giovedì 31 dicembre 2020

Anni e mal-anni

Alla fine di un'annata
che non si è ben comportata,
quali sono le parole
che ciascuno sentir vuole?
Oggi i tempi sono duri...
ma facciamoci gli auguri:
"che ritorni nudo il viso,
per godere di un sorriso;
che si stringano le mani
con fiducia nel domani;
che si accorci la distanza
sia al negozio che in vacanza.
Via la pena, via l'affanno!"
Tanti auguri di Buon Anno!
 

venerdì 25 dicembre 2020

Tanti auguri di...

Buon Natale! 

a tutti i miei lettori, sia a quelli fedelissimi - i miei lettori fissi - sia a quelli di passaggio. A tutti giunga il mio auspicio di una felice conclusione del funesto 2020.

Il vostro

Ollecram

                                                        

                                          

lunedì 21 dicembre 2020

Il Natale è sempre più vicino...

La poesia più bella dedicata al Natale è, a mio parere, La Notte Santa, scritta da Guido Gozzano, un intellettuale un po' snob, ondeggiante tra lo scetticismo dissacratore, indossato quasi a bella posta come una corazza contro l'insidia dei sentimenti, e l'aspirazione a una visione mistica della vita, di cui è innegabile che provasse un'acuta nostalgia. E' una poesia semplice, diretta, immediata, che parla al cuore, senza il filtro deviante e raggelante del ragionamento sofistico:

La Notte Santa

- Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
Presso quell'osteria potremo riposare,
ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.
Il campanile scocca
lentamente le sei.
- Avete un po' di posto, o voi del Caval Grigio?
Un po' di posto per me e per Giuseppe?
- Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe
Il campanile scocca
lentamente le sette.
- Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
Mia moglie più non regge ed io son così rotto!
- Tutto l'albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
Tentate al Cervo Bianco, quell'osteria più sotto.
Il campanile scocca
lentamente le otto.
- O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
avete per dormire? Non ci mandate altrove!
- S'attende la cometa. Tutto l'albergo ho pieno
d'astronomi e di dotti, qui giunti d'ogni dove.
Il campanile scocca
lentamente le nove.
- Ostessa dei Tre Merli, pietà d'una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!
- Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi persiani, egizi, greci...
Il campanile scocca
lentamente le dieci.
- Oste di Cesarea... - Un vecchio falegname?
Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
L'albergo è tutto pieno di cavalieri e dame
non amo la miscela dell'alta e bassa gente.
Il campanile scocca
le undici lentamente.
 La neve! - Ecco una stalla! Avrà posto per due?
Che freddo! Siamo a sosta. Ma quanta neve, quanta!
Un po' ci scalderanno quell'asino e quel bue...
Maria già trascolora, divinamente affranta...
Il campanile scocca
La Mezzanotte Santa.
È nato!
Alleluja! Alleluja!
È nato il Sovrano Bambino.
La notte, che già fu sì buia,
risplende d'un astro divino.
Orsù, cornamuse, più gaje
suonate; squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!
Non sete, non molli tappeti,
ma, come nei libri hanno detto
da quattro mill'anni i Profeti,
un poco di paglia ha per letto.
Per quattro mill'anni s'attese
quest'ora su tutte le ore.
È nato! È nato il Signore!
È nato nel nostro paese!
Risplende d'un astro divino
La notte che già fu sì buja.
È nato il Sovrano Bambino.
È nato!
Alleluja! Alleluja!



domenica 20 dicembre 2020

Il Natale si avvicina...

Tra pochi giorni sarà Natale, ma quest'anno - purtroppo - non si riesce a percepire quell'atmosfera particolare, che ha sempre caratterizzato la magia del Natale. Per questo mi è motivo di conforto ripensare al beato tempo della mia infanzia, quando, ancora bambino ingenuo, mi stupivo e mi emozionavo per il clima festoso e misterioso, che avvolgeva i giorni di questo periodo incantato. Che suggestione provocava in me il suono delle zampogne! Una delle poesie, che io sento più evocativa, più natalizia in tutti i sensi, è quella di Giovanni Pascoli, intitolata Le ciaramelle (= Le zampogne), che nel corso degli anni più volte mi è stata fatta leggere e imparare a memoria a scuola, ma mi è rimasta scolpita nel cuore. Eccola:

Udii tra il sonno le ciaramelle,
ho udito un suono di ninne nanne.
Ci sono in cielo tutte le stelle,
ci sono i lumi nelle capanne.
Sono venute dai monti oscuri
le ciaramelle senza dir niente;
hanno destata ne' suoi tuguri
tutta la buona povera gente.
Ognuno è sorto dal suo giaciglio;
accende il lume sotto la trave;
sanno quei lumi d'ombra e sbadiglio,
di cauti passi, di voce grave.
Le pie lucerne brillano intorno,
là nella casa, qua su la siepe:
sembra la terra, prima di giorno,
un piccoletto grande presepe.
Nel cielo azzurro tutte le stelle
paion restare come in attesa;
ed ecco alzare le ciaramelle
il loro dolce suono di chiesa;
suono di chiesa, suono di chiostro,
suono di casa, suono di culla,
suono di mamma, suono del nostro
dolce e passato pianger di nulla.
O ciaramelle degli anni primi,
d'avanti il giorno, d'avanti il vero,
or che le stelle son là sublimi,
consce del nostro breve mistero;
che non ancora si pensa al pane,
che non ancora s'accende il fuoco;
prima del grido delle campane
fateci dunque piangere un poco.
Non più di nulla, sì di qualcosa,
di tante cose! Ma il cuor lo vuole,
quel pianto grande che poi riposa,
quel gran dolore che poi non duole;
sopra le nuove pene sue vere
vuol quei singulti senza ragione:
sul suo martòro, sul suo piacere,
vuol quelle antiche lagrime buone!

  

martedì 15 dicembre 2020

Non vitae sed scholae discimus (ahimè!)

