venerdì 29 maggio 2020

Festìna lente

Questo motto latino, tuttora molto usato, significa: affréttati lentamente, e pare che fosse pronunciato spesso dall'imperatore Augusto, uomo energico ma cauto. Ce lo riferisce il biografo Svetonio, autore delle "Vite dei XII Cesari", che però, se vogliamo essere precisi, cita la frase in greco: σπεῦδε βραδέως (Vita Divi Augusti, 25), la cui traduzione letterale in latino è, appunto, festìna lente. Affrettarsi lentamente è un ossimoro, cioè una figura retorica che consiste nell'accostare due parole dal significato contrastante, ma la sua finalità è evidente: consiste nel consigliare di essere decisi ma non avventati. Il verbo latino festinare è un verbo nello stesso tempo transitivo e intransitivo, che si può tradurre in italiano con affrettarsi e con affrettare, tanto è vero che esiste il participio passato festinatus, a, um equivalente in italiano ad "affrettato", "frettoloso".
Permettetemi una lunga divagazione (oserei dire: un volo pindarico, se non temessi che Pindaro, un po' suscettibile come tutti i Greci, potesse offendersi), suggeritami da una cara reminiscenza di una locuzione di Marziale: festinata umbra (= ombra frettolosa) riferita ad Erotion, una bimba di neppure sei anni rapita prematuramente dalla morte.
Tra gli epigrammi più commoventi di Marziale – in mezzo a tanti osceni ce ne sono anche di questi – spiccano per delicatezza di sentimenti i tre da lui dedicati alla piccola Erotion (parola di derivazione greca con il significato di amoruccio). Si trattava di una bambina morta sei giorni prima di compiere il sesto anno, una schiava nata in casa da due schiavi – la definisce vernula –, ma qualcuno ha avanzato l'ipotesi che potesse essere una figlia naturale del poeta, frutto di una relazione con una schiava. In ogni caso egli si rivela molto affezionato alla bimba e oltremodo sofferente per la sua morte prematura. I teneri appellativi con cui si rivolge a lei nel primo epigramma (V, 34): boccuccia e gioia mia, il timore che la fanciullina si spaventi alla vista delle nere ombre del Tartaro e del mostruoso Cerbero, cane guardiano degli Inferi, il fatto che egli si raccomandi ai propri genitori defunti, perché se ne prendano cura e la facciano giocare, sono tutte manifestazioni che suscitano una commossa ammirazione nei lettori e rivelano la profonda sensibilità di Marziale. Ecco il primo dei tre componimenti:

A te, padre Frontone, a te, madre Flaccilla, affido questa bimba, mia boccuccia e gioia mia, affinché la piccola Erotion non abbia paura delle nere ombre e dei musi mostruosi del cane infernale. Era sul punto di affrontare i freddi del suo sesto inverno, se non fosse vissuta sei giorni di meno. Giochi allegramente tra i suoi patroni tanto vecchi e cinguetti il mio nome con la sua pronuncia ancora indecisa. Non copra le sue ossa una zolla dura e tu, o terra, non esserle pesante: lei non lo fu a te.

A breve distanza dal primo, troviamo il secondo epigramma (V, 37), notevolmente più lungo, contenente anch'esso uno struggente rimpianto della bambina a lui tanto cara. Vi manca, però, la spontaneità dei sentimenti e l'immediatezza espressiva che ci colpiscono in quello appena letto, perché il dolore e la commozione sono filtrati attraverso un'esasperata ricerca di termini di paragone sempre più bizzarri e lambiccati, che rivelano lo sforzo del poeta di mostrarsi originale a tutti i costi, uno sforzo che nasce più dal cervello che dal cuore. Inoltre l'epigramma è volutamente costruito alla ricerca dell'effetto, perché Marziale negli ultimi sette versi introduce abilmente un nuovo argomento che, abbinato all'epicedio, prepara il colpo a sorpresa finale, il classico – e, in questo caso, molto brillante – fulmen in clausula.
Merita, comunque di essere letto, perché, al di là di ogni considerazione critica, rivela fino a che punto lo scrittore fosse affezionato alla piccola Erotion:

