domenica 29 maggio 2022

Per rinfrescare la memoria...

Prima che finisca "il maggio odoroso", è cosa buona e giusta ricordare una famosa data di maggio: 26 maggio 2013 (la coppa in faccia, tanto per capirci...)


 

venerdì 13 maggio 2022

Oggi è il compleanno...

 ... del mio caro genero Ivano, che ha pure il merito di essere tifoso della Lazio, il che non guasta mai.




Tantissimi e affettuosissimi auguri di Buon Compleanno!


giovedì 12 maggio 2022

Giovenale e l'origine della società

La XV satira di Giovenale non è mai stata apprezzata né studiata convenientemente. Anche gli studi recenti ne hanno privilegiato i primi due terzi, dedicati alle superstizioni religiose del “folle” Egitto e all'episodio di [vero o presunto?] cannibalismo, sottovalutando i vv. 131 – 174, abbassati al livello di considerazioni moralistiche stoicheggianti intrise di luoghi comuni, ovvero una ripresa di toni sapienziali, che sarebbero quelli animati dal supposto riso democriteo, identificato un po' troppo avventatamente come carattere distintivo della seconda poetica giovenaliana, però all'interno di una satira, che recupera la primitiva poetica dell'indignatio: come si vede, un guazzabuglio critico senza capo né coda, quello che con una locuzione poco filologica, ma eloquente, si potrebbe esprimere con un modo di dire assai colorito: buttarla in caciara. Vorrei soffermarmi sul loro brano centrale (vv. 147 – 159), in cui è tratteggiata in modo originale una specie di “storia della primitiva società umana”. Allo studio completo di questa XV satira ho già dedicato il mio secondo libro dedicato a Giovenale: “Quindi l'ira e le lacrime” (Youcanprint 2015), da cui trarrò molti spunti, ma non esclusivamente, dato che da allora ad oggi mi è capitato di concepire qualche nuova idea, che ritengo non trascurabile.

Mundi

principio indulsit communis conditor illis

tantum animas, nobis animum quoque, mutuus ut nos

adfectus petere auxilium et praestare iuberet,

dispersos trahere in populum, migrare uetusto

de nemore et proauis habitatas linquere siluas,

aedificare domos, laribus coniungere nostris

tectum aliud, tutos uicino limine somnos

ut conlata daret fiducia, protegere armis

lapsum aut ingenti nutantem uolnere ciuem,

communi dare signa tuba, defendier isdem

turribus atque una portarum claue teneri.

All'inizio del mondo il creatore di tutte le cose concesse a loro [= alle bestie] soltanto la vita ma a noi anche la ragione e i sentimenti, affinché un reciproco affetto ci inducesse a chiedere e a prestare aiuto, a riunire in un popolo quelli che erano dispersi, a migrare dall'antico bosco e a lasciare le foreste abitate dagli antenati, a unire un altro tetto alla nostra abitazione, in modo che la fiducia degli uni negli altri rendesse sicuri i sonni per la vicinanza delle soglie, ci spingesse a proteggere con le armi un cittadino caduto o barcollante per una grave ferita, a dare segnali con la tromba comune, ad essere difesi dalle stesse torri e a stare al riparo delle porte chiuse da una sola chiave.”


Data la formazione retorica di Giovenale, è utile e doveroso soffermarsi su alcune sue scelte lessicali – davvero non casuali – che sono in grado di rivelarci i valori e le idee, di cui egli è convinto assertore.

Al verso 148 il poeta usa l'espressione communis conditor, per indicare il creatore di tutte le cose, che, se non si può considerare addirittura una dichiarazione di monoteismo integrale – lo ritengo una forzatura eccessiva –, può lasciare intendere che il politeismo giovenaliano preveda una netta distinzione tra una divinità assolutamente superiore e tante divinità di livello inferiore, a lui sottomesse. Il verbo condere è usato abitualmente, anche se non esclusivamente, nel significato di fondare, (per es. ab Urbe condita = dalla fondazione di Roma), quindi conditor equivarrebbe a un fondatore, ma teniamo presente che due secoli dopo S. Ambrogio nel primo dei suoi Inni si rivolge a Dio chiamandolo Aeterne rerum conditor (= Eterno creatore delle cose), e questa corrispondenza fa pensare.

La distinzione terminologica tra anima e animus (v. 149), la cui traduzione italiana anima e animo è del tutto inadeguata, perché non rende neppure lontanamente i significati latini di “principio vitale” per anima e di “facoltà razionale e sentimentale” per animo, è una fondamentale precisazione filosofica, su cui, per esempio, indugia a lungo Lucrezio nel III libro del De rerum natura.