Permettetemi di citare me stesso e di ricollegarmi a un mio post scritto alcuni mesi fa: il 25 giugno, per la precisione. Citavo una frase del filosofo Seneca che, polemicamente, affermava il contrario di quanto effettivamente pensasse, rammaricandosi che si studiasse per la scuola e non per la vita. Chi, come me, ha una notevole esperienza di scuola, sa bene che è molto difficile trovare dei ragazzi o delle ragazze, che vedano nello studio qualche cosa di diverso da un mezzo per ottenere un bel voto, con la conseguenza di farsi apprezzare dai professori e risultare vincitori - o, almeno, non perdenti - nella quotidiana gara di vanità con i compagni. Un tempo questa concezione distorta, gretta e utilitaristica dello studio poteva anche avere una sua giustificazione, perché l'inesistenza di quella ridicola oscenità, che risponde al nome di interrogazione programmata, costringeva i ragazzi a un serio studio quotidiano, dato che si poteva essere interrogati ogni giorno (senza preavviso) e anche più volte di seguito, come capitò una volta pure a me in III liceo, che fui interrogato in italiano tre volte nella stessa settimana, ottenendo 7-, 7 e 7 e mezzo, mentre la mia professoressa di volta in volta pensava di trovarmi impreparato, credendo che io mi illudessi di non poter essere interrogato, essendo stato appena interrogato prima una volta e poi ben due volte in pochi giorni. Un tempo, dunque, non ci si poteva cullare sugli allori di un buon voto, confidando nel fatto che il professore potesse riinterrogarci una seconda volta solo dopo aver sentito tutti gli altri. Questo per chiarire che, bene o male, bisognava portare avanti uno studio continuo e coerente, che alla fine dava i suoi frutti e lasciava il segno, perché il dopo presupponeva in continuazione un prima e alla fine si possedeva una visione d'insieme, che permetteva una conoscenza sintetica dell'argomento, basata però sullo studio analitico condotto momento per momento. 
Adesso, invece, è uno sfacelo: lezione per lezione il professore spiega, ma nessuno studia, perché tutti aspettano che si fissino le date per l'interrogazione di ciascuno. Si incomincia a studiare una settimana prima, se tutto va bene, perché a breve distanza potrebbe esserci un'altra interrogazione o uno o più compiti in classe e allora manca la terra sotto i piedi e subentra l'ansia, l'agitazione e l'angoscia. Nei pochi giorni disponibili (rimasti a disposizione per la scelta sbagliatissima dello studente) si è costretti alla classica ammazzata, studiando giorno e notte per prendere un bel voto. Però è ovvio che ciò che si è studiato in pochi giorni, con una notevole tensione intellettuale, sarà dimenticato e svanirà dalla mente, quando quella tensione si allenterà: entro quindici o venti giorni non si ricorderà più niente o, tutt'al più, resterà una grande confusione nella testa. Purtroppo è così e non ci sono eccezioni. Mi risulta di persona, avendo chiesto dopo uno o due mesi degli argomenti già studiati (!) e su cui, oltretutto, si era preso un bel voto: buio assoluto. Se poi gli studenti o le studentesse in questione devono affrontare un esame di maturità, in cui, anche se in modo limitato e non su tutte le materie, bisogna saper rispondere sul programma di tutto l'anno, le cose si complicano, perché è necessaria anche un'ulteriore maxi-ammazzata, non su pochi argomenti ma su tutto il programma.
Oggi studiare per la scuola significa questo, una cosa perfettamente in linea con il carrierismo e la frenesia della vita moderna, con il materialismo e il consumismo. E' uno studio (seguitiamo a chiamarlo così?) che si può definire: USA E GETTA.
Che cosa significhi studiare per la vita lo vedremo un'altra volta.            

venerdì 11 dicembre 2020

Ha da passa' 'a nuttata

Questa famosa battuta contenuta nella commedia "Napoli milionaria" di Eduardo De Filippo ben si adatta ai nostri tempi, funestati dal Covid-19. E' un invito alla pazienza, nella consapevolezza della fondamentale e ineliminabile temporalità in cui nasce, si sviluppa e si esaurisce ogni realtà umana e terrena e, quindi, anche questo maledetto virus. Pazienza: altro non si può fare, al di là delle poco affidabili promesse, spacciate per certezze, da parte dei politici e dell'imbarazzante e contraddittoria sicumera ostentata dai cosiddetti scienziati. In natura tutto è sottomesso al tempo, al dì succede la notte e a ogni notte succede una nuova alba, come indica appunto il titolo di un mio romanzo - scusate se mi cito - composto nel 2017: "E infine spuntò l'alba". 
Ma per restare nel tema specifico di questo blog, voglio avvalorare la battuta del titolo con l'autorevole testimonianza di Quinto Orazio Flacco (Odi, II, 10, vv. 17-18):

Non, si male nunc, et olim / sic erit
Se ora le cose vanno male, non sarà così anche in futuro

Aspettiamo pazientemente e intanto prendiamo tutte le precauzioni possibili.


mercoledì 9 dicembre 2020

Maiora premunt

Questa espressione latina, "urgono cose più importanti", è stata scritta da Marco Anneo Lucano, nipote di Lucio Anneo Seneca, che, però, l'ha usata con un significato ben diverso da quello che comunemente gli attribuiamo. Nel suo poema epico, intitolato La guerra civile o anche La Farsaglia, Lucano racconta la guerra civile tra Cesare e Pompeo, desiderosi entrambi di impadronirsi del supremo potere. Essa è preceduta da vari prodigi, che fanno presagire gli orrori a cui essa darà origine (Libro I, vv. 673 - 674):

   Terruerant satis haec pauidam praesagia plebem,
sed maiora premunt
(Questi presagi avevano atterrito abbastanza il popolo timoroso,
ma se ne aggiungono altri ancora maggiori).

Noi, invece, citiamo questa frase con un altro scopo, per spiegare, cioè, che trascuriamo certe cose, per dedicarci ad altre che ci appaiono di maggior valore. Si tratta dello stesso senso contenuto nell'anonima sentenza medievale:

De minimis non curat praetor
(Il pretore non si cura di cose di poca importanza)

Tra le due frasi preferisco la prima, sia perché è una citazione tratta da un autore classico, sia perché ho l'impressione che la seconda non possa essere pronunciata se non con aria supponente da qualcuno che abbia la puzza sotto il naso. E mi fermo qui, anche perché maiora premunt...


venerdì 4 dicembre 2020

Oggi parliamo... del poliptoto

Tranquilli! Non è una parolaccia e neppure il nome di una malattia. Si tratta di una figura retorica che consiste nell'usare più volte la stessa parola declinandola o coniugandola in modi diversi. Molto usata nel greco e nel latino, due lingue che, avendo i cosiddetti casi, possono presentare lo stesso nome, pronome o aggettivo con tante desinenze diverse, non è rara nemmeno nella poesia italiana. Eccone quattro esempi significativi:

Cred'io ch'ei credette ch'io credesse
(Dante, Inferno, XIII, 25)

io credea e credo, e creder credo il vero,
ch'amassi et ami me con cor sincero
(Ariosto, Orlando Furioso, IX, 23, 7-8)

Ahi! tanto amò la non amante amata
(Tasso, Gerusalemme Liberata, II, 28, 8)

Ed eccone due latini:

si canimus silvas, silvae sint consule dignae
(se cantiamo le selve, le selve siano degne del console)
(Virgilio, Ecloghe, IV, 3)

Scire tuum nihil est, nisi te scire hoc sciat alter?
(il tuo sapere non è nulla, se un altro non sa che tu sai?)
(Persio, Satire, I, 27)

Tutto ciò produce un innegabile potenziamento degli effetti espressivi ed è - a mio parere - assai carino, anche se molti pensano che sia qualcosa di ridicolo e ormai passato di moda. Già, come il disinteresse e le buone maniere...  