La bimba per me più dolce del canto di cigni vecchi, più morbida di un agnello del Galeso tarantino, più graziosa di una conchiglia del lago di Lucrino, a cui non potresti preferire le perle eritree, né l'avorio appena levigato di un elefante indiano, né le prime nevi o un giglio immacolato; i suoi capelli erano più morbidi della lana delle pecore betiche, di quelli annodati dei Germani, più splendenti dell'oro; dalla sua bocca emanava un profumo come dai roseti di Pesto, come dal primo miele dei favi attici, come da un pezzo di ambra appena tolto di mano; paragonàti a lei, il pavone sfigurava, lo scoiattolo appariva sgradevole, la fenice un uccello comune, questa bimba – Erotion – ancora è tiepida nella sua tomba recente, lei che, prima della fine del suo sesto inverno, mi fu sottratta dalla legge amara di un destino assai crudele: il mio amore, la mia gioia, il mio divertimento. Tuttavia il mio Peto mi proibisce di essere triste, e battendosi il petto al pari di me e strappandosi i capelli, dice: “Non ti vergogni di piangere la morte di una schiavetta? Io ho appena sepolto mia moglie, eppure seguito a vivere: era famosa, illustre, nobile, ricca.”
Ci può essere qualche cosa più forte del nostro Peto? Ha ereditato venti milioni, eppure seguita a vivere.

Il terzo epigramma fa parte del decimo libro (X, 61), composto quando Marziale aveva già concepito il proposito di tornare nella sua Bilbilis. Perciò, in procinto di trasferirsi in Spagna, raccomanda al futuro – e ancora sconosciuto – proprietario del suo piccolo podere nei pressi di Nomentum di non dimenticarsi di fare sacrifici annuali ai Mani di Erotion, che è stata sepolta dal poeta proprio in quel terreno:

Qui riposa Erotion, ombra frettolosa, che per colpa del fato morì nel sesto inverno. Chiunque sarai, proprietario dopo di me del mio campicello, porterai ogni anno le giuste offerte ai modesti Mani: così, restando sempre acceso il focolare domestico e sana e salva tutta la tua famiglia, questa pietra nel tuo campo sia la sola su cui piangere.

Festinata umbra, ombra frettolosa... Questa triste e, a suo modo, aggraziata definizione mi fa venire in mente il sospiro di rimpianto, con cui Orazio ricorda l'amata Cìnara, morta prematuramente: Ma i fati concessero a Cìnara brevi anni (Odi, IV, 13, vv. 22 – 23). Pensando alle fugaci apparizioni di Erotion e Cìnara sulla scena della vita, come non richiamare alla memoria le parole, che Giacomo Leopardi rivolge nostalgicamente alla defunta Nerina nelle “Ricordanze”?

… Passasti. Ad altri
il passar per la terra oggi è sortito,
e l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
fu la tua vita.

martedì 26 maggio 2020

Marziale alla ricerca della donna ideale

Il poeta Marziale, originario dell'ispanica Bilbilis (40 - 104), non trovò mai il grande amore della sua vita:

Flacco, mi chiedi quale ragazza vorrei e quale non vorrei? Non la voglio troppo facile né troppo difficile. Mi piace una via di mezzo tra l'una e l'altra: non voglio una che mi tormenti con i suoi rifiuti né una che mi sazi fino alla nausea (Epigrammi, I, 57).

Più o meno è lo stesso concetto ribadito in X, 47, dove, dichiarando il suo ideale di vita all'amico omonimo Giulio Marziale, tra l'altro si augura di poter avere con sé una

compagna di letto allegra e tuttavia pudica.

