Ma anche alcuni critici letterari, o improvvisatisi tali, hanno mostrato una grande difficoltà a valutarlo degnamente e sono caduti banalmente nello stupido errore di imporgli un'unica maschera, da loro scelta arbitrariamente, dandone un'interpretazione asfittica e sterilmente riduttiva, talora addirittura offensiva. Si pensi, per esempio, alle critiche acide di Vittorio Alfieri, alla freddezza di Ugo Foscolo, alle insolenze gratuite di Huysmans, che in A rebours lo definisce esasperante bamboccione e vecchio pagliaccio. Tanto peggio per loro: non si può piacere a tutti, tanto più se, anche a dispetto dell'età che dovrebbe suggerire saggezza e moderazione, si conserva una sensibilità così esasperata, da sconfinare nell'autoesaltazione nevrotica. Però sbaglia pure chi ammira smodatamente la classicità di Orazio, riducendola a una gelida perfezione equilibrata e armonica, da contemplare in adorazione. La grandezza della poesia oraziana, al di là della raffinata eleganza formale, sta nel suo germogliare dalla vita vissuta... e sofferta. La saggezza di Orazio nasce dall'esperienza, non è qualcosa di libresco e di imparaticcio, appreso sui sacri testi dei filosofi, e per capirlo non serve un grande sforzo interpretativo, perché ce lo dice lui stesso (Epistole I, 1, vv. 14 – 15):
nullius addictus iurare in uerba magistri,
quo me cumque rapit tempestas, deferor hospes.
non m'impegno a seguire ciecamente
l'insegnamento di nessun maestro,
ma dovunque mi spinga la tempesta,
chiedo ospitalità.
Basterebbe leggere – e capire – questi due soli versi per mettere fine una buona volta a tutta l'annosa (secolare?) e inconcludente controversia se Orazio sia stato più epicureo che stoico e fino a che punto. Eppure c'è ancora chi lo strumentalizza come bandiera di un personale e anacronistico epicureismo, oltretutto malcompreso e quasi mai basato sulla conoscenza diretta dei testi greci e latini in lingua originale. La lettura ragionata della IV epistola del I libro sarà sufficiente – spero – a chiarire tutte le idee confuse a riguardo. Al testo latino aggiungerò la mia traduzione ritmica in terza rima, già pubblicata nei miei due libri dedicati ad Orazio:
Albi,
nostrorum sermonum candide iudex,
quid nunc te dicam facere in
regione Pedana?
Scribere quod Cassi Parmensis opuscula uincat,
an
tacitum siluas inter reptare salubris,
curantem quicquid dignum
sapiente bonoque est?
Non tu corpus eras sine pectore; di tibi
formam,
di tibi diuitias dederunt artemque fruendi.
Quid uoueat
dulci nutricula maius alumno,
qui sapere et fari possit quae
sentiat, et cui
gratia, fama, ualetudo contingat abunde,
et
mundus uictus non deficiente crumina?
Inter spem curamque, timores
inter et iras
omnem crede diem tibi diluxisse supremum;
grata
superueniet quae non sperabitur hora.
Me pinguem et nitidum bene
curata cute uises,
cum ridere uoles, Epicuri de grege porcum.
Delle satire mie giudice schietto,
Albio, che fai laggiù rinchiuso a Pedo?
Componi poesie più del libretto
di quel Cassio parmense belle – credo –
o nei boschi aromatici un po' mesto
mentre passeggi, meditar ti vedo
ciò che è degno di un uomo saggio e onesto?
Nel tuo corpo era un'anima. Gli dei
bellezza e un patrimonio non modesto
ti diedero e a goderne abile sei.
Di più che può augurare la nutrice
al dolce bimbo allattato da lei?
“Abbia giudizio, voce ammaliatrice,
salute, gloria, stima dei potenti
e di vita un tenor che non disdice.”
Mentre angosciato sei dai sentimenti
della speranza e del timore vani,
stima ogni giorno, che ti si presenti,
come se fosse l'ultimo: il domani,
quando è inatteso, giunge meno scuro.
Grasso, lucente, animo e corpo sani,
mi troverai, da ogni difetto puro,
se un giorno vorrai farti due risate:
un vero porcellino di Epicuro.
Con ogni probabilità il destinatario della poesia doveva essere il poeta elegiaco Albio Tibullo, che in un momento di depressione, forse dovuta o a una delusione amorosa o a un presentimento dell'imminente morte prematura (morirà a 35 anni), si era rifugiato a meditare in una piccola località laziale. Il tono affettuoso e fraternamente consolatorio – da fratello maggiore – risulta chiaro fin dall'inizio, quando Orazio mostra di apprezzare il giudizio lusinghiero che l'amico Albio aveva pronunciato sulle sue Satire e scherzosamente avanza l'ipotesi maliziosa, ma inverosimile, data l'improponibilità di un eventuale confronto, che Tibullo si stia impegnando a superare le poesiole di un autore di secondo piano.
Tra i tanti complimenti rivolti all'amico il più bello e il meno epicureo è: non tu corpus eras sine pectore (= tu non eri un corpo senza un'anima). Infatti un autentico seguace di Epicuro, ritenendo l'anima materiale come il corpo, in quanto anch'essa costituita da un'aggregazione di atomi pur se più sottili e, quindi, destinata a disgregarsi con quello alla morte fisica, non poteva mettere in contrapposizione anima e corpo, evidenziandone la natura distinta e, di conseguenza, rivolgendo un indiretto complimento all'amico per la sua spiritualità. Quanto al consiglio di considerare ogni giorno come l'ultimo, in modo che giunga più gradita ogni ora futura inattesa, è un invito a concentrarsi concretamente sul presente – come il carpe diem – senza proiettare astrattamente la propria vita in un ipotetico futuro: un suggerimento che non appartiene alla sola dottrina epicurea ma all'universale saggezza perenne, al di là delle singole scuole di pensiero.
Infine l'autoidentificazione con il porcellino del gregge di Epicuro, che molti per insipienza o malafede, hanno voluto prendere sul serio, non è una dichiarazione di fede epicurea, ma solo l'ultimo tentativo di strappare un mezzo sorriso all'amico malinconico, presentandosi come la caricatura di se stesso.
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