  

mercoledì 25 novembre 2020

Nostalgia

Il 25 novembre di dieci anni fa cessava di vivere mia madre, alla rispettabile età di 93 anni. Molti penseranno in cuor loro: be' è vissuta abbastanza, non si può davvero lamentare... Come se la vita fosse una vivanda prelibata ma pesante, da mangiare con cautela (= quanto basta) per non fare indigestione. Il fatto è che quando entrano in campo gli affetti, non ha senso dosare con il bilancino i minuti, le ore, i giorni, i mesi e gli anni che dovrebbero spettare (o vorremmo che spettassero) alla persona a cui, in un modo o nell'altro, siamo legati sentimentalmente: il nostro desiderio è unicamente che seguiti a stare con noi il più a lungo possibile, anche a dispetto delle spietate e immodificabili leggi del tempo.
Era stata ricoverata all'ospedale in conseguenza di un infarto, da cui si era pressoché ristabilita: entro pochi giorni sarebbe stata dimessa. Poi un pomeriggio la telefonata inattesa, che m'informava di un improvviso aggravamento. Al mio arrivo all'ospedale lei non c'era più, se n'era andata in punta di piedi, senza disturbare nessuno, come era sempre vissuta, pronta a mettersi al servizio di tutti i suoi cari, ma cercando di non pesare sugli altri. Al suo posto aveva lasciato nel letto un corpo insensibile e inerte, che aveva le sue fattezze e i suoi lineamenti, ma non riusciva a percepire l'angoscia che mi avvolgeva. 
Non so se sono stato un buon figlio: solo lei potrebbe dirmelo, ma sono convinto che in ogni caso mi direbbe di sì, almeno per non deludermi.
Per ricordarla degnamente, prenderò in prestito due poesie di due grandi poeti italiani: Giuseppe Ungaretti e Giovanni Pascoli.

La madre

E il cuore quando d’un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d’ombra,
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa
sarai una statua davanti all’Eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m’avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d’avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.

Sogno

Per un attimo fui nel mio villaggio,
nella mia casa. Nulla era mutato.
Stanco tornavo, come da un vïaggio;
stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato.

Sentivo una gran gioia, una gran pena;
una dolcezza ed un’angoscia, muta.
"Mamma?"  "È là che ti scalda un po’ di cena."
Povera mamma! e lei, non l’ho veduta.





     

venerdì 20 novembre 2020

Maxima debetur puero reverentia

 Al fanciullo è dovuto il massimo rispetto.
Questa frase di Giovenale (Satire, XIV, 47) mi è tornata in mente proprio oggi, leggendo sul televideo le solite e retoriche frasi di circostanza, con cui i nostri beneamati e strapagati governanti celebravano la ricorrenza odierna, 20 n0vembre, ossia la Giornata internazionale del bambino e dell'adolescente. Ormai ci siamo abituati che quasi ogni giorno dell'anno è dedicato al festeggiamento di una particolare categoria di persone: la festa della mamma, la festa del papà, la festa del nonno, la festa del migrante, la festa dei professori, la festa della donna, la festa del bambino... e chi più ne ha, più ne metta. La Convenzione internazionale per la tutela dei bambini, approvata il 20 novembre 1989 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite, consta di 54 articoli, la maggioranza dei quali completamente disattesi in tutti gli stati firmatari della succitata Convenzione e alcuni addirittura grotteschi, come quello che vieta a uno Stato di arruolare  come soldati gli adolescenti di età inferiore ai 15 anni (art. 38 comma 3); altri, invece, in aperto contrasto con altrettanti diritti riconosciuti come sacrosanti per altre categorie di persone. Basti pensare al fatto che viene prevista e garantita una tutela legale al bambino sia prima che dopo la nascita (dal Preambolo della Convenzione ONU 1989: Tenendo presente che, come indicato nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo il fanciullo, a causa della sua mancanza di maturità fisica e intellettuale, necessita di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita), cosa che ovviamente stride terribilmente con il principio di autodeterminazione della donna, a cui è riconosciuto il diritto di interrompere la gravidanza. Tutto ciò non è molto chiaro, né giustificabile da un punto di vista puramente logico.
Giovenale con una sola semplice frase ha detto tutto ciò che c'era da dire, chiamando le cose con il loro nome, senza la riprovevole abitudine dell'odierno e untuoso buonismo, che ha la pretesa di dare sempre ragione a tutti. 

giovedì 12 novembre 2020

Omaggio postumo

Tre giorni fa, precisamente alle tre di notte del 9 novembre, è stato il trentanovesimo anniversario della morte di mio padre. Questa occasione triste, ma che comunque è parte integrante della vita, mi ha suggerito di ricercare tra i miei amati classici un degno modo di commemorarlo. Senza cercare troppo, mi sono rivolto a due grandissimi, che non potevano non venirmi in mente di primo acchito: Orazio e Dante.
Orazio non si è mai vergognato di essere figlio di un ex schiavo, un cosiddetto liberto, anzi più volte nei suoi versi se ne è vantato ed ha espresso tutto il suo affetto e la sua riconoscenza a chi aveva dedicato la sua vita, le sue risorse e il suo amore per offrirgli la possibilità di crearsi un futuro di eccellenza. 
Scelgo il seguente brano solo perché non è eccessivamente lungo (Satire, I, 4, 103 - 120):

Se io dirò qualche cosa troppo schiettamente, se per caso la dirò con uno scherzo eccessivo, tu mi scuserai e mi concederai questo diritto: mi ci ha abituato il mio ottimo padre, in modo che, indicandomeli con esempi, io fuggissi tutti i vizi. Quando mi esortava a vivere in modo parsimonioso e frugale, contento di ciò che mi avesse procurato lui stesso: “Non vedi – mi diceva – come viva male il figlio di Albio e come sia povero Baio? È un grande insegnamento affinché nessuno voglia dilapidare il patrimonio paterno.” Quando voleva distogliermi dalla turpe relazione con una meretrice: “Cerca di essere diverso da Scetano.” Affinché non facessi la corte alle adultere, pur avendo la possibilità di godere dei loro favori, diceva: “Non è bella la fama di Trebonio colto sul fatto. Un filosofo ti spiegherà le motivazioni su che cosa sia meglio da evitare e da cercare; per me è sufficiente, se posso conservare il costume tramandato dagli antenati e mantenere intatta la tua vita e la tua fama, finché ti serve una guida; non appena l'età avrà irrobustito le tue membra e il tuo animo, nuoterai senza salvagente.” 

