Tre giorni fa, precisamente alle tre di notte del 9 novembre, è stato il trentanovesimo anniversario della morte di mio padre. Questa occasione triste, ma che comunque è parte integrante della vita, mi ha suggerito di ricercare tra i miei amati classici un degno modo di commemorarlo. Senza cercare troppo, mi sono rivolto a due grandissimi, che non potevano non venirmi in mente di primo acchito: Orazio e Dante.
Orazio non si è mai vergognato di essere figlio di un ex schiavo, un cosiddetto liberto, anzi più volte nei suoi versi se ne è vantato ed ha espresso tutto il suo affetto e la sua riconoscenza a chi aveva dedicato la sua vita, le sue risorse e il suo amore per offrirgli la possibilità di crearsi un futuro di eccellenza.
Scelgo il seguente brano solo perché non è eccessivamente lungo (Satire, I, 4, 103 - 120):
Se
io dirò qualche cosa troppo schiettamente, se per caso la dirò con
uno scherzo eccessivo, tu mi scuserai e mi concederai questo
diritto: mi ci ha abituato il mio ottimo padre, in modo che,
indicandomeli con esempi, io fuggissi tutti i vizi. Quando mi
esortava a vivere in modo parsimonioso e frugale, contento di ciò
che mi avesse procurato lui stesso: “Non vedi – mi diceva –
come viva male il figlio di Albio e come sia povero Baio? È un
grande insegnamento affinché nessuno voglia dilapidare il patrimonio
paterno.” Quando voleva distogliermi dalla turpe relazione con una
meretrice: “Cerca di essere diverso da Scetano.” Affinché non
facessi la corte alle adultere, pur avendo la possibilità di godere
dei loro favori, diceva: “Non è bella la fama di Trebonio colto
sul fatto. Un filosofo ti spiegherà le motivazioni su che cosa sia
meglio da evitare e da cercare; per me è sufficiente, se posso
conservare il costume tramandato dagli antenati e mantenere intatta
la tua vita e la tua fama, finché ti serve una guida; non appena
l'età avrà irrobustito le tue membra e il tuo animo, nuoterai
senza salvagente.”
Quanto a Dante, i versi che citerò non riguardano il padre biologico, ma il suo maestro di studi, che lo amava come un figlio e che agli occhi di Dante aveva acquistato i contorni di un padre spirituale, come dovrebbe essere ogni vero insegnante. Si tratta di Brunetto Latini, letterato, notaio e uomo politico fiorentino, che l'onestà intellettuale e morale del poeta non poté fare a meno di collocare all'Inferno, data la sua fama di sodomita. Lui e i suoi compagni di pena corrono su un sabbione arroventato sotto una pioggia di fuoco. Dante (ovviamente il Dante personaggio, non il Dante autore) si meraviglia di trovarlo lì, macchiato di un tale peccato, ma questo non gli impedisce di trattenersi a lungo a colloquio con lui e di rivolgergli riconoscenti e affettuose parole di elogio (Inferno, XV, 79 - 87):
"Se
fosse tutto pieno il mio dimando",
rispuos’io
lui, "voi non sareste ancora
de
l’umana natura posto in bando;
ché
’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona
imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad
ora
m’insegnavate
come l’uom s’etterna:
e
quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo
convien
che ne la mia lingua si scerna.
Non voglio aggiungere altro, mi basta questo omaggio letterario, a cui affido il compito di sostituire tutte quelle parole che in certi casi avrei potuto, ma non ho mai detto a mio padre.
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