mercoledì 2 agosto 2023

Una profezia di Giovenale

I seguenti sono i versi 124 – 140 tratti dalla Satira II di Giovenale:


Segmenta et longos habitus et flammea sumit
arcano qui sacra ferens nutantia loro
sudauit clipeis ancilibus. O pater urbis,
unde nefas tantum Latiis pastoribus? Unde
haec tetigit, Gradiue, tuos urtica nepotes?
Traditur ecce uiro clarus genere atque opibus uir,
nec galeam quassas nec terram cuspide pulsas
nec quereris patri. Vade ergo et cede seueri
iugeribus campi, quem neglegis. 'Officium cras
primo sole mihi peragendum in ualle Quirini.'
Quae causa officii? 'Quid quaeris? Nubit amicus
nec multos adhibet.' Liceat modo uiuere, fient,
fient ista palam, cupient et in acta referri.
Interea tormentum ingens nubentibus haeret
quod nequeant parere et partu retinere maritos.

Sed melius, quod nil animis in corpora iuris
natura indulget: steriles moriuntur...

Indossa nastri e abiti lunghi e il velo da sposa uno che sudò sotto gli scudi ancili, portando quelle sacre reliquie, che oscillavano dall'arcana striscia di cuoio. O padre della città, da dove è giunta una così grande nefandezza ai pastori del Lazio? Da dove, o Gradivo, una tale smania erotica è arrivata a turbare i tuoi discendenti? Ecco, un uomo illustre per il suo casato e le ricchezze si dà in moglie a un uomo, e tu non scuoti l'elmo né batti la terra con l'asta né ti lamenti con tuo padre. Allora vattene e ritirati dall'area del faticoso Campo Marzio, che tu stai trascurando.

Domani in prima mattinata ho un impegno da assolvere proprio sotto il Quirinale.”

<Di che impegno si tratta?>

Come, non lo sai? Un mio amico si marita: ci ha invitati in pochi.”

È solo questione di tempo. Poi queste cose si faranno alla luce del sole, anzi pretenderanno pure che siano registrate ufficialmente per iscritto. Ma intanto queste sposine sono tormentate da una grave sofferenza, poiché non possono partorire e trattenere i mariti con i figlioli. Però è meglio così, dal momento che la natura non concede agli animi nessun diritto sui corpi: muoiono sterili...


Mi astengo da ogni commento, perché ciascuno è libero di interpretare questi famosi versi come meglio crede. Comunque, suggerisco ai più curiosi la lettura del mio libro Ma li difende il numero (Youcanprint 2015), tutto centrato sullo studio della II Satira del grande aquinate.




domenica 16 luglio 2023

Oggi è il compleanno...

… di Quinto Ennio, l'ultimo poeta epico latino dell'età arcaica. Nato a Rudiae, nell'odierna Puglia, il 16 luglio del 239 a. C., diceva di possedere tre cuori, perché parlava tre lingue: il latino, il greco e l'osco. Partecipò alla II guerra punica in Sardegna, dove conobbe Catone il Censore, che alla fine della guerra lo portò a Roma. Qui, però, Ennio si allontanò da lui, per accostarsi al progressista Circolo degli Scipioni, assai sgradito al conservatore Catone. Fu chiamato pater Ennius, padre della letteratura latina, dati i vari interessi, che gli fecero comporre opere di ogni tipo. Il suo capolavoro sono gli Annales, un poema epico-storico in 18 libri, in cui al verso saturnio viene sostituito per la prima volta l'esametro, che Ennio trasferì dalla poesia greca (Iliade, Odissea) a quella latina. Dopo un proemio, in cui racconta che Omero gli sarebbe apparso in sogno e gli avrebbe spiegato di essersi reincarnato in lui, secondo la teoria della metempsicosi, inizia il poema con la venuta di Enea nel Lazio e arriva al 171 a. C., distribuendo anno per anno le vicende della storia di Roma, come facevano in prosa gli storici annalisti. Ennio amava sperimentare nuove soluzioni e cercava di produrre effetti suggestivi, ricorrendo a frequenti allitterazioni, per esempio:

At tuba terribili sonitu taratantara dixit

o, addirittura, questo verso difficilmente superabile:

O Tite tute Tati tibi tanta tyranne tulisti.

A volte il suo gusto per la sperimentazione lo spinge a sondare tutte le possibilità dell'esametro, anche le più stravaganti, come nel seguente verso, costituito da sei spondei che, con il loro ritmo lento, sono adatti a sottolineare la pausa di silenzio prima della risposta:

Olli respondit rex Albai Longai.

Oltre ai circa seicento esametri degli Annales, ci sono pervenuti scarsi frammenti delle commedie, quattrocento versi delle tragedie – l'autore greco preferito doveva essere Euripide, dato il suo interesse per i personaggi femminili: Andromaca, Ecuba, Ifigenia, Medea –, tra cui ci sono anche due praetextae [= tragedie latine di argomento romano]. Come tragediografo era ricco di pathos e curava l'analisi psicologica. Di lui abbiamo anche qualche frammento di due opere tra il filosofico e il religioso (Epicharmus, Heuhemerus) e di un poemetto dedicato alla gastronomia: Hedyphagetica. I settanta versi rimastici delle sue Saturae gli garantiscono il primato temporale della composizione satirica, anche se non il titolo di vero fondatore del genere: infatti le satire di Ennio hanno ancora una tematica e uno stile molto fluidi.
Morì nel 169 a. C.

mercoledì 5 luglio 2023

AVVISO AI NAVIGANTI

Chi è interessato può consultare la pagina "Viva gli scacchi!", in cui ho aggiunto un nuovo articolo (= il terzo). 

lunedì 3 luglio 2023

Oggi è il compleanno...

... di Franz Kafka (Praga, 3 luglio 1883), uno dei più grandi scrittori del XX secolo. Tre romanzi inquietanti (America, Il processo, Il castello), una raccolta di racconti fantastici, Le lettere a Milena, I diari: ce n'è abbastanza per soddisfare tutti i gusti. Sono contento di condividere il mio compleanno con uno scrittore geniale come lui.  

domenica 25 giugno 2023

Un modesto eulogio di Giovenale

No, non è stato un errore di ortografia, ho scritto proprio eulogio: dal verbo greco εὐλογέω [= euloghèo, lodare, esaltare].

Il valore della poesia di Giovenale non è stato ancora adeguatamente riconosciuto da coloro che si occupano professionalmente di Letteratura latina, o almeno non da tutti nella stessa maniera. Me ne sono chiesto il perché.

Ritengo che le risposte possano essere molteplici.