Quanto a Dante, i versi che citerò non riguardano il padre biologico, ma il suo maestro di studi, che lo amava come un figlio e che agli occhi di Dante aveva acquistato i contorni di un padre spirituale, come dovrebbe essere ogni vero insegnante. Si tratta di Brunetto Latini, letterato, notaio e uomo politico fiorentino, che l'onestà intellettuale e morale del poeta non poté fare a meno di collocare all'Inferno, data la sua fama di sodomita. Lui e i suoi compagni di pena corrono su un sabbione arroventato sotto una pioggia di fuoco. Dante (ovviamente il Dante personaggio, non il Dante autore) si meraviglia di trovarlo lì, macchiato di un tale peccato, ma questo non gli impedisce di trattenersi a lungo a colloquio con lui e di rivolgergli riconoscenti e affettuose parole di elogio (Inferno, XV, 79 - 87):

"Se fosse tutto pieno il mio dimando",
rispuos’io lui, "voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando;


ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora


m’insegnavate come l’uom s’etterna:
e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo

convien che ne la mia lingua si scerna.

Non voglio aggiungere altro, mi basta questo omaggio letterario, a cui affido il compito di sostituire tutte quelle parole che in certi casi avrei potuto, ma non ho mai detto a mio padre.








  

martedì 3 novembre 2020

Dirò brevemente la mia...

Nell'attesa che qualche ritardatario voglia aggiungere le sue risposte (questo sondaggio non ha un orario o una data di scadenza), vorrei aggiungere sinteticamente alcune mie osservazioni.
Dopo tanti anni di frequentazione di testi poetici prima come studente, poi come insegnante, infine come appassionato studioso sono giunto alla conclusione - opinabile alla pari di tutti i pensieri umani - che il valore autentico di una vera poesia risulti dalla compresenza di tre elementi: logica, sentimento e fantasia rintracciabili in dosi variabili caso per caso. Questo significa che una poesia con la P maiuscola deve essere in grado di convincermi, soddisfacendo più o meno la mia facoltà raziocinante; di suggestionarmi, suscitando in me emozioni e/o commozione; di illudermi, trasportandomi in una dimensione fantastica sradicata dalla realtà. Ribadisco che ciascuna di queste caratteristiche non può non essere presente, pur se in maggiore o minore misura. Ecco perché ritengo che gli aggettivi da me scelti - convincente, suggestivo, illusorio - si adattino a tutte e tre le Odi di Orazio, quale più, quale meno.  Passiamole in rassegna.
A) Penso che l'eccezionale poesia del "carpe diem" possieda una minima carica suggestiva, rivolta com'è a fronteggiare l'ansia del futuro, nel tentativo di neutralizzarlo, concentrando la vita umana nel presente. Quindi la giudico molto convincente, ma... che cosa significa ridurre la propria vita al semplice presente? Francamente non lo so, dato che il presente è indefinibile e inafferrabile: appena tentiamo di fissarlo, è già passato. Il testo latino è irraggiungibile da qualunque tentativo di traduzione: dum loquimur, fugerit invida / aetas (= mentre parliamo, il tempo invidioso sarà fuggito), in cui il futuro anteriore fugerit (= sarà fuggito) è di gran lunga più espressivo di un banale presente, perché non indica contemporaneità tra l'azione di parlare e la fuga del tempo, ma è come se questa precedesse addirittura le nostre parole, mentre l'enjambement tra invida ed aetas prolunga dolorosamente la sensazione di un tempo, che ci è sfuggito di mano e che non potremo mai più vivere. Inoltre, nessuna vita può prescindere da una pur minima progettualità, che, in quanto tale, è rivolta verso quel futuro, che vorremmo esorcizzare o annullare. Quindi, questa poesia, che da un lato mi è apparsa convincente, da un altro mi si rivela anche illusoria.
B) La poesia della contrapposizione tra il tempo ciclico delle stagioni e quello rettilineo della singola vita umana presenta, a mio parere, un minimo aspetto di illusorietà, poiché mi appare come la constatazione di un dato di fatto riscontrabile nell'esistenza umana, perciò convincente. C'è da aggiungere, però, che le immagini del succedersi delle stagioni e quelle della morte creano un reciproco contrasto atto a favorire emozioni e commozione, quindi è a suo modo un testo anche suggestivo.
C) La poesia della gloria poetica, che rende immortali (non omnis moriar = non morirò del tutto), ha una potente carica suggestiva - sarebbe bello sopravvivere alla morte anche solo nel ricordo costante di chi ci ha apprezzato - ma a volte penso più realisticamente che questa sia soltanto una grande illusione e che il tempo tenda implacabilmente ad annebbiare e a far sbiadire a poco a poco ogni sentimento di affetto, di riconoscenza, di stima, trasformando il ricordo, di chi non sia stato una celebrità come Orazio, in una fredda immagine sfocata legata a un nudo nome. Perciò, ondeggiando questa Ode tra suggestione e illusione, la reputo poco convincente.

giovedì 29 ottobre 2020

Mantenete la calma e il coraggio...

è in arrivo già un altro sondaggio! 


La poesia di Orazio è stata per tanti secoli e tuttora rimane un modello esemplare ed insuperabile per la poesia occidentale. Interpretata in maniere diverse nei diversi periodi culturali, non ha mai cessato di proporsi all'attenzione dei lettori più consapevoli e sensibili. In questo mio secondo sondaggio voglio proporvi tre sue Odi, che affrontano, ciascuna in modo differente, i temi del tempo e della morte. Leggetele con attenzione, badando ai concetti espressi da Orazio, non alla mia più o meno efficace traduzione in versi: alla fine vi formulerò i quesiti a cui rispondere.

La prima (I, 11), che chiameremo A, quella famosa del carpe diem (= cogli il giorno, ossia realizzati nel presente), è un suggerimento rivolto alla giovane Leuconoe (= mente bianca, ossia anima candida, ingenua), affinché non si lasci angustiare dal futuro e si concentri nella realtà presente:


(A)

Non chiedere – saperlo non è dato –
che fine a me, che fine a te gli dei
abbiano riservato;
dai calcoli caldei,
Leuconoe, non cercar la verità.
Quanto è meglio accettare
la sorte che sarà!
Sia che molti l'Eterno
a noi conceda o sia l'ultimo inverno
questo, che infrange sugli scogli il mare,
sii saggia, filtra il vino
e la lunga speranza
adegua al breve tempo che ti avanza.
Mentre indugia la voce,
invidioso il tempo se ne va:
cogli l'ora veloce,
non confidare in quella che verrà.