Però, sembra che una ragazza del genere sia difficile da trovare, perché, a sentire le malelingue, nessuna dice di no... Eppure il poeta ha attraversato tutta la città in lungo e in largo, per verificare questa diceria ed è arrivato a una conclusione sconcertante, un vero fulmen in clausula a riguardo della presunta moralità o immoralità delle giovani romane. È illuminante, a tale proposito, l'epigramma 71 del IV libro:

O Safronio Rufo, è da parecchio tempo che vado chiedendo per tutta la città se qualche ragazza dica di no: nessuna ragazza dice di no. Come se non fosse lecito, come se fosse una vergogna, come se non fosse permesso dire di no, nessuna ragazza dice di no. Dunque, non ce n'è una che sia casta? No, sono mille ad essere caste. E allora, che cosa fa una ragazza casta? Non la dà, tuttavia non dice di no.

Ma se incontrasse una donna ricca, giovane e bella? Sembrerebbe la soluzione ottimale: come potrebbe rifiutarsi di amarla? Sì, un tipo proprio come Fabulla (I, 64). Però lei è troppo vanitosa e non finisce mai di pavoneggiarsi, vantando i propri meriti veri o presunti. No: pensandoci bene, da una come lei è meglio stare alla larga.

Sei bella (lo sappiamo), e giovane (è vero), e ricca (infatti chi lo può negare?). Ma quando ti lodi troppo, o Fabulla, non sei né ricca né bella né giovane.

Finora ho presentato dei tipi di donna che, per quanto siano oggetto di desiderio per le loro qualità materiali (ricchezza, bellezza, gioventù) non soddisfano le esigenze di Marziale sulla base di motivazioni legate ai loro caratteri. Però ci sono anche moltissimi epigrammi in cui le donne sono denigrate o, addirittura derise, per la loro venalità, per difetti fisici o per un abnorme appetito sessuale. Ne dobbiamo dedurre – come tanti hanno fatto – che il nostro poeta sia un inguaribile maschilista e misogino? Non ne sono affatto convinto, perché ritengo che l'analisi approfondita dell'epigramma 12 dell'VIII libro, a cui pochi hanno prestato attenzione – e solo per fraintenderlo –, ribalti completamente i termini della questione. Ne propongo la mia traduzione e poi lo commenterò.

Mi chiedete perché io non voglia sposare una donna ricca? Non voglio essere la moglie di mia moglie. O Prisco, la matrona sia inferiore a suo marito: solo in questo modo si raggiunge la parità tra la donna e l'uomo.

L'interpretazione più banale – e corrente – dei quattro versi succitati è che essi esprimano il più classico dei maschilismi. Ovviamente è vero il contrario, ma esaminiamone il perché, pur se, così facendo, mi sembra di mancare di rispetto all'intelligenza di molti lettori. Ci sono due elementi fissi, il marito e la moglie, con un altro elemento variabile, la ricchezza, che può essere aggiunta all'uno o all'altra. Se la moglie + la ricchezza è superiore al marito, mentre il marito ha bisogno della ricchezza per esserle pari, ci vuole molto per capire che la donna parte avvantaggiata rispetto all'uomo, quando nessuno dei due possieda la ricchezza e che c'è bisogno proprio di questa per compensare l'originaria inferiorità dell'uomo? Queste semplici ma logiche considerazioni dimostrano al di là di ogni ragionevole dubbio che Marziale non è un maschilista, tanto da ritenere la donna superiore all'uomo, a meno che quello non compensi la sua innata inferiorità con una maggiore ricchezza. Tuttavia – qualcuno potrebbe obiettare – egli odia le donne e sarebbe, quindi, misogino proprio perché disturbato dalla loro naturale superiorità. Sono in grado di confutare anche l'accusa di misoginia.
Nell'epigramma 189 del XIV libro Marziale sostiene che Cinzia, la donna amata e cantata da Properzio nelle sue elegie, divenne famosa grazie a lui, ma che egli lo diventò grazie a lei in una misura non minore. Ovvero: i versi eleganti e appassionati di Properzio, che immortalarono Cinzia, gli furono ispirati da lei, e, quindi, ella ha il merito di averglieli fatti scrivere. In altre parole un poeta, per diventare celebre, ha bisogno di una donna da amare e da cui essere riamato, che possa svolgere il ruolo di musa ispiratrice. Questo è proprio quello che rese famosi i grandi poeti d'amore Properzio, Gallo, Tibullo, Catullo e che, invece, manca a Marziale, come egli amaramente riconosce nell'epigramma 73 del libro VIII (vv. 3 – 8), rivolgendosi all'amico Istanzio:

Se vuoi dare forza e ardore alla mia poesia, e mi chiedi versi destinati a sopravvivere, dammi un amore. Cinzia ti rese poeta, o sensuale Properzio; il talento di Gallo era la bella Licoride; la fama del melodioso Tibullo derivò dall'avvenente Nemesi; fu Lesbia a dettarti i versi, o dotto Catullo.

In conclusione ritengo che non possa odiare le donne uno che avverte come una menomazione, quasi una disgrazia, la mancanza nella sua vita di una donna innamorata, che lo illumini e lo guidi alla pari di una musa ispiratrice.
Per sua sfortuna Marziale non incontrò mai un personaggio femminile, da cui ricevere e verso cui rivolgere sincero amore. Ma fu solo sfortuna, o colpa del suo carattere, incapace di abbandonarsi anima e corpo alla passione, per il timore di subire una cocente delusione? L'epigramma 34 del XII libro, l'ultimo da lui scritto, nei versi 8 – 11 contiene, anche se indirettamente, la soluzione di questo dilemma:

Se vuoi evitare certi dispiaceri e cautelarti contro gli angosciosi tormenti dell'animo, non farti troppo amico di qualcuno: godrai di meno, ma soffrirai di meno.

Questa rinunciataria e sconsolante tattica difensiva lo salvò dalla sofferenza, ma lo condannò alla solitudine.
Una breve considerazione finale: gli ultimi versi citati, dal sapore amarognolo, sono stati composti dopo il suo definitivo ritorno nella nativa Spagna, dove incontrò la ricca vedova Marcella, sua appassionata lettrice, che (in segno di onore o in segno di... amore?) gli regalò una villetta in campagna con annesso un piccolo podere. Ma, forse, ormai egli si sentiva troppo vecchio e non era più in grado di "farsi troppo amico di qualcuno (o qualcuna)".
 

sabato 23 maggio 2020

Virus, maledetto virus

La parola virus, che da qualche mese viene pronunciata - purtroppo! - in continuazione, è anch'essa un vocabolo latino e significa veleno. In sé e per sé è una parola un po' particolare, perché è uno dei soli tre nomi neutri terminanti in -us della II declinazione. "Rieccolo!" esclameranno molti, anzi pochi, dato che, se fossero molti, dovrebbero essere una parte o la totalità dei miei lettori, che - lo so bene - molti non sono. "Adesso ricomincia con la grammatica latina". Sì, è vero, e me ne scuso, ma fino a un certo punto, perché un blog dedicato alla lingua e alla letteratura latina non può ignorare del tutto la grammatica, che è il fondamento di una lingua, strumento - a sua volta - indispensabile per le forme letterarie della prosa e della poesia. E, quindi, ascoltate o, se preferite, leggete pazientemente la mia lezioncina.
Tutti i sostantivi latini si dividono in cinque gruppi, chiamati declinazioni. Ogni declinazione prevede sei casi, corrispondenti ai complementi basilari, in ciascuno dei quali si modifica la parte finale della parola, la cosiddetta desinenza, fenomeno necessario, dato che in latino mancano gli articoli e le nostre preposizioni semplici e articolate. Per esempio, la prima declinazione, la più semplice in assoluto, ha solo nomi maschili e femminili, che nel primo caso (il cosiddetto nominativo, il caso del soggetto) finiscono in -a, negli altri casi in modi diversi.
La seconda ha nomi maschili e femminili, che finiscono in -us; nomi maschili, che finiscono in -er e in -ir; nomi neutri (= né maschili né femminili), che finiscono in -um (come donum il dono; bellum la guerra etc.). Però ci sono tre soli nomi neutri della II declinazione, che terminano in -us e che, potrebbero essere scambiati per maschili: pelagus (il mare), virus (il veleno) e volgus o vulgus (il popolo in senso dispregiativo, il volgo).
Non c'è da stupirsi se una parola, che ha richiesto una spiegazione così lunga e complessa, abbia combinato e stia seguitando a combinare tanti guai, oltre a quelli che normalmente compie, in un altro campo, un qualsiasi virus informatico.
Insomma, non si può negare che il latino pure al giorno d'oggi mantenga ancora una presenza virale...
 