La molla, che spinge gli uomini primitivi dispersi nei boschi a riunirsi in società, non è individuata da Giovenale nell'ovvio bisogno di sicurezza, conseguente alla debolezza e inadeguatezza del singolo di fronte alle minacce e ai pericoli quotidiani di una vita isolata, ma nel mutuus adfectus (= affetto scambievole. Empatia?), da cui deriva la conlata fiducia (= fiducia reciproca), che cementa la prima compagine sociale. Questo porre a base della vita associata il sentimento, invece del semplice tornaconto personale, non deve essere considerato una forma di svenevole sentimentalismo, perché al contrario si traduce in una forma di vita energica e combattiva di tipo militare: a questo mi fanno pensare le allusioni al cittadino caduto o barcollante a seguito di una ferita, gli squilli di tromba, le torri lungo le mura, le cui porte sono chiuse dalla stessa chiave. Non sembra che stia parlando di una cittadella fortificata sotto attacco? 

lunedì 9 maggio 2022

Le caricature di Salomone

Una delle testimonianze più evidenti dell'antica saggezza giuridica latina è il suggerimento, poi diventato proverbiale, audiatur et altera pars [= si ascolti anche l'altra parte], che dovrebbe essere fatto proprio non solo dai giudici in un processo (ovviamente!), ma anche da quella categoria di autoproclamatisi (pseudo)scienziati e tuttologi, che si atteggiano con sussiego a depositari della verità. Alludo alla versione moderna degli antichi logografi e storici, che attualmente, però, non riescono ad innalzarsi a un livello superiore dei cantastorie, dei menestrelli dei poteri forti. Giornalisti, conduttori televisivi e intrattenitori grazie a non si sa quale scienza infusa (non tirerei in ballo lo Spirito Santo, perché i discorsi in questione sono di una volgarità e di una meschinità disarmanti) a tutti i costi vogliono apparire in grado di blaterare su qualsivoglia argomento, sputando sentenze e trinciando giudizi, che, secondo loro, esprimono tutta la verità, nient'altro che la verità. Ma che cos'è la verità? Secondo la corrente filosofica medievale chiamata Scolastica, che culminò nel genio di S. Tommaso d'Aquino, la verità è definibile come adaequatio rei et intellectus, ossia corrispondenza tra la realtà e il pensiero. La realtà in sé e per sé non è né vera né falsa, può essere vero o falso un giudizio formulato sulla realtà. Quindi, prima di proclamare: questo è vero, questo è falso, bisogna ricercare e vagliare i diversi punti di vista, perché la verità è univoca – su questo siamo d'accordo – ma solo alla fine di un lungo e laborioso processo di indagine e neppure in tutte le circostanze, perché talora per la complessità dell'argomento in questione ci dobbiamo accontentare di avvicinarci alla verità, di sfiorarla senza riuscire a comprenderla e a possederla interamente.

In greco antico la parola verità è alétheia, formata da a (alfa privativo) + la radice lath/leth che troviamo nel verbo lanthàno, [= stare nascosto]. Ossia essa consiste nel disvelamento, nel rivelare ciò che prima era nascosto. Una fonte unilaterale è insufficiente e tendenziosa: bisogna conoscere per decidere, e se ci sono due versioni contrastanti, è doveroso conoscerle tutte e due, per confrontarle e poter arrivare a concludere quale sia, se non quella vera, almeno quella più verosimile. I menestrelli di cui parlavo prima, non lo hanno fatto da più di due anni a questa parte – a proposito della cosiddetta pandemia – e non lo stanno facendo adesso a proposito della guerra e dei provvedimenti sciagurati che stanno prendendo i governi europei. Adducono cause fittizie, alzando urla e strepiti contro chi si azzarda ad analizzare le cause dei fatti, che, come c'insegna lo storico greco Polibio, possono essere di tre tipi: aitìa (causa profonda), arché (inizio dei fatti), pròphasis (pretesto, causa occasionale).

Non vorrei scomodare anche l'apologeta cristiano Tertulliano, però, sapendo fino a che punto questi cantastorie siano i portavoce degli oscuri poteri anticristiani, che vogliono abbrutirci, per cancellare dalla vita ogni parvenza di spiritualità, lo citerò con vero piacere: a proposito delle persecuzioni scatenate contro i cristiani e basate su accuse assurde e inconsistenti, egli affermò nell'Apologeticum: ne ignorata damnetur, ovvero che non sia condannata una religione sconosciuta. Cioè, per emettere un giudizio sensato, bisogna prima conoscere bene ciò di cui si sta parlando. E questa, se ce ne fosse ancora bisogno, è un'altra riprova di quanto siano convergenti la saggezza latina pagana e quella cristiana. 

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Questo motto latino, tuttora molto usato, significa: affréttati lentamente, e pare che fosse pronunciato spesso dall'imperatore Augusto,...