Nella
cultura latina la poesia è concepita come l'esito dell'equilibrata
convergenza di due risorse, l'una in funzione dell'altra: l'ingenium
e l'ars. Il
primo termine indica le doti naturali e innate, mentre il secondo
mette l'accento sulla tecnica compositiva. Il solo ingenium
può essere sufficiente a
qualificare un poeta, ma rozzo, in quanto egli ha – sì – qualche
cosa da dire, ma la dice male, in modo inadeguato. La sola ars
non è in grado di raggiungere
la poesia, ma nel migliore dei casi può rendere qualcuno un buon
verseggiatore, un facitore di versi. L'indispensabile compresenza di
questi due elementi è testimoniata da Cicerone nel giudicare
positivamente il poema di Lucrezio, un poeta a lui non molto gradito,
perché appartenente alla corrente filosofica dell'epicureismo, da
condannare, secondo il grande oratore, che non approvava né la sua
etica basata sul piacere, né il suggerimento di astenersi
dall'attività politica. In una lettera al fratello Quinto (libro II,
9, 3) egli riconosce obiettivamente che nel De rerum natura
si trovano molti sprazzi
d'ingegno (multis luminibus ingenii)
ma anche molta arte (multae tamen artis).
Fatta
questa doverosa premessa, passo ad esaminare tre particolari concetti
di poesia presenti nelle opere di Orazio, Persio e Giovenale: in
realtà si potrebbero definire tre “variazioni sul tema”, perché
sono tre personali interpretazioni dello stesso argomento. Non è un
caso che io abbia scelto tre esponenti del genere satirico, un genere
letterario pericolosamente in bilico tra la tentazione prosastica –
anche prosaica! – e la vibrante asserzione di elevati princìpi
morali, spesso assai curata stilisticamente.
Ometto
di sottolineare ancora una volta l'alto livello artistico raggiunto
dalla varia produzione oraziana – è ovviamente superfluo –, ma
mi preme precisare che il poeta venosino è stato anche un grande
teorico di poesia, come testimonia l'Epistola ai Pisoni, il poemetto
didascalico, anch'esso – tra l'altro – pregevole opera di poesia,
in cui egli si dimostra un esperto conoscitore dei canoni dell'arte
poetica, tra cui la necessità che l'ingenium
e l'ars svolgano un
ruolo combinato per il raggiungimento dei più soddisfacenti
risultati artistici. Ma non è su questo che vorrei soffermarmi.
Nella
II epistola del II libro, dedicata a Floro, rievocando tra il serio e
il faceto gli inizi della sua carriera poetica, egli dice con una
formula autoriduttiva e autoironica (cfr. per es. l'equipollente
espressione Epicuri de grege porcum nel
verso 16 dell'epistola I, 4):
paupertas
impulit audax ut versus facerem
“sotto
la spinta della povertà trovai il coraggio di fare versi
(Epistole
II, 2, 51 – 52)
Molti
critici hanno preso alla lettera questa osservazione,
scandalizzandosi perché la povertà non è assolutamente un movente
adeguato per trasformare in poeta chi già non lo sia. Ma Orazio non
ha detto questo, dato che ha usato la locuzione versus
facere, fare versi, che è ben
diversa da “essere poeta”, ma equivale a “essere un
verseggiatore, un facitore di versi”. Chi sarebbe tanto sventato e
irriverente da qualificare come verseggiatore o facitore di versi un
Dante, un Petrarca, un Tasso o un Leopardi?
Persio,
l'immediato successore satirico di Orazio, dimostra invece di aver
inquadrato nei giusti termini l'ambigua confessione del suo
predecessore, approfondendone la portata per rivolgere un giudizio di
disvalore alla pseudopoesia dei suoi contemporanei. È la critica
tagliente contenuta nella seconda metà dei Choliambi,
in cui i poetastri coevi sono paragonati a corvi, gazze e pappagalli
che, stimolati dall'offerta di cibo, si sforzano di ripetere
meccanicamente parole umane. Alla paupertas oraziana
egli sostituisce più prosaicamente il venter, l'appetito,
la voracità:
Quis
expedivit psittaco suum 'chaere'
picamque
docuit nostra verba conari?
Magister
artis ingenique largitor
venter,
negatas artifex sequi voces.
“Chi
ha reso agevole al pappagallo il suo <buongiorno!>
e ha insegnato alle gazze a
cimentarsi nella pronuncia di parole umane? Il ventre, maestro
dell'arte e donatore d'ingegno, capace di far riprodurre suoni umani
non consentiti dalla natura” (Choliambi, 8
– 11)
Da
notare che, secondo Orazio, la paupertas aveva
potuto trasformarlo in un buon versificatore (impulit ut
versus facerem), cioè gli aveva
concesso l'ars, mentre
Persio nel suo impietoso sarcasmo va ben oltre, perché qualifica il
ventre come “maestro dell'arte e donatore d'ingegno”, quindi del
tutto in grado di trasformare in vero poeta – in cui si abbinano
ingenium ed ars
– anche chi non abbia ricevuto dalla natura un'indole poetica.
Giovenale,
l'ultimo grande satirico latino, non poteva non dire la sua a questo
proposito. Nella I satira egli passa in rapida rassegna la corruzione
presente in Roma. Davanti a tanta depravazione e perversione non può
rimanere indifferente e decide di scendere nell'agone poetico, per
denunciare il vizio dilagante. Ma un dubbio l'assale: sarà in grado
di scrivere versi all'altezza di un argomento così impegnativo e
coinvolgente? Avrà la giusta ispirazione? Ed ecco la risposta:
Si
natura negat, facit indignatio versum
“Se
la natura mi nega l'indole poetica, sarà l'indignazione a dettarmi i
versi”
(Satire,
I, 79)
Quindi
Giovenale è convinto che l'assenza del talento (dote innata =
ingenium) può essere
compensata dall'indignatio,
accompagnata nel suo caso da una sofisticata tecnica compositiva (=
ars), dovuta ai suoi
studi retorici. È questa, come abbiamo visto una terza
interpretazione particolare del controverso rapporto tra ingenium
ed ars,
che Orazio affronterà in modo più impegnativo nell'Epistola ai
Pisoni, la fondamentale Ars Poetica,
oggetto di culto fino alle soglie del Romanticismo.