   

  

martedì 19 maggio 2020

Ab ovo

Questa locuzione latina si trova nel verso 147 dell'Ars poetica di Orazio, conosciuta anche come Epistula ad Pisones, una lunga lettera in versi sull'arte poetica, dedicata alla famiglia dei Pisoni. Qualcuno pensa che essa sia l'abbreviazione di un altro modo di dire latino: ab ovo usque ad mala, la cui traduzione è "dall'uovo fino alle mele", ossia dagli antipasti fino alla frutta, dato che  le uova venivano utilizzate all'inizio dei banchetti, per stuzzicare l'appetito, e pertanto ritiene che le due locuzioni si equivalgano e vogliano dire la stessa cosa. Assolutamente no. La seconda, usata anch'essa da Orazio nei versi 6-7 della III satira del I libro, ha un significato molto evidente, intuitivo: dal principio alla fine. La prima, invece, richiede una spiegazione assai più complessa, in cui entra in gioco la mitologia.
Giove si innamorò della bellissima Leda, regina di Sparta e moglie di Tindaro. Per evitare che la moglie Giunone potesse accorgersene, trasformò Leda e se stesso in due cigni, che si accoppiarono sulle rive del fiume Eurota. A questo punto la leggenda si complica, perché secondo una tradizione lei avrebbe deposto un solo uovo, da cui sarebbero usciti Elena e Polluce, poi si sarebbe unita al marito la stessa notte e avrebbe partorito anche Clitemnestra e Castore; secondo un'altra, avrebbe deposto due uova da cui sarebbero usciti Castore e Clitemnestra umani, Elena e Polluce semidei. C'è anche chi sostiene che la sola Elena fosse figlia di Giove, mentre gli altri tre sarebbero figli di Tindaro, e chi addirittura li considera semidei tutti e quattro, nati a coppie da due uova. Per cercare di uscire da questo groviglio inestricabile, l'unica soluzione è capire che cosa ne pensasse Orazio, visto che la locuzione ab ovo risale a lui.
Il verso 147 dell'Ars poetica recita così:

nec gemino bellum Troianum orditur ab ovo

la cui traduzione è: "nè comincia la guerra di Troia dal doppio uovo". Orazio sta consigliando a un futuro autore di poesia epica di non prendere le cose troppo alla lontana. Per questo afferma che un vero poeta non parte da Adamo ed Eva, come diremmo noi, ma comincia in medias res, a metà.
Nel caso in questione, ovvero la guerra di Troia, prendere le cose troppo alla lontana vorrebbe dire cominciare la narrazione addirittura dalla nascita di Elena, il cui rapimento da parte del troiano Paride diede origine alla famosa guerra. Pertanto Orazio seguiva una delle due teorie (quale? Ma c'interessa?), secondo cui Leda avrebbe deposto due uova.
Di conseguenza ab ovo significa "fin dall'origine".
Vedete quanto sono importanti i classici latini? Oggi siamo stati a colloquio con Orazio, uno dei massimi, che ci ha chiarito le idee. Che posso dirvi? Leggete Orazio, pure in traduzione italiana: anch'io ho scritto due libri con lui e su di lui.      
Perché dovreste leggerlo? Fa bene alla salute. 

