacabilmente ad annebbiare e a far sbiadire a poco a poco ogni sentimento di affetto, di riconoscenza, di stima, trasformando il ricordo, di chi non sia stato una celebrità come Orazio, in una fredda immagine sfocata legata a un nudo nome. Perciò, ondeggiando questa Ode tra suggestione e illusione, la reputo poco convincente.

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