La seconda (IV, 7), che chiameremo B, presenta il contrasto stridente – fonte di angoscia – tra il tempo circolare della natura, che periodicamente ripresenta le stesse situazioni (basti pensare al ciclico ripetersi delle stagioni), e quello rettilineo dell'uomo, che nasce ----> vive ----> muore una volta per tutte:


(B)

La neve si è sciolta, ritorna già l'erba nei campi,
sui rami le foglie;
la terra si muta ed il fiume non più vorticoso
lambisce le rive;
con le sorelle e le Ninfe ardisce la Grazia
guidare le danze.
La fuga del tempo ti avverte di non concepire
speranze immortali:
lo Zefiro mitiga il freddo, subentra l'estate
che è pronta a morire,
appena l'autunno dà i frutti, ma subito il pigro
inverno ritorna.
Le rapide lune riparano i danni del clima:
ma appena caduti
là dove il pio Enea e Tullo ed Anco, non siamo
che polvere ed ombra.
Sai se gli dei del cielo vogliano aggiungere all'oggi
ancora un domani?
Ciò che avrai usato per te, sarà sottratto alle mani
dell'avido erede.
Quando sarai morto e Minosse una saggia sentenza
ti avrà pronunciato,
stirpe, facondia, pietà – Torquato – non ti faranno
ritornare in vita;
infatti dal buio infernale non libera Diana
il casto Ippolito,
né Teseo è in grado di sciogliere al suo Piritòo
i ceppi del Lete.


La terza (III, 30), che chiameremo C, affronta il problema della morte, proponendone una soluzione affidata al ruolo salvifico della poesia, che può garantire l'immortalità all'oggetto della poesia e al suo stesso autore:


(C)

Ho innalzato un monumento più del bronzo duraturo,
più elevato della mole di piramidi regale,
non la pioggia, non il vento lo faranno mai cadere
né la fuga senza posa di anni e secoli infiniti.
Morirò ma non del tutto, in gran parte eviterò
Libitina: nella gloria sempre nuovo crescerò
presso i posteri, finché salirà sul Campidoglio
il pontefice, seguìto dalla tacita vestale.
Nato dove vorticoso scorre l'Aufido scrosciante,
e il re Dauno governò contadini scarsi d'acqua,
si dirà che fui potente, nato da umile famiglia,
e per primo il carme eolio fui capace di adattare
ai latini ritmi. Assumi la superbia a te dovuta
dai tuoi meriti e contenta, o Melpomene, circonda
la mia chioma con l'alloro, caro al dio che Delfi onora.


Il sondaggio consiste nel rispondere ai seguenti quesiti:

tra i testi oraziani A, B, C

quale ritenete più convincente?

Quale più suggestivo?

Quale più illusorio?

Se non vi chiedo troppo, gradirei anche le relative motivazioni.



lunedì 26 ottobre 2020

Nusquam est qui ubique est

Chi è dovunque, non è in nessun luogo 
(Seneca, Lettere a Lucilio, II, 2)

Seneca, filosofo e tragediografo latino, precettore e infine vittima di Nerone, è celebre anche per le sue sentenze rapide, concettose e suggestive. Molte sue frasi sono diventate famose e proverbiali grazie a un personale e inimitabile modo di scrivere, riconducibile al cosiddetto stile asiano, caratterizzato da una ricchezza di immagini, di chiaroscuri, di contrapposizioni e da una spesso esasperata ricerca dell'effetto.
La frase del titolo è una di queste, ma l'autore che cosa intende dire? Le interpretazioni possibili sono due.
La prima, strettamente letterale, implica un significato puramente spaziale e allude alla mania dei viaggi. Chi viaggia di continuo, passando freneticamente da un luogo all'altro, è convinto di avere visitato tante località diverse, ma in realtà non ne ha conosciuto veramente nessuna, perché in nessuna di esse ha trovato qualche cosa di "suo", che lo attraesse e lo trattenesse lì.
La seconda interpretazione, metaforica, è applicabile a tanti ambiti diversi:
a) assaggiare tanti cibi è proprio di uno stomaco inappetente, che non trova soddisfazione in nessuno di essi;
b) passare continuamente da un libro all'altro, da un autore all'altro è proprio di una mente superficiale, che si accontenta di accumulare nozioni su nozioni, idee su idee, senza soffermarsi a fondo su nessuna, per farla veramente sua;
c) circondarsi di tante amicizie o - peggio - di tanti amori è indice di una fondamentale aridità di cuore, che privilegia la quantità a scapito della qualità.
Volendo, l'elenco potrebbe continuare, però mi preme soltanto sottolineare come e quanto possano ancora farci riflettere cinque sole parole di un antico scrittore latino. 
 


mercoledì 21 ottobre 2020

Chi dice donna...

 Nelle letterature latina e greca scorre una sotterranea vena di misoginia, che ora acquista toni aspri e risentiti, ora più sfumati e umoristici. Questo è il caso di una favoletta di Fedro, che assume l'aspetto di un vero e proprio sorridente apologo. Generalmente si crede che le fabulae di questo autore latino - senz'altro di secondo piano - siano ambientate esclusivamente nel mondo degli animali, ma ce n'è anche un discreto numero, in cui vengono presentati personaggi umani, come quella che vi espongo (II, 2):

Sono proprio gli esempi ad insegnarci che gli uomini in un modo o nell'altro sono spogliati dalle donne, le amino o ne siano amati.

Una donna dotata di un certo garbo, teneva stretto a sé un uomo di mezza età, nascondendo i suoi anni con la raffinata eleganza, e una bella giovane aveva conquistato l'animo del medesimo. Entrambe, mentre vogliono apparire sue coetanee, cominciano a strappare a turno i capelli all'uomo. E lui, che pensava che le due donne volessero acconciarlo con cura, all'improvviso diventò calvo; infatti la ragazza aveva strappato completamente i capelli bianchi, la donna anziana quelli neri.

Chi ne ha voglia, si sbizzarrisca a commentarla. 

giovedì 15 ottobre 2020

Omnia quae ventura sunt in incerto iacent: protinus vive!