sabato 16 maggio 2020

Panem et circenses

Le tre parole del titolo si trovano nel verso 81 della satira X di Giovenale, un caro amico, che abbiamo già incontrato su queste pagine a proposito della frase mens sana in corpore sano. Il significato è "pane e giochi del circo" e viene riferito in senso dispregiativo alle aspirazioni mediocri - terra terra - del popolino. In primo luogo, però, è giusto che io inserisca questa locuzione nel suo contesto, ossia che citi l'intero passo da cui essa è stata estrapolata:

Già da tempo, da quando non vendiamo i voti a nessuno, [il popolo] ha messo da parte ogni preoccupazione; infatti, quel popolo che una volta assegnava il comando militare, i fasci, le legioni, tutto, ora ha rinunciato alle sue aspirazioni e brama ansioso due sole cose, pane e giochi del circo.
(Giovenale, Satire, X, 77 - 81).

Però il senso dispregiativo, a cui ho accennato, può essere inteso in due modi: o è un'aperta forma di disprezzo delle basse voglie popolari (mangiare, bere e divertirsi con spettacoli grossolani e violenti), o è un'indiretta condanna dei politicanti, che sfruttano queste triviali aspirazioni del popolo a fini puramente demagogici, cioé per acquistare e mantenere il favore popolare facendo leva su di esse.
Quest'ultima considerazione dovrebbe rasserenarci e confortarci, perché ci fornisce la prova che i nostri governanti non sono demagoghi: in caso contrario si sarebbero affrettati a permettere in tempi brevi la ripresa del campionato di calcio senza dubbi o perplessità. Il calcio, infatti, ha preso il posto dei circenses nel cuore del popolo odierno.
Chissà che ne penserebbe quel maldicente di Giovenale?     