Cominciamo col dire che tuttora sopravvive un concetto retorico di “romanità”, intesa come esaltazione preconcetta di un trionfale imperialismo e come missione civilizzatrice, rintracciabile – per esempio – in alcuni passi di Virgilio e di Orazio i due massimi poeti dell'età augustea e di tutta la latinità. In tempi ben diversi, nel V secolo d. C., gli stessi valori sono stati poi magnificati, ma con una cocente carica di nostalgia, da Rutilio Namaziano, che assisteva con sgomento alla disgregazione dell'Impero romano sotto i colpi convergenti delle invasioni barbariche e della nuova concezione della vita e del destino umano introdotta dal Cristianesimo.

Giovenale, invece, rimpiange il passato glorioso, ma solo per contrapporlo come sferzante rimprovero alla dilagante corruzione e perversione dei discendenti degeneri degli antichi eroi, che avevano reso grande Roma. Davanti ai suoi occhi delusi non si presenta alcuna possibilità di riscatto, né presente né futuro, tanto meno affidato a eventuali imprese militari, considerando che la XVI satira attacca senza mezzi termini i vantaggi e i privilegi di cui godevano i soldati e particolarmente la milizia pretoriana, divenuta sotto l'imperatore Adriano un vero e proprio corpo d'élite.

Un'altra motivazione potrebbe essere il comprensibile disagio procurato ai più dalle incrollabili convinzioni del “malpensante” Giovenale sugli immigrati, sulle donne e sugli omosessuali, in evidente contrasto con le teorie sostenute oggi dal pensiero “politicamente corretto”, a cui molto spesso devono uniformarsi – anche obtorto collo – tutti coloro che ambiscono a riconoscimenti dalla cultura ufficiale o alla concessione di finanziamenti per le loro attività di ricercatori.

Inoltre alcuni possono essere disturbati dall'innegabile sfoggio di artifici retorici del poeta aquinate, che a volte – non lo nego – possono dare l'impressione di una palla al piede, ma nei momenti più ispirati della sua poesia, che sono davvero molti, si rivelano un elemento determinante, per conferire brillantezza ed efficacia espressiva a tante sue riflessioni e a singole locuzioni diventate proverbiali.

Nella valutazione obiettiva delle satire di Giovenale fa da ostacolo, infine, il secolare confronto con quelle oraziane, presentate dalla maggioranza degli studiosi come il modello insuperabile della satira latina: bonarie, sorridenti, ironiche e spesso autoironiche, rivolte a una ristretta cerchia di amici dai gusti raffinati, ma in conclusione fondamentalmente innocue, perché trascurano volutamente il lato drammatico dell'esistenza. Proprio per questo motivo ritengo improponibile e fuorviante il confronto tra le satire di Orazio e quelle di Giovenale, essendo convinto che la comune qualifica di satire non sia sufficiente a giustificare la loro appartenenza al medesimo genere letterario. Per quanto l'aquinate spesso tenga presente la lezione del venosino, tra l'ispirazione dell'uno e quella dell'altro non c'è niente in comune: sono due tipi di poesia diversi, sebbene definiti entrambi come satira.

C'è però da considerare che l'incomprensione di molti cattedratici, spesso fuorviati da un eccessivo ed astratto furor philologicus, è largamente compensata dal favore riscosso da Giovenale in ogni tempo presso gli autentici uomini di cultura. Basti pensare all'ammirazione incondizionata di un gigante della letteratura come Victor Hugo, che ha inserito il satirico aquinate nella ristretta categoria degli hommes océans (= uomini oceano) alla pari di Isaia, Eschilo, Dante, Shakespeare e Michelangelo: non so se mi spiego... 

giovedì 1 giugno 2023

Omofollia

Negli ultimi giorni qualcuno con una dichiarazione inopportuna, anche se – o proprio perché – dettata dal dominante e prevaricatore pensiero unico, ha intonato una geremiade sulla piaga insopportabile di alcune fobie, riguardanti però una minima percentuale di persone, a cui, quando è necessario, va tutta la solidarietà, ma che non possono pretendere di monopolizzare con i loro problemi personali l'attenzione di un'intera società per tutte le ore di tutti i giorni di tutti gli anni. Oltretutto le vere piaghe insanabili sono ben altre, e non riguardano i personalissimi gusti che si esplicano in camera da letto, su cui – giustamente – nessuno ha il diritto di sindacare, ma le esigenze primarie della vita, anzi della sopravvivenza: la difficoltà di trovare un lavoro dignitoso e remunerato decentemente, il problema dell'alloggio, due problemi che, uniti, sono l'ostacolo maggiore che impedisce a un uomo e a una donna di poter formare una famiglia, e poi la malasanità, che si è ben messa in mostra negli ultimi anni, il degrado irrecuperabile in cui è caduta la scuola, che ha trasformato la sua fondamentale funzione formativa in un'indegna funzione informativa, sostanziata dalle stupide e squallide teorie suggerite dalle mode del momento, la follia bellicista che fa sprecare diabolicamente nella pervicace ricerca della morte ingenti risorse, che potrebbero risolvere almeno in parte non pochi dei problemi vitali suaccennati, lo sfruttamento dei bambini, non soltanto a proposito del lavoro minorile ma anche della pedofilia, del loro indegno traffico, dell'espianto dei loro organi, e chi più ne ha, più ne metta.

C'è da aggiungere che questi personaggi, che vorrebbero fare la morale agli altri, pontificando e atteggiandosi a grandi saggi, ignorano pure il significato delle parole che usano con tanta superficiale sicumera. Per esempio, tutti i nomi composti con il suffisso -fobia, che in greco significa paura: agorafobia, claustrofobia, acrofobia, aracnofobia etc., equivalgono a paura dello spazio aperto, di un luogo ristretto, dell'altezza, dei ragni e, quindi, sono un disturbo della personalità, che nessuno si è mai sognato di definire un crimine, ma un'oggettiva limitazione nel comportamento di chi ne è soggetto. Pertanto – e veniamo al punto – la parola omofobia, formata da due parole greche: omoios (= uguale) e fobia (= paura), equivarrebbe semplicemente a: paura dell'uguale ed è un erroneo e inammissibile stravolgimento linguistico e logico farle acquistare l'attuale e vituperato significato di: odio per coloro che fanno l'amore con uno(a) dello stesso sesso.