Questa sentenza – tutte le cose future sono incerte: vivi subito! – è stata scritta dal filosofo Seneca nell'opera intitolata De brevitate vitae (= La brevità della vita), ma non è di lui che voglio parlare oggi, bensì di uno scrittore latino molto meno serio ed austero: Marziale.
Molto spesso di Marco Valerio Marziale si ricordano – o si vanno a cercare espressamente – gli epigrammi più osceni e pruriginosi per il gusto del proibito, ma bisogna riconoscere, purtroppo, che è diventato famoso principalmente per questi. Sto scrivendo un libro (sono arrivato a un buon punto), proprio per ristabilire su di lui un giusto giudizio, mettendo in evidenza i suoi aspetti più lodevoli, come la spiccata sensibilità e la delicatezza dei sentimenti.
Ma talora egli riesce a sorprenderci per la profonda saggezza – paradossale? A volte pure il paradosso ha una sua decisiva forza di convinzione –, che da lui non ci aspetteremmo e che ci costringe a riflettere, come se leggessimo un verso sentenzioso di Orazio o un acuto giudizio di Seneca.
Vi presenterò due suoi epigrammi, che ritengo molto significativi: entrambi contengono considerazioni sul tempo dell'esistenza umana. Il primo (V, 58) è indirizzato a un certo Postumo, un evidente nome parlante, ossia un nome che già di per se stesso delinea il carattere di quel personaggio, tutto proiettato nel futuro:

Postumo, tu ripeti sempre che vivrai domani, domani... Dimmi, Postumo: quando viene questo domani? Quanto è lontano questo domani! Dov'è? O dove bisogna cercarlo? Forse è nascosto presso i Parti e gli Armeni? Ormai questo domani ha gli anni di Priamo o di Nestore. Questo domani – dimmi – a quanto si potrebbe comprare? Vivrai domani? Postumo, è già tardi vivere oggi: il vero saggio, Postumo, è chi è vissuto ieri.

L'affermazione conclusiva si basa sulla ferma convinzione che la vita sia troppo breve. Nel seguente epigramma (VI, 70) il poeta ce ne spiega argutamente il perché:

Caro Marciano, Cotta ha già compiuto – credo – la sua sessantaduesima mietitura e lui non si ricorda di aver sperimentato nemmeno per un sol giorno le noie di un letto caldo. Egli mostra il dito, ma quello osceno, ai [medici] Alconte, Dasio e Simmaco. Ma si conteggino in modo adeguato i nostri anni e si sottragga dalla vita godibile tutto il tempo, che ci hanno portato via le febbri perniciose o la fiacchezza opprimente o i dolori atroci: siamo bambini e sembriamo vecchi. O Marciano, chi pensa che la vita di Priamo e di Nestore sia lunga, s'inganna e si sbaglia di molto. La vita non consiste nell'essere vivi, ma nello stare in buona salute.

C'è da supporre, tuttavia, che la conclusione paradossale dell'epigramma V, 58 – quello indirizzato a Postumo – potrebbe essere una voluta forzatura del poeta, che con essa si sarebbe garantito un finale ad effetto. Infatti, Marziale, rivolgendosi a un certo Giulio, aveva già affrontato il tema dell'irrimediabile fuga del tempo nell'epigramma I, 15, ma prospettando la più sana ed accettabile soluzione oraziana, quella del carpe diem (= cogli il giorno, ossia: realizzati nel presente):

Credimi, non è da saggio dire: “Vivrò”. Vivere domani è troppo tardi: vivi oggi.







 

sabato 10 ottobre 2020

Casus belli

Come sappiamo, questa locuzione latina, diventata di uso comune, significa pretesto per scatenare una guerra, interpretando quest'ultimo termine in modo estensivo: contrasto, lotta, aggressione. La storia politica e militare di tutti i tempi ce ne fornisce tanti e tristi esempi - basti pensare a uno dei più antichi: il ratto di Elena -, ma anche la vita quotidiana e l'esperienza di ciascuno di noi non mancano di presentarci ogni tanto il perfetto esemplare di attaccabrighe, pronto a trovare - o ad inventarsi - qualunque pretesto per offendere ed aggredire, talora non solo verbalmente.
Queste considerazioni mi riportano alla mente la mia infanzia, quando, ancora bambino ingenuo, frequentavo la Scuola Media e cominciavo ad apprendere dalla vita di classe e dai libri i diversi aspetti dell'esistenza, anche quelli più negativi. In questo era di grande ausilio la lettura dei primi classici latini, i cui testi più elementari - sì, ma fino a un certo punto! - ci venivano fatti leggere e tradurre, per rintracciare in essi e approfondire le regole grammaticali e sintattiche della lingua latina, tanto bella quanto complessa.
Il primo testo "serio" che ci fu sottoposto furono le Favole di Fedro, di cui facemmo una vera scorpacciata, cominciando a popolare il nostro mondo immaginario di lupi voraci, timidi agnelli, asini pazienti, cornacchie troppo loquaci, volpi furbette, leoni superbi e violenti ma, a modo loro, generosi. La prima favola della raccolta fu anche la prima che mi capitò di leggere, quella famosissima del lupo e dell'agnello, che, proprio in quanto prima, acquistò allora, e sempre più con il passar del tempo, i contorni della favola per eccellenza, la più familiare e rappresentativa, ma anche la più adatta ad illustrare l'argomento di questo mio post. Rileggiamola.

Un lupo e un agnello, spinti dalla sete, erano giunti allo stesso ruscello; il lupo stava più in alto, l'agnello molto più in basso. Allora quel predone, eccitato da una voracità eccessiva, inventò il pretesto di una lite.
"Perchè - disse - mi hai reso torbida l'acqua che bevo?"
Il lanuto gli rispose timoroso:
"Di grazia, come posso fare quello di cui mi accusi, o lupo? L'acqua scorre da te alle mie sorsate."
Quello, svergognato dalla forza della verità, replicò:
"Sei mesi fa hai parlato male di me."
L'agnello rispose:
"In verità non ero ancora nato."
Quello disse:
"Tuo padre, per Ercole, ha parlato male di me."
E così, dopo averlo afferrato, lo sbranò con un'ingiusta morte.
Questa favola è stata scritta a causa di quegli uomini, che opprimono gli innocenti con motivazioni inventate.