lunedì 11 maggio 2020

Lucrezio e i suoi alieni

L'esistenza o meno degli alieni è un argomento che va molto di moda e con il passare del tempo è diventato quasi lo spartiacque tra chi vuole ostentare la propria autodichiarata apertura mentale e chi si accontenta di restare ancorato alle più modeste, ma più concrete, coordinate spazio – temporali dell'hic et nunc (= qui e ora), tanto per restare fedeli all'impostazione latinofila del blog. Sul momento, però, vorrei lasciare da parte l'eventuale soluzione di questo controverso dilemma e soffermarmi a commentare il vocabolo alieno, una parola latina, tale e quale.
Alienus-aliena-alienum è un normale aggettivo della prima classe, che, originatosi da alius-alia-aliud (= altro), significa: altrui, appartenente ad altri, estraneo. Da esso derivano le forme verbali alienare, alienatus e il sostantivo alienatio, tutti vocaboli che hanno l'equivalente trasposizione in italiano. Infatti sono di uso comune le corrispondenti parole “alienare” e “alienato”, nel senso di togliere a qualcuno la proprietà di un bene e di passarlo a un altro, o di riferirsi a qualcuno che non è più padrone di sé, come se si fosse estraniato da sé. Ma nell'ambito di questa famiglia lessicale la parola italiana più impiegata è senz'altro: alienazione, il cui uso è frequente nel campo giuridico, filosofico, economico-sociale e clinico-psichiatrico. Nel campo giuridico si intende il trasferimento a un altro di un proprio bene o diritto; in quello filosofico equivale a sottrarre all'uomo ciò che è costitutivo e peculiare della natura umana, come – secondo Rousseau – la libertà; in chiave economico-sociale, invece, Marx chiama alienazione il fatto che il capitale, prodotto dal lavoro, assoggetta ciò da cui deriva – appunto il lavoro – costringendo il lavoratore a cedere la propria forza-lavoro in cambio di un salario, che gli garantisca il livello minimo di sopravvivenza; da un punto di vista clinico indica la perdita delle proprie facoltà mentali; in senso etico-pragmatico, nell'attuale crisi del mondo moderno – la tecnologica società dei consumi – il termine alienazione è usato per evidenziare il processo di degradazione spirituale, che porta a un'involuzione dei valori morali, per cui l'individuo rinuncia a riconoscersi come coscienza pensante, cioè a essere, preferendo l'ottusa autorealizzazione nell'avere.
Pertanto, la parola latina alienus e tutti i suoi derivati ne hanno fatta di strada, per arrivare a mettere le radici nel nostro modo di vivere e di pensare e ad illuminarlo con i loro riflessi!
Ma ritorniamo al discorso sugli alieni, parola che ormai è diventata il sinonimo di extraterrestri, in quanto provenienti da un “altro” pianeta, su cui vivono.
L'idea che esistano gli alieni non l'abbiamo inventata noi moderni, quindi non è ascrivibile alle nostre più progredite conoscenze scientifiche, ma risale almeno a 25 secoli fa, dato che ne parlava già il filosofo Metrodoro di Chio (vissuto tra il V e il IV secolo a. C.), discepolo dell'atomista Democrito. Egli sosteneva l'esistenza di un universo infinito, popolato da infiniti mondi, come poi sosterrà pure Epicuro (IV – III secolo a. C.) e il suo seguace latino Tito Lucrezio Caro (I secolo a. C.). Voglio farvi leggere ciò che questi ne scrive più di duemila anni fa.
Nel suo poema didascalico De rerum natura (= La natura delle cose), in cui espone la filosofia epicurea, lo scrittore latino esprime la convinzione certa che la Terra non sia il solo pianeta abitato nell'universo. Nel II libro (vv. 1067 – 1080) dice così:

Inoltre, dato che c'è a disposizione molta materia, dato che lo spazio è a portata di mano, né alcuna cosa né alcuna causa fanno da ostacolo, è naturale che le cose debbano compiersi e realizzarsi. Ora se c'è un così grande numero di atomi, quanto non potrebbe contare l'intera vita di un essere vivente, e restano identiche la forza e la natura, che possano aggregare nei diversi luoghi gli elementi primordiali delle cose nello stesso modo in cui sono stati aggregati qui [cioè: in questo mondo], è necessario ammettere che in altre parti dello spazio esistano altri mondi e diverse razze di uomini e stirpi di animali. A ciò si deve aggiungere il fatto che nell'universo non c'è una sola cosa che sia prodotta unica e che cresca unica e sola, senza che appartenga a qualche stirpe e che ce ne siano moltissime della stessa specie.

In un passo del V libro (vv. 1308 – 1349), in cui parla di tutt'altro, egli torna a ribadire questa sua convinzione, per giustificare la validità di un'ipotesi alquanto stravagante.
Illustrando le faticose tappe del progresso, il poeta parla della scoperta e della lavorazione dei metalli, che contribuirono a migliorare le condizioni di vita. Il ferro servì per forgiare strumenti agricoli, che permisero di lavorare meglio la terra, ma, d'altro canto, pure a costruire armi sempre più sofisticate ed efficienti da usare in guerra. A questo riguardo Lucrezio aggiunge che, per terrorizzare meglio i nemici, gli uomini giunsero al punto di utilizzare in battaglia bestie feroci: leoni, cinghiali e tori. Ma esse, malgrado fossero guidate dai loro domatori, eccitate dal tumulto e dallo spargimento di sangue, si rivoltarono contro le loro stesse schiere, facendo strage nei due eserciti contrapposti. Il poeta si sofferma con orrore sullo spettacolo terrificante delle belve, che straziano i corpi dei combattenti con i morsi, con gli artigli e con le corna.
Poi, riflettendo su una simile scelta così assurda, di cui nessuno aveva ipotizzato le possibili disastrose conseguenze, Lucrezio è colto da un dubbio (vv. 1341 – 1349):

