L'esistenza
o meno degli alieni è un argomento che va molto di moda e con il
passare del tempo è diventato quasi lo spartiacque tra chi vuole
ostentare la propria autodichiarata apertura mentale e chi si
accontenta di restare ancorato alle più modeste, ma più concrete,
coordinate spazio – temporali dell'hic et nunc (= qui e ora), tanto
per restare fedeli all'impostazione latinofila del blog. Sul momento,
però, vorrei lasciare da parte l'eventuale soluzione di questo
controverso dilemma e soffermarmi a commentare il vocabolo alieno,
una parola latina, tale e quale.
Alienus-aliena-alienum
è un normale aggettivo della
prima classe, che, originatosi da alius-alia-aliud (=
altro), significa: altrui, appartenente ad altri, estraneo. Da esso
derivano le forme verbali alienare,
alienatus e il
sostantivo alienatio,
tutti vocaboli che hanno l'equivalente trasposizione in italiano.
Infatti sono di uso comune le corrispondenti parole “alienare” e
“alienato”, nel senso di togliere a qualcuno la proprietà di un
bene e di passarlo a un altro, o di riferirsi a qualcuno che non è
più padrone di sé, come se si fosse estraniato da sé. Ma
nell'ambito di questa famiglia lessicale la parola italiana più
impiegata è senz'altro: alienazione, il cui uso è frequente nel
campo giuridico, filosofico, economico-sociale e
clinico-psichiatrico. Nel campo giuridico si intende il trasferimento
a un altro di un proprio bene o diritto; in quello filosofico
equivale a sottrarre all'uomo ciò che è costitutivo e peculiare
della natura umana, come – secondo Rousseau – la libertà; in
chiave economico-sociale, invece, Marx chiama alienazione il fatto
che il capitale, prodotto dal lavoro, assoggetta ciò da cui deriva –
appunto il lavoro – costringendo il lavoratore a cedere la propria
forza-lavoro in cambio di un salario, che gli garantisca il livello
minimo di sopravvivenza; da un punto di vista clinico indica la
perdita delle proprie facoltà mentali; in senso etico-pragmatico,
nell'attuale crisi del mondo moderno – la tecnologica società dei
consumi – il termine alienazione è usato per evidenziare il
processo di degradazione spirituale, che porta a un'involuzione dei
valori morali, per cui l'individuo rinuncia a riconoscersi come
coscienza pensante, cioè a essere, preferendo l'ottusa
autorealizzazione nell'avere.
Pertanto,
la parola latina alienus e
tutti i suoi derivati ne hanno fatta di strada, per arrivare a
mettere le radici nel nostro modo di vivere e di pensare e ad
illuminarlo con i loro riflessi!
Ma
ritorniamo al discorso sugli alieni, parola che ormai è diventata il
sinonimo di extraterrestri, in quanto provenienti da un “altro”
pianeta, su cui vivono.
L'idea
che esistano gli alieni non l'abbiamo inventata noi moderni, quindi
non è ascrivibile alle nostre più progredite conoscenze
scientifiche, ma risale almeno a 25 secoli fa, dato che ne parlava
già il filosofo Metrodoro di Chio (vissuto tra il V e il IV secolo
a. C.), discepolo dell'atomista Democrito. Egli sosteneva l'esistenza
di un universo infinito, popolato da infiniti mondi, come poi
sosterrà pure Epicuro (IV – III secolo a. C.) e il suo seguace
latino Tito Lucrezio Caro (I secolo a. C.). Voglio farvi leggere ciò
che questi ne scrive più di duemila anni fa.
Nel
suo poema didascalico De rerum natura (=
La natura delle cose), in cui espone la filosofia epicurea, lo
scrittore latino esprime la convinzione certa che la Terra non sia il
solo pianeta abitato nell'universo. Nel II libro (vv. 1067 – 1080)
dice così:
Inoltre,
dato che c'è a disposizione molta materia, dato che lo spazio è a
portata di mano, né alcuna cosa né alcuna causa fanno da ostacolo,
è naturale che le cose debbano compiersi e realizzarsi. Ora se c'è
un così grande numero di atomi, quanto non potrebbe contare l'intera
vita di un essere vivente, e restano identiche la forza e la natura,
che possano aggregare nei diversi luoghi gli elementi primordiali
delle cose nello stesso modo in cui sono stati aggregati qui [cioè:
in questo mondo], è necessario ammettere che in altre parti dello
spazio esistano altri mondi e diverse razze di uomini e stirpi di
animali. A ciò si deve aggiungere il fatto che nell'universo non c'è
una sola cosa che sia prodotta unica e che cresca unica e sola, senza
che appartenga a qualche stirpe e che ce ne siano moltissime della
stessa specie.
In
un passo del V libro (vv. 1308 – 1349), in cui parla di tutt'altro,
egli torna a ribadire questa sua convinzione, per giustificare la
validità di un'ipotesi alquanto stravagante.
