lunedì 5 agosto 2024

Orazio e la strategia dell'hic et nunc (= qui e ora)


Nel XVI Epòdo Orazio identifica nelle Isole Fortunate, o dei Beati – le attuali Canarie –, il locus amoenus mitizzato e fantastico, dove dovrebbero emigrare in massa i Romani, per trovare la salvezza e la pace minacciate dalla guerra civile (quella tra i cesaricidi e i triumviri):

Ci aspetta l'Oceano che avvolge le terre: navighiamo verso i campi beati, verso i campi e le isole felici (vv. 41 – 42).

Superato questo iniziale momento di sbandamento, raggiunta con l'età matura una stabilità, che abbraccia sia il punto di vista ideologico, sia quello della vita quotidiana, l'immagine mitica del locus amoenus cede il posto alla suggestione dell'angulus, che si presenta sotto tre differenti aspetti: lo spazio fisico, la situazione, la condizione psicologica. Prima di entrare nel merito, devo rispondere a un'ovvia obiezione: una volta che sono scomparsi i pericoli connessi alla guerra civile, da dove nasce la necessità per Orazio di rifugiarsi in un angulus che gli garantisca sicurezza? E da che cosa?

Il problema è che egli avverte – dolorosamente – il contrasto irriducibile e insanabile tra il tempo della natura, che nella sua circolarità ripropone ogni anno il ritorno delle stagioni, e quello dell'uomo, non ciclico ma rettilineo nella sua unicità (= nascita crescita vecchiaia morte), che è stritolato dal primo, senza avere la possibilità di rinnovarsi: vedi le due Odi parallele I, 4 e la bellissima ma sconsolata IV, 7:

Tuttavia lo scorrere del tempo, scandito dalle fasi lunari, aggiusta i danni delle stagioni inclementi: noi, quando siamo andati a finire dove il padre Enea, dove il ricco Tullo e Anco, siamo polvere ed ombra (vv. 13 – 16).

Quindi il poeta ha bisogno di escogitare una vera strategia difensiva per fronteggiare la minaccia del tempo. Minaccia in che senso? Il tempo può essere fonte di angoscia per l'uomo sotto tre punti di vista: il passato, come eventuale motivo di rimpianti e di rimorsi; il presente, quando se ne avverte con rincrescimento l'evanescenza e l'inafferrabilità; il futuro – è il caso di Orazio –, perché non si sa come sarà né se ci sarà. Quindi, il pensiero che il futuro possa riservarci grandi mali – la povertà, le malattie, la stessa morte che, pur essendo una realtà certa, può essere più o meno vicina, più o meno dolorosa – angustia la vita dell'uomo, che soffre in anticipo sperando e temendo. Non essendo in grado di modificare il futuro, che, non esistendo ancora, è sottratto alla nostra capacità d'intervento, Orazio suggerisce di modificare il nostro approccio nei confronti del tempo: egli ci consiglia d'ignorare il futuro e di concentrarci sull'ora presente, vivendo attimo per attimo, allo scopo di realizzare consapevolmente tutte le possibilità che ci si presentano un giorno dopo l'altro. Questo, e non il superficiale incitamento al piacere sregolato e immediato, è il significato della famosa ode del carpe diem (Odi I, 11), il cui tema (esorcizzare e nullificare il futuro nella valorizzazione del presente) è ricorrente nella poesia oraziana. Per es.: evita d'indagare che cosa accadrà domani e considera un guadagno qualunque giorno ti concederà la sorte (Odi I, 9, 13 – 15), oppure: convinciti che ogni giorno sia per te l'ultimo a risplendere: ti giungerà gradita l'ora che non avrai sperato (Epistole I, 4, 13 – 14). È molto significativo che questa medesima concezione del tempo sia stata anticipata da Orazio addirittura nel XIII Epòdo, anche se in maniera ancora un po' sfocata: amici, strappiamo al giorno l'occasione che ci porge... (vv. 3 – 4).

L'angulus, quindi, è il corrispettivo spaziale – sia concreto che figurato – del carpe diem temporale. Rinchiudersi in un luogo circoscritto, e a noi gradito, è analogo a concentrare la propria vita nell'attimo presente: il risultato è una chiusura spazio-temporale in cui si afferma la realtà dell'io nell'hic et nunc (= qui e ora).

Come ho anticipato, l'angulus oraziano può presentarsi sotto tre diversi aspetti:

  • Luogo concreto. Di solito si tratta della villetta in Sabina donatagli da Mecenate nel 33: Era questo che desideravo! Un po' di terra non così grande, dove ci fosse un giardino e una sorgente di acqua perenne vicina alla casa e, in aggiunta, un piccolo bosco (Satire II, 6, 1 – 3). Nelle Epistole ritorna spesso la suggestione dell'angulus, in riferimento sia alla suddetta villa (I, 7; 14; e la 16 in cui la campagna intorno alla sua villa gli evoca l'immagine di Taranto, quell'angulus prediletto, che egli accarezza nell'Ode II, 6; ma anche la 10, in cui il discorso si amplia fino alla classica contrapposizione tra città e campagna), sia a qualsiasi posto sperduto e disabitato – Lebedo, Ulubra – in cui gli sia possibile riappropriarsi di se stesso e verificare di persona il suggerimento di Lucrezio, contenuto nel proemio al II libro: Sai che cosa sia Lebedo, un villaggio più deserto di Gabi e di Fidene; tuttavia vorrei vivere lì, dimenticandomi dei miei e dimenticato da loro, a guardare in lontananza dalla terraferma il mare in tempesta (Epistole I, 11, 7 – 10).

  • Situazione. Il convito e la cerchia degli amici intimi, cantati in molte odi conviviali, ma anche nella sesta Satira del II libro, che termina con la famosa favola - dal sapore autobiografico – del topo di campagna e del topo di città, per non parlare dell'Epistola quinta del I libro, indirizzata a Torquato, che contiene un invito a cena solo in apparenza spiritoso, ma ricco di pensosa umanità.

  • Condizione psicologica. I princìpi morali di Orazio, dichiarati e suggeriti fin dalle Satire e poi cantati nelle Odi e discussi nelle Epistole – l'autàrkeia (= l'autosufficienza) e la metriòtes (= il senso della misura) –, sono il bastione dietro cui il poeta trova un rifugio e mette al riparo i suoi valori, per evitare che essi vengano travolti nell'impatto con la volgare realtà.

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