D'altra parte, se il pensiero dominante, cioè non quello dei più, ma di chi ha voce in capitolo in quanto detentore del potere (economico, finanziario, militare, politico, religioso), impone certi valori folli e inaccettabili, come quelli in gran voga oggi, forse dovremmo cominciare ad avere paura dei nostri simili, che li partoriscono, e a sentirci un po' omofobi... ma questa volta a stretto rigore di termini. 

mercoledì 19 aprile 2023

Orazio, un amico fidato

Il poeta latino più complicato da comprendere è Orazio, che non a caso è il meno amato dagli studenti. È uno scrittore che si può valutare – ed ammirare – adeguatamente solo con il passare degli anni, quando le esperienze accumulate a poco poco ci permettono di apprezzare il tepore moderato di una brace sepolta sotto la cenere più delle torride vampate emanate da una fiamma viva, e anche a me è capitato di affezionarmi a lui e alla sua poesia in chiaroscuro nel periodo della tarda maturità e della vecchiaia.
È più facile che un ragazzo o una ragazza si interessino all'avventurosa Eneide di Virgilio, si entusiasmino per l'appassionato poema di Lucrezio, seguano con partecipazione le vibranti storie d'amore di Catullo e di Tibullo, ridano alla battute spiritose di Marziale, ma Orazio li lascia indifferenti, perché – e non possiamo dar loro torto – è un autore sfuggente, non di sua volontà, al fine di mimetizzarsi e nascondere i suoi sentimenti, ma per il fatto che è tanto ricco di sfaccettature da non poter essere inquadrato in un rigido e unico schema interpretativo.

Ma anche alcuni critici letterari, o improvvisatisi tali, hanno mostrato una grande difficoltà a valutarlo degnamente e sono caduti banalmente nello stupido errore di imporgli un'unica maschera, da loro scelta arbitrariamente, dandone un'interpretazione asfittica e sterilmente riduttiva, talora addirittura offensiva. Si pensi, per esempio, alle critiche acide di Vittorio Alfieri, alla freddezza di Ugo Foscolo, alle insolenze gratuite di Huysmans, che in A rebours lo definisce esasperante bamboccione e vecchio pagliaccio. Tanto peggio per loro: non si può piacere a tutti, tanto più se, anche a dispetto dell'età che dovrebbe suggerire saggezza e moderazione, si conserva una sensibilità così esasperata, da sconfinare nell'autoesaltazione nevrotica. Però sbaglia pure chi ammira smodatamente la classicità di Orazio, riducendola a una gelida perfezione equilibrata e armonica, da contemplare in adorazione. La grandezza della poesia oraziana, al di là della raffinata eleganza formale, sta nel suo germogliare dalla vita vissuta... e sofferta. La saggezza di Orazio nasce dall'esperienza, non è qualcosa di libresco e di imparaticcio, appreso sui sacri testi dei filosofi, e per capirlo non serve un grande sforzo interpretativo, perché ce lo dice lui stesso (Epistole I, 1, vv. 14 – 15):


nullius addictus iurare in uerba magistri,

quo me cumque rapit tempestas, deferor hospes.

non m'impegno a seguire ciecamente

l'insegnamento di nessun maestro,

ma dovunque mi spinga la tempesta,

chiedo ospitalità.


Basterebbe leggere – e capire – questi due soli versi per mettere fine una buona volta a tutta l'annosa (secolare?) e inconcludente controversia se Orazio sia stato più epicureo che stoico e fino a che punto. Eppure c'è ancora chi lo strumentalizza come bandiera di un personale e anacronistico epicureismo, oltretutto malcompreso e quasi mai basato sulla conoscenza diretta dei testi greci e latini in lingua originale. La lettura ragionata della IV epistola del I libro sarà sufficiente – spero – a chiarire tutte le idee confuse a riguardo. Al testo latino aggiungerò la mia traduzione ritmica in terza rima, già pubblicata nei miei due libri dedicati ad Orazio:


Albi, nostrorum sermonum candide iudex,
quid nunc te dicam facere in regione Pedana?
Scribere quod Cassi Parmensis opuscula uincat,
an tacitum siluas inter reptare salubris,
curantem quicquid dignum sapiente bonoque est?
Non tu corpus eras sine pectore; di tibi formam,
di tibi diuitias dederunt artemque fruendi.
Quid uoueat dulci nutricula maius alumno,
qui sapere et fari possit quae sentiat, et cui
gratia, fama, ualetudo contingat abunde,
et mundus uictus non deficiente crumina?
Inter spem curamque, timores inter et iras
omnem crede diem tibi diluxisse supremum;
grata superueniet quae non sperabitur hora.
Me pinguem et nitidum bene curata cute uises,
cum ridere uoles, Epicuri de grege porcum.

Delle satire mie giudice schietto,

Albio, che fai laggiù rinchiuso a Pedo?

Componi poesie più del libretto

di quel Cassio parmense belle – credo –

o nei boschi aromatici un po' mesto

mentre passeggi, meditar ti vedo

ciò che è degno di un uomo saggio e onesto?

Nel tuo corpo era un'anima. Gli dei

bellezza e un patrimonio non modesto

ti diedero e a goderne abile sei.

Di più che può augurare la nutrice

al dolce bimbo allattato da lei?

Abbia giudizio, voce ammaliatrice,

salute, gloria, stima dei potenti

e di vita un tenor che non disdice.”

Mentre angosciato sei dai sentimenti

della speranza e del timore vani,

stima ogni giorno, che ti si presenti,

come se fosse l'ultimo: il domani,

quando è inatteso, giunge meno scuro.

Grasso, lucente, animo e corpo sani,

mi troverai, da ogni difetto puro,

se un giorno vorrai farti due risate:

un vero porcellino di Epicuro.


Con ogni probabilità il destinatario della poesia doveva essere il poeta elegiaco Albio Tibullo, che in un momento di depressione, forse dovuta o a una delusione amorosa o a un presentimento dell'imminente morte prematura (morirà a 35 anni), si era rifugiato a meditare in una piccola località laziale. Il tono affettuoso e fraternamente consolatorio – da fratello maggiore – risulta chiaro fin dall'inizio, quando Orazio mostra di apprezzare il giudizio lusinghiero che l'amico Albio aveva pronunciato sulle sue Satire e scherzosamente avanza l'ipotesi maliziosa, ma inverosimile, data l'improponibilità di un eventuale confronto, che Tibullo si stia impegnando a superare le poesiole di un autore di secondo piano.

Tra i tanti complimenti rivolti all'amico il più bello e il meno epicureo è: non tu corpus eras sine pectore (= tu non eri un corpo senza un'anima). Infatti un autentico seguace di Epicuro, ritenendo l'anima materiale come il corpo, in quanto anch'essa costituita da un'aggregazione di atomi pur se più sottili e, quindi, destinata a disgregarsi con quello alla morte fisica, non poteva mettere in contrapposizione anima e corpo, evidenziandone la natura distinta e, di conseguenza, rivolgendo un indiretto complimento all'amico per la sua spiritualità. Quanto al consiglio di considerare ogni giorno come l'ultimo, in modo che giunga più gradita ogni ora futura inattesa, è un invito a concentrarsi concretamente sul presente – come il carpe diem – senza proiettare astrattamente la propria vita in un ipotetico futuro: un suggerimento che non appartiene alla sola dottrina epicurea ma all'universale saggezza perenne, al di là delle singole scuole di pensiero.