Illustrando
le faticose tappe del progresso, il poeta parla della scoperta e
della lavorazione dei metalli, che contribuirono a migliorare le
condizioni di vita. Il ferro servì per forgiare strumenti agricoli,
che permisero di lavorare meglio la terra, ma, d'altro canto, pure a
costruire armi sempre più sofisticate ed efficienti da usare in
guerra. A questo riguardo Lucrezio aggiunge che, per terrorizzare
meglio i nemici, gli uomini giunsero al punto di utilizzare in
battaglia bestie feroci: leoni, cinghiali e tori. Ma esse, malgrado
fossero guidate dai loro domatori, eccitate dal tumulto e dallo
spargimento di sangue, si rivoltarono contro le loro stesse schiere,
facendo strage nei due eserciti contrapposti. Il poeta si sofferma
con orrore sullo spettacolo terrificante delle belve, che straziano i
corpi dei combattenti con i morsi, con gli artigli e con le corna.
Poi,
riflettendo su una simile scelta così assurda, di cui nessuno aveva
ipotizzato le possibili disastrose conseguenze, Lucrezio è colto da
un dubbio (vv. 1341 – 1349):
Se
accadde davvero che facessero una cosa del genere. Ma a stento mi
induco a pensare che, prima che si verificasse una tale rovina,
comune a entrambe le parti e orribile, non abbiano potuto prevedere e
immaginare ciò che sarebbe accaduto; e si potrebbe pensare che
questo è avvenuto da qualche parte dell'universo, nei diversi mondi
formatisi in maniera diversa, piuttosto che in qualche regione
precisa [sottinteso: del nostro mondo]. Ma vollero fare ciò
con la speranza non tanto di vincere, quanto di procurare ai nemici
un motivo di sofferenza e a se stessi di morire, dato che non
potevano confidare in una superiorità numerica ed erano privi di
altre armi.
Da
notare la bizzarria dell'osservazione finale, con cui il poeta vuole
dare una spiegazione ragionevole di un comportamento ritenuto assurdo
nelle prime righe e, per di più, di un comportamento, che egli ha
appena escluso fosse caratteristico di esseri umani, in quanto
riguardante gli abitanti di un altro pianeta.
Il
rapporto tra Lucrezio e gli alieni può essere inquadrato, però,
anche da un altro punto di vista, quello teologico. Come tutti gli
epicurei, egli crede nell'esistenza degli dei, ma non crede che essi
si interessino degli uomini. Lasciamo che ce lo dica lui stesso (De
rerum natura, I, 44 – 49):
è
necessario che ogni natura divina goda in sé e per sé
dell'immortalità unita alla pace più profonda, distante e ben
lontana dai nostri problemi. Infatti, libera da ogni dolore, priva di
pericoli, ricca delle proprie risorse, bisognosa di nulla di nostro,
né si lascia conquistare dalle buone azioni, né è sfiorata
dall'ira.
Secondo
la filosofia epicurea gli dei vivrebbero negli intermundia,
cioè negli spazi interstellari, il che non vuol dire che volteggiano
nello spazio, perché hanno delle sedi concrete e ben specifiche, che
il poeta descrive succintamente, ma a tinte vivaci, ispirandosi ad
alcuni versi dell'Odissea di Omero (De rerum natura, III, 18 –
24):
Appaiono
la maestà degli dei e le loro sedi beate, che né scuotono i venti
né le nuvole bagnano con le loro piogge né, cadendo bianca, tocca
la neve, condensatasi per il gelo pungente, ma le copre sempre un
cielo sereno e sorride con una luce diffusa per ampio tratto. Inoltre
la natura fornisce di sua iniziativa ogni cosa né alcuna cosa turba
in nessun tempo la pace dell'animo.
Nel
V libro Lucrezio spiega perché non si possa negare l'esistenza degli
dei, fondata sull'esperienza diretta degli antichi (vv. 1169 –
1174):
Perché,
infatti, già allora le generazioni dei mortali vedevano durante la
veglia, ma di più nei sogni, splendide immagini divine dalla
straordinaria grandezza fisica. A loro, dunque, attribuivano la
sensibilità, per il fatto che era evidente che muovessero le membra
e pronunciassero parole superbe, proporzionate all'aspetto
meraviglioso e alla forza vigorosa.
Se
volessimo proporre un'interpretazione alquanto “creativa” di
questi brani lucreziani, potremmo affermare che gli dei rappresentati
dal poeta latino abbiano tutte le caratteristiche attribuibili agli
“alieni”: esseri superiori dal punto di vista fisico e
spirituale, che non hanno niente di sacrale, che vivono in qualche
parte remota dell'universo e che ogni tanto vengono a farci visita,
tanto è vero che gli antichi non si limitavano a sognarli, ma li
vedevano pure da svegli... Incontri ravvicinati del terzo tipo?
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