Uno dei tanti (troppi!) casi in cui la ragione della forza ha il sopravvento sulla forza della ragione. D'altronde, che resistenza avrebbe potuto opporre il mite e inoffensivo agnello al lupo feroce e aggressivo? Un altro triste esempio di quanto sia crudele la legge di natura, poco adatta - io ritengo - a suggerire norme e comportamenti corretti e veramente umani.  
   

mercoledì 7 ottobre 2020

L'ultimo amore

Il poeta latino Orazio, tra i più grandi della letteratura mondiale, ha scritto poesie di tanti generi diversi, tra cui anche liriche d'amore. A differenza di tanti suoi colleghi - tra i latini possiamo ricordare Catullo e Properzio, focosi amanti rispettivamente di Lesbia e Cinzia - non ha mai vissuto una passione d'amore tragica e devastante, ma tanti innamoramenti che ondeggiavano tra la sensualità e il garbato gioco intellettuale. Nelle mie periodiche rivisitazioni dei poeti latini a me più cari, tra cui ovviamente c'è anche - vorrei dire: principalmente - Orazio, di recente mi è capitato più volte di leggere e rileggere una sua ode, forse non apprezzata dalla critica come tante altre (c'è solo l'imbarazzo della scelta), ma che io ritengo bellissima. Si tratta dell'ode 11 del IV libro. Che cosa ha di tanto bello?
Niente potrà spiegarlo meglio di una lettura diretta:

Ho un orcio di vino albano, invecchiato da più di nove anni; nell'orto, Fillide, c'è l'apio per intrecciare corone: c'è una grande quantità di edera che, avvolta intorno ai tuoi capelli, ti farà apparire uno splendore; la casa scintilla d'argento, l'altare, cinto di pure verbene, brama di essere spruzzato con il sangue di un agnello immolato. Tutta la servitù è affaccendata; le ancelle vanno correndo qua e là insieme ai giovani schiavi; le fiamme tremolanti dalle loro punte emettono tutt'intorno un fumo grigiastro. 
Tuttavia, affinché tu sappia a quali gioie sei invitata, sappi che devi festeggiare le Idi, giorno che divide a metà il mese di Aprile, dedicato a Venere marina; giorno che per me è giustamente solenne e quasi più sacro del mio compleanno, perché a partire da questo il mio Mecenate conta gli anni che scorrono. 
Il Telefo, che tu desideri, un giovane non della tua condizione sociale, lo ha preso prima di te una ragazza ricca e allegra, e lo tiene legato a sé con una catena a lui gradita. La combustione di Fetonte atterrisce le ambizioni umane e l'alato Pegaso, infastidito dal cavaliere terreno Bellerofonte, fornisce il valido esempio affinché tu segua sempre le cose adatte alla tua condizione ed eviti chi è troppo diverso da te, ritenendo empio concepire speranze al di là di ciò che è lecito. 
Orsù, vieni, ultimo dei miei amori (infatti in seguito non mi accenderò per altre donne), apprendi le melodie, che canterà la tua voce amabile: con il canto saranno attenuate le nere angosce.

Orazio sta organizzando i festeggiamenti per il compleanno del suo protettore ed amico Mecenate: nella casa fervono i preparativi e tutta la servitù è indaffarata. Per questa grande occasione il poeta invita pure Fillide, la giovane di cui è attualmente invaghito. Lei, però, spasima per un ragazzo, Telefo, che appartiene a una classe sociale superiore, a sua volta innamorato di una ragazza ricca e allegra. Orazio, come un fratello maggiore, le consiglia il senso della misura, per non concepire speranze e desideri che vadano al di là della sua condizione. Fillide canta con voce melodiosa e per questo Orazio insiste ad invitarla: il suo dolce canto allevierà le nere angosce. Quelle di lui, che avverte tristemente l'avanzare dell'età - Fillide sarà il suo ultimo amore - e quelle di lei, sofferente per una passione non corrisposta.
Da un inizio vivacemente descrittivo, si passa a due riferimenti mitologici, che dovrebbero ammonire gli uomini a non oltrepassare i propri limiti, quindi a una fase più riflessiva - potremmo dire: più oraziana - e infine si giunge alla conclusione intima e tenera al tempo stesso, in cui si sente vibrare una nota affettuosa per la giovane triste, la cui voce amabile potrà dare sollievo a entrambi.     

 

mercoledì 30 settembre 2020

Al latino non si sfugge

Ai miei cari lettori risulta chiaro - non ne dubito affatto - che ogni volta che scrivo un articolo su questo blog, sono costretto a digitarne il relativo testo sulla tastiera del mio pc, usando il mouse per impartire ad esso certi particolari comandi.
A che mira questo preambolo - vi chiederete - che ha tutta l'apparenza di essere alquanto strano, se non addirittura inconcludente? Mira a indirizzare la vostra attenzione su due parole che, sebbene molto usate in relazione al computer, derivano (ancora una volta) dal nostro caro latino. Digitare - come sappiamo - significa usare le dita per premere i tasti corrispondenti a segni alfabetici, numerici o convenzionali. Ma perché? Perché in latino dito si dice digitus. A sua volta la parola inglese mouse (= topo) è la forma anglicizzata del termine latino mus, che indica appunto il topo: adesso ci sono anche quelli privi di filo, ma è innegabile che la forma di questo strumento e il filo, che lo collega alla tastiera, suggeriscono l'idea del corpo dell'animaletto e del suo lungo e sottile codino. Restando sempre in questo argomento - intendo: il computer -, non posso tralasciare un pur fuggevole accenno al classico codice binario, altra parola che deriva dal latino, dato che bini, binae, bina (tutti gli aggettivi devono essere in grado di esprimere il genere maschile, femminile e neutro, perché potrebbero dover essere concordati con un nome appartenente a uno dei tre generi) è un aggettivo numerale distributivo, che significa due per volta. Insomma nel supertecnologico mondo moderno anche gli strumenti più sofisticati non riescono a fare a meno del caro vecchio latino.    

lunedì 28 settembre 2020

La scuola: croce e delizia

Non tutti sanno che la parola scuola deriva dal greco σχολή ( leggi: scholé), il cui significato originario è: tempo libero, tempo da dedicare alla distrazione o alla lettura, e anche scuola. Mentre in latino "scuola" si indica con la parola "ludus", che vuol dire anche gioco, ma pure palestra, tanto è vero che il "ludimagister" era il maestro della scuola elementare, ma con il termine ludi si indicavano tanto gli spettacoli del circo quanto quelli teatrali. Insomma, penso che apprendere queste notizie non rallegrerà molto gli attuali studenti, che vedono nella scuola un penoso obbligo, e niente che si possa paragonare al tempo libero o al gioco, anche se i meno diligenti e i più maleducati vanno a scuola proprio per divertirsi, disturbando i professori e ostacolando con le loro bravate i compagni, che vorrebbero apprendere qualche cosa.
Negli scrittori latini ci sono gustose rappresentazioni di istantanee scolastiche, interessanti e istruttive. Orazio ci racconta l'esperienza vissuta a Roma da scolaro presso la scuola del grammatico Lucio Orbilio Pupillo, noto semplicemente come Orbilio, un insegnante manesco, definito "plagosus" (= che infligge colpi, che percuote) dal poeta latino. A quanto ci dice Orazio (Epistulae, II, 1, 69-72), Orbilio era un amante della poesia latina arcaica, specialmente di Livio Andronico, i cui versi faceva imparare a memoria ai suoi alunni a colpi di sferza. Questo può spiegare perché Orazio non abbia mai espresso giudizi del tutto positivi sugli antichi poeti latini come Livio, Ennio, Lucilio... Non poteva davvero ricordarli con simpatia.
Giovenale, invece, stava dall'altra parte della barricata, perché è assai probabile che per un certo periodo di tempo abbia insegnato. Nella VII satira, dedicata alla decadenza della cultura, parla anche della scuola e della triste condizione degli insegnanti, che, oltre a dover fronteggiare ogni giorno gli alunni sfaticati e indolenti e vigilare che non compiano sconcezze, devono anche sopportare i loro genitori, che esigono tanto dagli insegnanti, ma pensano che essi pretendano una ricompensa superiore ai loro meriti. Da qui l'amara considerazione del poeta satirico (VII, 157):


"nosse volunt omnes, mercedem solvere nemo"
tutti vogliono imparare, ma nessuno vuole pagarne il prezzo.