Infine l'autoidentificazione con il porcellino del gregge di Epicuro, che molti per insipienza o malafede, hanno voluto prendere sul serio, non è una dichiarazione di fede epicurea, ma solo l'ultimo tentativo di strappare un mezzo sorriso all'amico malinconico, presentandosi come la caricatura di se stesso.

giovedì 6 aprile 2023

Una lezioncina di Giovenale

Sono molti, ormai, a proclamare sconsolatamente che l'umanità contemporanea ha iniziato una corsa incosciente ma volontaria verso l'autodistruzione, in primo luogo morale. Questo è testimoniato da prove inoppugnabili: la messa in discussione di tutti i princìpi etici, che per millenni sono stati il caposaldo della civiltà; il voluto smantellamento della scuola, che, da fornitrice di educazione intellettuale e morale si è trasformata in una misera sfornatrice di (pseudo)competenze; la disgregazione della famiglia, con il ridimensionamento caricaturale del ruolo del matrimonio; la legittimazione di ogni voglia, che deve essere assolutamente soddisfatta come un sacrosanto diritto; lo spaventoso crollo di ogni rispetto per la vita, dalla nascita alla sua cessazione; l'abominevole lavaggio del cervello a cui sono sottoposti i ragazzi e i bambini, a cui si vogliono istillare dei dubbi sulla loro identità; per non parlare del ridicolo tentativo di snaturare il linguaggio, con il subdolo scopo di modificare il modo di pensare... Quelli appena esposti sono solo alcuni effetti della cancel culture attualmente in voga, che è molto più preciso definire necrocultura (= cultura della morte), il cui fine ultimo è la cancellazione dell'essere umano e la sua trasformazione in un transumano, un essere umano digitalizzato, che sarà molto più somigliante a un robot, a cui, dopo aver sottratto l'idea di Dio, sarà sottratta anche la coscienza.

Pensando a tutto questo cumulo di immondizie, mi è venuta in mente la frase proverbiale: Quos Deus perdere vult, prius dementat (= quelli che Dio vuol mandare in rovina, prima li fa impazzire). Anche su un simile argomento è utile consultare un classico come il satirico Decimo Giunio Giovenale.

Nella sua decima satira, che segna ufficialmente il passaggio dall'iniziale poetica dell'indignatio a un'altra basata sulla ricerca e la valorizzazione dell'interiorità, egli critica aspramente la vanità dei desideri umani, profondamente convinto che gli uomini non conoscano quali siano i veri beni da augurarsi e che quasi sempre finiscano per desiderare qualche cosa, che poi si ritorcerà contro di loro:


Evertere domos totas optantibus ipsis
di faciles

Gli dei con la massima facilità hanno mandato in rovina intere casate, se erano gli stessi interessati a chiederlo nelle loro preghiere

(X, 7 – 8)

Quindi è molto più conveniente lasciare agli dei la scelta di ciò che vorranno concederci:


Pro iucundis aptissima quaeque dabunt di.
Carior est illis homo quam sibi.

Invece delle cose piacevoli gli dei ci daranno quelle più adatte. L'uomo è più caro a loro che a se stesso.

(X, 349 – 350)


Ma se l'uomo ha messo da parte Dio e ha preso il suo posto?

Allora sì che sono guai... e ne stiamo vedendo le conseguenze. 

lunedì 13 marzo 2023

"O natura, o natura": Lucrezio e Giovenale a confronto

Una delle cose più tragicomiche con cui dobbiamo fare i conti nella società contemporanea è il tentativo maldestro e grottesco – mi si perdoni il gioco di parole – di snaturare la natura. Si ha l'impressione – ma ormai sta diventando una vera certezza – che gli autoproclamatisi padroni del mondo (alludo alle luride oligarchie finanziarie, che gestiscono i fondi di tutte le attività mondiali, dalla pseudosanità al traffico di armi, dalla pseudoecologia all'immigrazione clandestina, dal rigido controllo dei mass-media alla gestione delle cliniche miliardarie per i cambiamenti di sesso) arriccino il naso davanti alla natura, sostenendo che – ohibò! – chiunque l'abbia creata doveva essere un emerito pasticcione e, quindi, è loro preciso compito apportare le dovute correzioni, insomma modificarla a loro piacimento, fino a violentarla. Di questo vanno blaterando gli squilibrati membri del WEF (= World Economic Forum di Davos) nelle loro farneticazioni sulla ripugnante favola del transumanesimo, a questa pretesa va ricondotta la visionaria, e quindi inattuabile, agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile, questo è il fine ultimo dei vaneggiamenti della mai abbastanza deprecata Unione Europea, che nel suo folle tentativo di rinnegare le proprie radici greco-latino-cristiane attraverso la cancel culture, pretende di sostituire ai valori del passato tutto quanto di più immondo e di più disumano – cioè di più contrario alla luminosa humanitas dei nostri padri antichi – stia venendo a galla dalla fetida palude dei conclamati, ma assai discutibili, diritti.

È sorprendente fino all'incoerenza che a sottolineare le presunte manchevolezze della natura siano proprio i materialisti, che, escludendo a priori dal loro orizzonte intellettuale e morale qualunque istanza soprannaturale, dovrebbero invece venerarla e sopravvalutarla. Ma anche riguardo a questo argomento è assai istruttivo il riferimento alla cultura classica.

Tito Lucrezio Caro in uno dei passi più potentemente ispirati, e meno epicurei, del suo splendido poema (De rerum natura, V, 195 – 234) pronuncia contro la natura un'appassionata requisitoria, accusandola di una gelida indifferenza nei confronti degli uomini, dovuta all'imperizia, che la rende incapace di provvedere al benessere del genere umano:

Quod si iam rerum ignorem primordia quae sint,
hoc tamen ex ipsis caeli rationibus ausim
confirmare aliisque ex rebus reddere multis,
nequaquam nobis divinitus esse paratam
naturam rerum: tanta stat praedita culpa.

Del resto, anche se io ignorassi quali siano gli elementi costitutivi delle cose, dalle stesse caratteristiche del clima oserei affermare e sostenere sulla base di molti altri motivi che in nessun caso la natura è stata forgiata per noi da un intervento divino: tanto grandi sono i difetti che essa presenta” (V, 195 – 199).

Quindi con tono accorato e risentito passa in rassegna i vari modi, in cui la natura si dimostra inadeguata nei riguardi dell'uomo, trasformandosi in una sua persecutrice e aguzzina. È un implacabile climax ascendente, che culmina con l'immagine sconsolata del neonato nudo e bisognoso di tutto, gettato sulla spiagge della vita, come un naufrago scaraventato sulla riva del mare dalle onde tempestose:


Tum porro puer, ut saevis proiectus ab undis
navita, nudus humi iacet infans indigus omni
vitali auxilio, cum primum in luminis oras
nixibus ex alvo matris natura profudit,
vagituque locum lugubri complet, ut aequumst
cui tantum in vita restet transire malorum.

