La XV satira di Giovenale non è mai stata apprezzata né studiata convenientemente. Anche gli studi recenti ne hanno privilegiato i primi due terzi, dedicati alle superstizioni religiose del “folle” Egitto e all'episodio di [vero o presunto?] cannibalismo, sottovalutando i vv. 131 – 174, abbassati al livello di considerazioni moralistiche stoicheggianti intrise di luoghi comuni, ovvero una ripresa di toni sapienziali, che sarebbero quelli animati dal supposto riso democriteo, identificato un po' troppo avventatamente come carattere distintivo della seconda poetica giovenaliana, però all'interno di una satira, che recupera la primitiva poetica dell'indignatio: come si vede, un guazzabuglio critico senza capo né coda, quello che con una locuzione poco filologica, ma eloquente, si potrebbe esprimere con un modo di dire assai colorito: buttarla in caciara. Vorrei soffermarmi sul loro brano centrale (vv. 147 – 159), in cui è tratteggiata in modo originale una specie di “storia della primitiva società umana”. Allo studio completo di questa XV satira ho già dedicato il mio secondo libro dedicato a Giovenale: “Quindi l'ira e le lacrime” (Youcanprint 2015), da cui trarrò molti spunti, ma non esclusivamente, dato che da allora ad oggi mi è capitato di concepire qualche nuova idea, che ritengo non trascurabile.
Mundi
principio indulsit communis conditor illis
tantum animas, nobis animum quoque, mutuus ut nos
adfectus petere auxilium et praestare iuberet,
dispersos trahere in populum, migrare uetusto
de nemore et proauis habitatas linquere siluas,
aedificare domos, laribus coniungere nostris
tectum aliud, tutos uicino limine somnos
ut conlata daret fiducia, protegere armis
lapsum aut ingenti nutantem uolnere ciuem,
communi dare signa tuba, defendier isdem
turribus atque una portarum claue teneri.
“All'inizio del mondo il creatore di tutte le cose concesse a loro [= alle bestie] soltanto la vita ma a noi anche la ragione e i sentimenti, affinché un reciproco affetto ci inducesse a chiedere e a prestare aiuto, a riunire in un popolo quelli che erano dispersi, a migrare dall'antico bosco e a lasciare le foreste abitate dagli antenati, a unire un altro tetto alla nostra abitazione, in modo che la fiducia degli uni negli altri rendesse sicuri i sonni per la vicinanza delle soglie, ci spingesse a proteggere con le armi un cittadino caduto o barcollante per una grave ferita, a dare segnali con la tromba comune, ad essere difesi dalle stesse torri e a stare al riparo delle porte chiuse da una sola chiave.”
Data la formazione retorica di Giovenale, è utile e doveroso soffermarsi su alcune sue scelte lessicali – davvero non casuali – che sono in grado di rivelarci i valori e le idee, di cui egli è convinto assertore.
Al verso 148 il poeta usa l'espressione communis conditor, per indicare il creatore di tutte le cose, che, se non si può considerare addirittura una dichiarazione di monoteismo integrale – lo ritengo una forzatura eccessiva –, può lasciare intendere che il politeismo giovenaliano preveda una netta distinzione tra una divinità assolutamente superiore e tante divinità di livello inferiore, a lui sottomesse. Il verbo condere è usato abitualmente, anche se non esclusivamente, nel significato di fondare, (per es. ab Urbe condita = dalla fondazione di Roma), quindi conditor equivarrebbe a un fondatore, ma teniamo presente che due secoli dopo S. Ambrogio nel primo dei suoi Inni si rivolge a Dio chiamandolo Aeterne rerum conditor (= Eterno creatore delle cose), e questa corrispondenza fa pensare.
La distinzione terminologica tra anima e animus (v. 149), la cui traduzione italiana anima e animo è del tutto inadeguata, perché non rende neppure lontanamente i significati latini di “principio vitale” per anima e di “facoltà razionale e sentimentale” per animo, è una fondamentale precisazione filosofica, su cui, per esempio, indugia a lungo Lucrezio nel III libro del De rerum natura.
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