Non posso non essere d'accordo con il mio caro Giovenale, anche perché le sue osservazioni andrebbero integrate con la seguente riflessione: in tutti i tempi, ma specialmente oggi, che si è succubi psicologicamente della tecnologia e dello scientismo, si dà tantissima importanza all'informazione (fornire nozioni su nozioni), e poca alla formazione (intellettuale e morale) dei giovani studenti. Non ha senso concepire la scuola come un avviamento al lavoro (= l'aberrazione dell'alternanza scuola/lavoro, che oscilla tra l'aspetto puramente demagogico e quello di sfruttamento del lavoro minorile e, in definitiva, si risolve, in un'insulsa perdita di tempo sottratto allo studio serio), perché il suo scopo è puramente teorico e formativo. Attraverso le pur necessarie nozioni (ineliminabili!) essa deve insegnare a ragionare correttamente nell'ambito di quelle discipline, nelle quali si ha intenzione di esplicare la propria futura attività lavorativa, senza trascurare la formazione del carattere: senso del dovere, spirito di sacrificio, senso di responsabilità. Inoltre lo studio scolastico deve consentire agli studenti di prendere conoscenza e coscienza delle radici culturali, che hanno dato origine al mondo di oggi, per poterlo comprendere e, quando è il caso, sforzarsi di cambiarlo in meglio.
Sì, se ragioniamo così, la scuola può e deve diventare la migliore palestra della gioventù.
  


lunedì 21 settembre 2020

Il fascino dell'ignoto

Lo storico latino Tacito nell'opera intitolata Agricola, composta in onore del suocero, il generale Gneo Giulio Agricola, raccontando la sua spedizione in Britannia, descrive la battaglia finale del Monte Graupio, combattuta e vinta dai Romani nell'83 d. C. contro i ribelli Caledoni (= gli odierni Scozzesi) guidati da Calgaco. Costui, prima della battaglia, mentre arringa i suoi, esortandoli a dimostrare il loro valore, pronuncia una frase, con cui vorrebbe spiegare l'interesse, quasi morboso, che spinge i Romani a conquistare la Britannia, una terra ritenuta per tanti versi misteriosa:

omne ignotum pro magnifico est 
ogni cosa ignota esercita una grande attrattiva

Praticamente si tratta di quello che noi chiamiamo "il fascino dell'ignoto". Ma attenzione: fascino deriva dal latino fascinum, che significa incantesimo, stregoneria, maleficio, oltre ad indicare il membro virile rappresentato con funzione apotropaica. Non è proprio lo stesso concetto a cui noi ci riferiamo, quando davanti a un viso aggraziato o all'aspetto seducente di un bel corpo parliamo di fascino femminile.
Ma, ritornando al fascino dell'ignoto, non posso non essere d'accordo che esso risulti ambivalente, essendo dotato di una duplice faccia: attraente e repellente. Ci attrae il suo lato misterioso ed enigmatico per quella nostra tendenza innata a portare luce e ordine, dove ci pare di scorgere oscurità e disordine. Ma per questo stesso suo aspetto può anche apparirci inquietante e minaccioso, quando ci sembra che contenga o prepari qualche fosca minaccia. Non è appunto questo il motivo per cui gli antichi greci e latini interrogavano gli oracoli degli dei, per apprendere le vicende, che riservava loro il futuro, e noi, che ci riteniamo tanto moderni e spregiudicati, ci troviamo a disagio nel vivere alla giornata, affidandoci alla sorte ignota, ma pretendiamo e ci illudiamo di acquistare sicurezza, programmando la nostra vita (= fare i conti senza l'oste) e cercando di fissare il futuro in formulette rigide e banalizzanti, sia che si tratti di conoscere le previsioni del tempo, sia che si tratti di strappare il velo dal volto del futuro, attraverso gli oroscopi giornalieri o settimanali, la cartomanzia e la chiromanzia?  

giovedì 17 settembre 2020

Un sondaggio... striminzito

 Non so se a qualcuno dei miei lettori possa interessare sul serio che cosa io pensi del sondaggio propostovi e che, per essere sinceri, non ha avuto molto successo (è sempre azzeccata l'espressione: pochi ma buoni, anzi, in questo caso: poche ma buone). Comunque, faccio finta di sentire un coro di incoraggiamenti:
"Su, dicci la tua opinione!"
"Non farci stare in ansia: pensiamo solo a questo"
"Vuoi farci passare un'altra notte in bianco tra ipotesi e supposizioni?"
e... non deluderò le vostre (?) aspettative.
Anche se le due partecipanti mi hanno fornito una sola risposta - ma io ne avevo chieste due in ordine di gradimento - non starò davvero a criticarle, perché meritano un elogio. Io, però, fornirò entrambe le risposte.
Al primo posto metto la numero 1, perché, secondo me, l'ombra, che ciascuno soffre, altro non è che il lato oscuro della nostra personalità, che ci spinge a concepire pensieri e desideri erronei e a compiere azioni sbagliate. Al secondo posto la numero 5, perché tra i tanti moventi che ci sballottano da una parte all'altra, un ruolo importante viene svolto dai caratteri ereditari a cui, volenti o nolenti, anche se in una certa misura (determinata dalla nostra volontà), siamo costretti a sottostare. L'ereditarietà, quando ci porta fuori strada, viene ad essere uno degli aspetti di quell'ombra di cui ho parlato precedentemente e che, per questo, ho collocato al primo posto.

Integrazione del 25 settembre:
Ai due commenti precedenti si è aggiunto anche quello doppio di Diego, il cui apprezzamento ho espresso in una risposta al suo commento.   


 


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Festìna lente

Questo motto latino, tuttora molto usato, significa: affréttati lentamente, e pare che fosse pronunciato spesso dall'imperatore Augusto,...