“Ecco poi il bimbo, come il marinaio gettato sulla riva dalle onde impetuose, giace nudo a terra, incapace di parlare, bisognoso di ogni aiuto per sopravvivere, non appena la natura lo ha spinto fuori a fatica dal ventre materno nelle regioni della luce, e riempie il luogo di lugubri vagiti, come è giusto per uno a cui nella vita restino da soffrire tanti mali” (V, 222 – 227).

Infine, a conclusione di questo brano, Lucrezio presenta l'imbarazzante confronto con gli altri animali, sia domestici sia feroci, che, appena nati, non hanno bisogno di sonaglioli, né di un linguaggio carezzevole, né di vestiti diversi secondo le stagioni,

denique non armis opus est, non moenibus altis,
qui sua tutentur, quando omnibus omnia large
tellus ipsa parit naturaque daedala rerum.

“infine a loro non servono armi né alte mura, con cui proteggere le loro cose, dato che la stessa terra e la natura, artefice di ogni cosa, procura in abbondanza tutto a tutti” (V, 232 – 234).

Gli esponenti del moderno Esistenzialismo non avrebbero potuto esprimere la loro (poco originale) teoria del “naufragio” in un modo più drammaticamente significativo. Tutt'altro discorso a proposito di Decimo Giunio Giovenale.

Nella sua seconda e più riflessiva fase poetica, contraddistinta da profonde e amare meditazioni sulla vita, il satirico aquinate espone le sue convinzioni nei riguardi della divinitas e dell'humanitas. È la satira X che fa da spartiacque tra le due poetiche giovenaliane, nella prima parte (vv. 1 – 53), in cui presenta il tema generale (= la vanità dei desideri umani) e l'impostazione della nuova poetica, ossia le opposte reazioni del pianto di Eraclito e del riso di Democrito di fronte alle umane follie, ma soprattutto nel finale (vv. 346 – 366), in cui spiega in che modo egli concepisca le divinità, che cosa gli uomini possano aspettarsi da loro e come debbano indirizzare la propria vita. Ecco il brano in questione, in cui l'innegabile sfoggio oratorio è impreziosito e potenziato da un'autentica ispirazione:

Nil ergo optabunt homines? si consilium vis,
permittes ipsis expendere numinibus quid
conveniat nobis rebusque sit utile nostris;
nam pro iucundis aptissima quaeque dabunt di.
Carior est illis homo quam sibi. Nos animorum
inpulsu et caeca magnaque cupidine ducti
coniugium petimus partumque uxoris, at illis
notum qui pueri qualisque futura sit uxor.
Ut tamen et poscas aliquid voveasque sacellis
exta et candiduli divina tomacula porci,
orandum est ut sit mens sana in corpore sano.
Fortem posce animum mortis terrore carentem,
qui spatium vitae extremum inter munera ponat
naturae, qui ferre queat quoscumque labores,
nesciat irasci, cupiat nihil et potiores
Herculis aerumnas credat saevosque labores
et venere et cenis et pluma Sardanapalli.
Monstro quod ipse tibi possis dare; semita certe
tranquillae per virtutem patet unica vitae.
Nullum numen habes, si sit prudentia: nos te,
nos facimus, Fortuna, deam caeloque locamus.

“Dunque gli uomini non potranno desiderare nulla? Se vuoi un consiglio, lascia che siano gli stessi dei a valutare che cosa convenga a noi e sia utile ai nostri affari: infatti gli dei al posto di quelle piacevoli ci daranno tutte le cose più adatte. L'uomo è più caro a loro che a se stesso. Tuttavia, affinché tu possa avere qualche cosa da chiedere nelle tue preghiere e possa offrire sugli altari le viscere e le salsicce di un candido maialino, devi chiedere agli dei che ti concedano una mente sana in un corpo sano. Chiedi un animo forte, che non abbia paura della morte, che consideri la lunghezza della vita come l'ultima cosa a cui ambire, che sappia sopportare qualunque fatica, che non sappia adirarsi, che non desideri nulla e che ritenga le sventure e le terribili fatiche di Ercole preferibili ai piaceri d'amore, della gola e alle mollezze di Sardanapalo. Ti mostro quello che puoi procurarti da solo; certamente l'unico sentiero di una vita tranquilla passa attraverso la virtù. O Fortuna, se noi siamo saggi, tu non hai alcun potere su di noi: siamo noi, siamo noi che ti facciamo dea e ti collochiamo in cielo”.

Ma è nella satira XIV che troviamo l'esplicita – pur se non intenzionale – confutazione dell'accusa rivolta da Lucrezio alla natura:

numquam aliud natura, aliud sapientia dicit
“è impossibile che la natura e la saggezza dicano due cose diverse”
(Satira XIV, 321)

palese e netto riconoscimento di quanto dobbiamo ritenere saggia la natura. Ma Giovenale va ben oltre. Nei versi 131 – 158 della satira XV c'è un lungo e commosso elogio della natura, madre benigna degli uomini, che sfocia nell'apprezzamento dell'azione benefica dell'unico creatore del mondo – mundi... communis conditor –, locuzione che richiama alla mente l'aeterne rerum conditor dell'inno di S. Ambrogio:

Mollissima corda
humano generi dare se natura fatetur,
quae lacrimas dedit. haec nostri pars optima sensus.
Plorare ergo iubet causam dicentis amici
squaloremque rei, pupillum ad iura vocantem
circumscriptorem, cuius manantia fletu
ora puellares faciunt incerta capilli.
Naturae imperio gemimus, cum funus adultae
virginis occurrit vel terra clauditur infans
et minor igne rogi. Quis enim bonus et face dignus
arcana, qualem Cereris volt esse sacerdos,
ulla aliena sibi credit mala? Separat hoc nos
a grege mutorum, atque ideo venerabile soli
sortiti ingenium divinorumque capaces
atque exercendis pariendisque artibus apti
sensum a caelesti demissum traximus arce,
cuius egent prona et terram spectantia. Mundi
principio indulsit communis conditor illis
tantum animas, nobis animum quoque, mutuus ut nos
adfectus petere auxilium et praestare iuberet,
dispersos trahere in populum, migrare vetusto
de nemore et proavis habitatas linquere silvas,
aedificare domos, laribus coniungere nostris
tectum aliud, tutos vicino limine somnos
ut conlata daret fiducia, protegere armis
lapsum aut ingenti nutantem volnere civem,
communi dare signa tuba, defendier isdem
turribus atque una portarum clave teneri.

