Il poeta satirico Aulo
Persio Flacco di origine etrusca – era nato a Volterra nel 34 d. C.
– è vissuto appena ventotto anni e per questo ci ha lasciato uno
smilzo libretto contenente solo sei satire e altri quattordici versi,
che ora vengono interpretati come loro prologo, ora come epilogo, ora
come una composizione indipendente dalle altre sei. Nella terza
satira descrive con tagliente sarcasmo un giovane, che si sveglia
alle 11 di mattina dopo una notte di bagordi e trova mille scuse per
rifiutarsi di studiare: dapprima chiama un servo, che tarda ad
arrivare, facendolo andare su tutte le furie; poi, quando prova a
svolgere dei compiti e deve scrivere qualcosa, si lagna che
l'inchiostro è troppo denso; ma, se prova a diluirlo, quello risulta
annacquato e sgocciola... Insomma, non fa altro che cercare pretesti
per lamentarsi. Il poeta comincia a rimproverarlo, esortandolo a non
sprecare nell'ignavia e nei divertimenti il tempo della giovinezza,
in cui il suo carattere è ancora duttile e può essere più
facilmente modellato e orientato verso l'acquisizione di solidi
princìpi morali. Non deve cercare scuse, perché (gli dice il poeta
al verso 30): “Ego te intus et in cute novi”, ossia “Io
ti conosco internamente e sulla pelle (= dentro e fuori)”.
Possiamo spiegare questa frase in due modi diversi: o nel senso che:
io ti conosco completamente (appunto: dentro e fuori), o nel senso
che: conosco la tua vera realtà interiore, che non corrisponde a
come vorresti apparire esteriormente (appunto: sulla pelle), dunque
non puoi ingannarmi.
Solitamente questa
locuzione, introdotta da Persio e diventata di uso comune
(naturalmente per chi conosce il latino), viene citata amputandone
l'inizio e la fine e riducendola, quindi, a queste sole quattro
parole: intus et in cute.
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