“La natura, donandoci le lacrime, rivela di aver dato al genere umano dei cuori molto teneri. Questa è la parte migliore della nostra sensibilità. Essa ci fa compiangere il miserevole aspetto di un amico costretto a difendersi in tribunale, il pupillo che cita in giudizio il tutore che l'ha raggirato, mentre i suoi lunghi capelli da fanciulla ne rendono incerti i lineamenti bagnati di lacrime. È un impulso naturale, che ci spinge al pianto, se c'imbattiamo nel corteo funebre di una ragazza ormai pronta per le nozze o assistiamo alla sepoltura di un bimbo ancora troppo piccolo per le fiamme del rogo. Infatti, quale persona dall'animo buono e degna di portare la fiaccola dei Misteri, come prescrive il sacerdote di Cerere, può credere che i dolori altrui le siano estranei? Questo ci divide dal gregge degli animali muti e perciò, avendo ottenuto in sorte noi soli il venerabile ingegno ed essendo capaci di concepire il divino e adatti ad esercitare e a produrre le arti, abbiamo ricevuto quella sensibilità inviataci dal regno celeste, della quale sono privi gli animali curvi al suolo e che fissano la terra.
All'inizio del mondo il creatore di tutte le cose concesse a loro soltanto la vita ma a noi anche la ragione e i sentimenti, affinché un reciproco affetto ci inducesse a chiedere e a prestare aiuto, a riunire in un popolo quelli che erano dispersi, a migrare dall'antico bosco e a lasciare le foreste abitate dagli antenati, a unire un altro tetto alla nostra abitazione, in modo che la fiducia degli uni negli altri rendesse sicuri i sonni per la vicinanza delle soglie, ci spingesse a proteggere con le armi un cittadino caduto o barcollante per una grave ferita, a dare segnali con la tromba comune, ad essere difesi dalle stesse torri e a stare al riparo delle porte chiuse da una sola chiave.”



giovedì 16 febbraio 2023

Seneca e l'ingratitudine

Il filosofo stoico Lucio Anneo Seneca, tra i tanti libri scritti in diversi generi letterari – consolazioni, trattati filosofici, lettere morali, opere scientifiche, tragedie, un pamphlet satirico contro l'imperatore Claudio – ha composto anche un ponderoso trattato morale in sette libri, intitolato De beneficiis, in cui si sofferma a riflettere sull'ingratitudine umana, per cui egli nutre un profondo disprezzo. Tra le tante osservazioni apprezzabili una mi ha colpito particolarmente (II, 27) per la sua estrema semplicità:


Non patitur aviditas quemquam esse gratum

L'avidità non permette a nessuno di essere riconoscente”.


Ciò significa che, per tutto il tempo in cui il beneficio è in atto, e risultano gratificati i desideri egoistici del beneficato – quelli che Seneca definisce aviditas –, egli mostra a parole la sua gratitudine, che si dilegua in un baleno, quando il beneficio si è concluso.

Inoltre assai profonde e – ahimè! – veritiere sono le considerazioni di Seneca contenute all'inizio del libro III:


Non referre beneficiis gratiam et est turpe et apud omnes habetur, Aebuti Liberalis; ideo de ingratis etiam ingrati queruntur, cum interim hoc omnibus haeret, quod omnibus displicet, adeoque in contrarium itur, ut quosdam habeamus infestissimos non post beneficia tantum sed propter beneficia. Hoc pravitate naturae accidere quibusdam non negaverim, pluribus, quia memoriam tempus interpositum subducit... Multa sunt genera ingratorum, ut furum, ut homicidarum, quorum una culpa est, ceterum in partibus varietas magna; ingratus <est,> qui beneficium accepisse se negat, quod accepit, ingratus est, qui dissimulat, ingratus, qui non reddit, ingratissimus omnium, qui oblitus est.

È vergognoso, e tutti lo considerano tale, il non mostrare riconoscenza, quando si è ricevuto un beneficio, o Ebuzio Liberale; perciò anche gli ingrati si lamentano degli ingrati, mentre questo vizio, che dispiace a tutti, resta attaccato a tutti, e si arriva fino a una tale assurdità, che certi ci diventano assai ostili non soltanto dopo i benefici ma proprio a causa dei benefici ricevuti. Non potrei negare che questo accada ad alcuni per la malvagità della loro natura, ma ai più perché il tempo trascorso cancella i loro ricordi... Ci sono parecchi tipi di ingrati, come di ladri e di omicidi, ma la loro colpa è unica, pur in una grande varietà di modi: è ingrato chi nega di aver ricevuto il beneficio, che invece ha ricevuto; è ingrato chi lo minimizza; è ingrato chi non lo ricambia, ma il più ingrato di tutti è chi se ne dimentica.”


Concludo con un mio commento.

Il metodo infallibile per inimicarsi una persona è di farle dei benefici. Finché essa seguiterà a goderne, userà parole dolci che trasudano stima, riconoscenza e affetto. Ma quando il beneficio ricevuto si sarà esaurito, dopo aver completato il suo effetto vantaggioso, l'orgoglio di chi è stato beneficato, fino ad allora rimasto assopito perché sovrastato dall'opportunismo e dal godimento dell'utile personale, tornerà in primo piano e metterà in luce l'indole reale del soggetto in questione. Non potendo sopportare il peso intollerabile della gratitudine, il beneficato troncherà villanamente i rapporti, con l'illusione che, nascondendo la testa sotto la sabbia, il mondo circostante non solo sparisca alla vista, ma cessi addirittura di esistere.

Questo comportamento, riprovevole nelle persone cosiddette mature (la riconoscenza piace a Dio e agli uomini), è ancora più avvilente se lo si riscontra in un giovane, che, essendo la sua età ancora malleabile e plasmabile, molto spesso viene condizionato da insegnamenti e consigli sbagliati di genitori, parenti e amici, che ne distorcono la sua originaria e reale natura. A simili giovani non si possono che rivolgere tanti e calorosi auguri di buona fortuna, di cui hanno un sacrosanto bisogno, perché, dato il loro carattere, rivelatosi – non sempre per colpa loro – villano e indisponente, sarà molto difficile che nel cammino della vita possano intrattenere duraturi e soddisfacenti rapporti interpersonali.

mercoledì 1 febbraio 2023

Omaggio a Fedro

 

Di Fedro è incerta la forma precisa del nome latino, dato che nei manoscritti la sua opera è intitolata così: Phaedri Augusti liberti Fabulae Aesopiae, cioè “Favole esopiane di Fedro liberto di Augusto”, tenendo presente che Phaedri può essere genitivo sia di Phaedrus che di Phaeder. Nacque in Tracia o in Macedonia tra il 20 e il 15 a. C.: due affermazioni, contenute nel prologo del suo III libro di favole, potrebbero giustificare l'una o l'altra patria. Portato a Roma come schiavo in giovane età e poi affrancato da Augusto, rimase nel palazzo imperiale da liberto. Sotto il principato di Tiberio, il prefetto del pretorio Seiano si sentì offeso da alcune sue favole, in cui colse allusioni malevole alla sua persona, e gli intentò un processo da cui il poeta uscì condannato (non sappiamo a quale pena). Comunque, seguitò a scrivere e morì probabilmente sotto Claudio intorno al 50 d. C. Di lui ci sono giunti cinque libri incompleti di Fabulae in versi (senari giambici), a cui vanno aggiunte le 32 favole scoperte nel XV secolo dall'umanista Niccolò Perotti e denominate per questo motivo Appendix Perottina. Fedro si ispira alle favole esopiche, piene di una bonaria saggezza popolare, ma presenta una visione della vita molto più amara e disincantata, espressione degli ideali e delle convinzioni della classe subalterna – gli schiavi e i liberti – nella capitale dell'Impero. I personaggi delle favole di Fedro sono in larga maggioranza animali, umanizzati dall'autore, e da lui innalzati a simboli viventi di qualche qualità, positiva o negativa: l'asinello = la laboriosità paziente ma talora la stupidità, la pecora = la timida sottomissione, la volpe = l'astuzia, il lupo = l'ingordigia, il leone = la superbia e la prepotenza, etc. Nelle considerazioni morali, che precedono o seguono le narrazioni, risuona frequente l'invito alla sopportazione dei propri mali, dato che ogni ribellione è inutile. Caratteristica delle sue poesie è la brevitas, che non si sofferma su particolari descrittivi, ma conduce la vicenda alla sua conclusione con efficace linearità, favorita anche dalla lingua semplice e dalla forma abbastanza curata, pregi che per tanti anni gli hanno permesso di essere considerato l'autore più adatto, su cui dovessero cimentarsi i ragazzi della Scuola Media nelle loro prime traduzioni dal latino.

Fedro ha avuto la sfortuna di non essere preso molto sul serio già fin dall'antichità. Ha cominciato a ignorarlo Seneca, che nella Consolatio ad Polybium, scritta forse nel 43 d. C. durante la sua relegazione in Corsica allo scopo di consolare Polibio, liberto dell'imperatore Claudio, per la morte del fratello, gli suggerisce di distrarsi scrivendo favolette, affermando che il genere favolistico non era mai stato trattato da autori latini, cosa che gli avrebbe concesso il merito dell'originalità. Marziale, invece, lo nomina nell' epigramma 20 del III libro, ma lo definisce inprobus, usando un aggettivo sulla cui interpretazione ancora si discute: io propendo per la traduzione che ne dà Concetto Marchesi, ossia malizioso, forse – suppongo – in riferimento alla scelta di Fedro di voler presentare alcuni comportamenti animaleschi come allusione alle nefandezze di certi potenti suoi contemporanei; nel contempo Marziale avrebbe messo in burla Fedro, che nelle sue Favole usa con predilezione quell'aggettivo.

Voglio proporre la lettura del solo prologo del I libro, perché credo che sia sufficiente per restituire a Fedro la dignità che gli compete:

Aesopus auctor quam materiam repperit,
hanc ego polivi versibus senariis.
Duplex libelli dos est: quod risum movet
et quod prudenti vitam consilio monet.
Calumniari si quis autem voluerit,
quod arbores loquantur, non tantum ferae,
fictis iocari nos meminerit fabulis.

Ho impreziosito in versi senari gli argomenti trovati da Esopo, che è l'inventore del genere. Due sono i meriti del mio libretto: che fa ridere e che propone suggerimenti di saggezza utili alla vita. Se poi qualcuno mi volesse criticare perché faccio parlare gli alberi, si ricordi che noi stiamo scherzando con favole inventate.

Alcune osservazioni.

Dopo il doveroso omaggio a Aesopus auctor, di cui Fedro non si considera un semplice traduttore in versi ma un rielaboratore della stessa materia, il poeta rivendica senza vanterie la propria originalità, consistente nell'avere abbellito il genere favolistico di Esopo trasferendolo in senari giambici. Da sottolineare una cosa spesso sfuggita a molti. Nei versi 3 e 4, contenenti il duplice merito del suo libretto, Fedro nobilita la sua produzione poetica facendo propria la lezione oraziana contenuta nei versi 343 – 344 dell'Epistula ad Pisones:

Omne tulit punctum qui miscuit utile dulci,

lectorem delectando pariterque monendo

Ha meritato il voto migliore chi ha unito l'utile al piacevole,

procurando al lettore divertimento e fornendo insieme saggi consigli”

Il riferimento finale alle piante parlanti è l'ovvia precisazione che alla fantasia tutto è permesso.

sabato 21 gennaio 2023

Orazio lettore di Omero

Ho sempre ritenuto che le Epistole fossero il capolavoro di Orazio, tanto è vero che ad esse ho dedicato il mio primo studio oraziano del 1977, poi riveduto, corretto e trasformato in una pubblicazione: Tanti saluti da Orazio, un ebook composto nel 2014, di cui feci stampare anche un certo numero di copie cartacee per esclusivo uso personale. L'epistola che presento oggi – la seconda del I libro – non fa parte di quelle da me tradotte in versi e contenute nella suddetta opera, ma non per qualche suo demerito, anzi, ritornando a studiarla di recente, ho provato molta soddisfazione e la sua rilettura ha rinsaldato in me il profondo interesse per la spiritualità del poeta venosino. Essa è indirizzata a Lollio Massimo, che lo scrittore chiama confidenzialmente Massimo Lollio, premettendo il cognomen al nomen gentilicium, un giovane studente di retorica a cui dedicherà anche l'epistola XVIII. La sua struttura è semplice, perché si può dividere schematicamente in tre parti.
La prima (vv. 1 – 31) è un'interpretazione allegorica in chiave morale dei poemi omerici, cosa che non ci deve sorprendere, se consideriamo che nell'Epistola ai Pisoni – la rinomata Ars Poetica – Orazio afferma:
Omne tulit punctum qui miscuit utile dulci,
lectorem delectando pariterque monendo
“Ha meritato il voto migliore chi ha unito l'utile al piacevole,
procurando al lettore divertimento e fornendo insieme saggi consigli”
(Ars Poetica, 343 – 344)
Nel caso della poesia omerica il piacevole è rappresentato dalla bella forma, le immagini suggestive, il racconto avventuroso e avvincente, mentre l'utile è l'insegnamento morale che se ne ricava.
La seconda (vv. 32 – 63) è una calorosa esortazione alla saggezza, un brano prescrittivo, in cui il poeta impartisce al ragazzo dei sani precetti morali, mettendolo in guardia contro i peggiori difetti: l'avidità, l'incontentabilità, la brama di piaceri, l'invidia, l'ira. Per forza di cose questa sezione dell'epistola è ricca di apoftegmi diventati famosi. Ne cito alcuni:
Chi comincia, è già a metà dell'opera; abbi il coraggio di essere saggio
Se il vaso non è puro, puoi versarci qualunque cosa: prenderà d'aceto
È nocivo un piacere acquistato con dolore
L'ira è una pazzia di breve durata
La terza parte (vv. 64 – 71) è la conclusione pedagogica, che riprende il celebre tema dominante della prima satira del I libro, ossia quello del giusto mezzo:
est modus in rebus, sunt certi denique fines,
quos ultra citraque nequit consistere rectum
“c'è una misura nelle cose, ci sono insomma dei confini ben precisi,
al di qua e al di là dei quali non può consistere ciò che è giusto.
(Satire I, 1, vv. 106 – 107)
Buona lettura!
Orazio, Epistole, I, 2
Caro Massimo Lollio, mentre tu a Roma lo declamavi, io a Preneste mi sono riletto il cantore della guerra di Troia, che spiega in maniera più chiara e più convincente di Crisippo e di Crantore che cosa sia il bene, che cosa il male, che cosa l'utile e il suo contrario. Ascolta per quale motivo me ne sia convinto, a meno che non ti tenga occupato qualche altro impegno. Il racconto mitico, in cui si narra che la Grecia fu logorata da una lunga guerra con i barbari, ci presenta la passionalità sfrenata dei re stolti e dei popoli. Antenore ritiene giusto eliminare la causa della guerra; ma Paride? Afferma che nessuno può costringerlo a regnare al sicuro e a vivere tranquillo. Nestore si dà da fare per sanare i contrasti tra il Pelide e l'Atride; l'uno è bruciato dall'amore, ma entrambi sono infiammati parimenti dall'ira. Qualunque delirio agiti i loro re, lo scontano gli Achei. All'interno e all'esterno delle mura di Troia gli uomini sono traviati da ribellioni, inganni, delitti, da passioni sregolate e ira. Infine come utile esempio di ciò che possano la virtù e la saggezza ci viene proposto Ulisse, che, artefice della caduta di Troia, conobbe – saggio – le città e i costumi di popoli diversi e, mentre organizzava il ritorno per sé e per i suoi compagni, dovette sopportare tante difficoltà per l'ampia distesa del mare, senza essere sommerso dalla tempesta delle sventure. Conosci i canti delle Sirene e le bevande di Circe; e se stolto e voglioso le avesse bevute con i suoi compagni, diventato ripugnante e abbrutito, sarebbe caduto in balìa di quella meretrice, sarebbe vissuto come un cane immondo o una scrofa amica del fango. Noi siamo una folla anonima, nati per riempirci la pancia, siamo i pretendenti di Penelope e i bellimbusti di Alcinoo, la gioventù indaffarata a lisciarsi la pelle più del dovuto, a cui piaceva dormire fino a mezzogiorno e portarsi appresso l'angoscia finché durava il suono della cetra. [v. 31]
Per sgozzare un uomo i delinquenti si alzano nel cuore della notte; e tu non ti sveglierai, per salvare te stesso? Eppure, se non vorrai farlo da sano, dovrai correre da idropico; e se prima dell'alba non ti farai portare un libro con una lucerna, se non rivolgerai l'animo agli studi e alle attività onorevoli, non riuscirai a dormire e sarai tormentato dall'invidia e dall'amore. Infatti, perché ti affretti a togliere il granello di polvere che disturba il tuo occhio, ma se qualche affanno ti macera l'animo, rinvii la cura al prossimo anno? Chi comincia, è già a metà dell'opera; abbi il coraggio di essere saggio, comincia. Chi rimanda l'ora di vivere rettamente, fa come il campagnolo, che aspetta che il fiume scorra via; ma quello scorre e scorrerà senza posa per tutto il tempo. Si cerca la ricchezza e una moglie benestante per mettere al mondo dei figli, e si dissodano con l'aratro le foreste incolte; chi si accontenta di ciò che gli è toccato in sorte, non desideri niente di più. Non la casa e la terra, non un mucchio di denaro e d'oro hanno mai tolto la febbre dal corpo ammalato del loro padrone, né le angosce dall'animo; bisogna che il proprietario stia in buona salute, se progetta di godere tutti i beni che ha ammassato. A chi desidera o teme, la casa e le sostanze sono utili così come i quadri al cisposo, i pannicelli caldi alla gotta, le cetre alle orecchie doloranti per la sporcizia che vi si è accumulata. Se il vaso non è puro, puoi versarci qualunque cosa: prenderà d'aceto. Disprezza i piaceri: è nocivo un piacere acquistato con dolore. Chi è avido, manca sempre di qualche cosa: poni un limite preciso ai tuoi desideri. L'invidioso dimagrisce osservando l'abbondanza altrui: i tiranni siciliani non escogitarono un tormento più doloroso dell'invidia. Chi non è in grado di controllare l'ira, vorrà che non sia stato fatto ciò a cui l'hanno spinto il risentimento e la collera, mentre smania di sfogare con la violenza l'odio insoddisfatto. L'ira è una pazzia di breve durata: sii tu a governare il tuo animo, che, se non obbedisce, comanda; tu tienilo a freno con le briglie o, meglio, con una catena. [v.63]
Quando il cavallo è docile, perché in tenera età, l'istruttore gli insegna a seguire la strada su cui lo guiderà il cavaliere; il cane da caccia, dal momento in cui ha latrato nel cortile contro una pelle di cervo, ancora cucciolo cerca le prede nei boschi; ora, o ragazzo, accogli nell'animo puro gli insegnamenti, ora offriti ai migliori; l'anfora nuova conserverà a lungo l'odore del liquido che l'ha riempita la prima volta. Ma se indugi o mi sorpassi di corsa, né aspetto uno lento, né rincorro chi mi precede.

martedì 3 gennaio 2023

Oggi è il compleanno...

... di Marco Tullio Cicerone (3 gennaio 106 a. C.) che, insieme a Virgilio, è il nome più rappresentativo e universalmente noto della cultura e della lingua latina. Vissuto in tempi assai agitati - primo e secondo triumvirato, varie guerre civili - fu anche un martire politico, fatto trucidare da Marco Antonio in quanto fiero oppositore delle sue mire tiranniche. Oratore insuperabile, che ci ha lasciato numerose splendide orazioni, insigne divulgatore del pensiero filosofico greco, vivace testimone - nel suo epistolario -  della vita quotidiana e della cronaca politica, le sue opere rappresentano un monumento esemplare dello stile prosastico rodiese, intermedio tra quello asciutto dell'atticismo (Cesare) e quello più asimmetrico e fantasioso dell'asianesimo (Sallustio, Seneca). Croce (molto) e delizia (pochino) degli studenti, resta comunque un punto di riferimento costante - un faro - per chiunque nutra un profondo interesse per la latinità.    

Post in evidenza

Festìna lente

Questo motto latino, tuttora molto usato, significa: affréttati lentamente, e pare che fosse pronunciato spesso dall'imperatore Augusto,...