Se accadde davvero che facessero una cosa del genere. Ma a stento mi induco a pensare che, prima che si verificasse una tale rovina, comune a entrambe le parti e orribile, non abbiano potuto prevedere e immaginare ciò che sarebbe accaduto; e si potrebbe pensare che questo è avvenuto da qualche parte dell'universo, nei diversi mondi formatisi in maniera diversa, piuttosto che in qualche regione precisa [sottinteso: del nostro mondo]. Ma vollero fare ciò con la speranza non tanto di vincere, quanto di procurare ai nemici un motivo di sofferenza e a se stessi di morire, dato che non potevano confidare in una superiorità numerica ed erano privi di altre armi.

Da notare la bizzarria dell'osservazione finale, con cui il poeta vuole dare una spiegazione ragionevole di un comportamento ritenuto assurdo nelle prime righe e, per di più, di un comportamento, che egli ha appena escluso fosse caratteristico di esseri umani, in quanto riguardante gli abitanti di un altro pianeta.
Il rapporto tra Lucrezio e gli alieni può essere inquadrato, però, anche da un altro punto di vista, quello teologico. Come tutti gli epicurei, egli crede nell'esistenza degli dei, ma non crede che essi si interessino degli uomini. Lasciamo che ce lo dica lui stesso (De rerum natura, I, 44 – 49):

è necessario che ogni natura divina goda in sé e per sé dell'immortalità unita alla pace più profonda, distante e ben lontana dai nostri problemi. Infatti, libera da ogni dolore, priva di pericoli, ricca delle proprie risorse, bisognosa di nulla di nostro, né si lascia conquistare dalle buone azioni, né è sfiorata dall'ira.

Secondo la filosofia epicurea gli dei vivrebbero negli intermundia, cioè negli spazi interstellari, il che non vuol dire che volteggiano nello spazio, perché hanno delle sedi concrete e ben specifiche, che il poeta descrive succintamente, ma a tinte vivaci, ispirandosi ad alcuni versi dell'Odissea di Omero (De rerum natura, III, 18 – 24):

Appaiono la maestà degli dei e le loro sedi beate, che né scuotono i venti né le nuvole bagnano con le loro piogge né, cadendo bianca, tocca la neve, condensatasi per il gelo pungente, ma le copre sempre un cielo sereno e sorride con una luce diffusa per ampio tratto. Inoltre la natura fornisce di sua iniziativa ogni cosa né alcuna cosa turba in nessun tempo la pace dell'animo.

Nel V libro Lucrezio spiega perché non si possa negare l'esistenza degli dei, fondata sull'esperienza diretta degli antichi (vv. 1169 – 1174):

Perché, infatti, già allora le generazioni dei mortali vedevano durante la veglia, ma di più nei sogni, splendide immagini divine dalla straordinaria grandezza fisica. A loro, dunque, attribuivano la sensibilità, per il fatto che era evidente che muovessero le membra e pronunciassero parole superbe, proporzionate all'aspetto meraviglioso e alla forza vigorosa.

Se volessimo proporre un'interpretazione alquanto “creativa” di questi brani lucreziani, potremmo affermare che gli dei rappresentati dal poeta latino abbiano tutte le caratteristiche attribuibili agli “alieni”: esseri superiori dal punto di vista fisico e spirituale, che non hanno niente di sacrale, che vivono in qualche parte remota dell'universo e che ogni tanto vengono a farci visita, tanto è vero che gli antichi non si limitavano a sognarli, ma li vedevano pure da svegli... Incontri ravvicinati del terzo tipo?


martedì 5 maggio 2020

Urbi et orbi

Tanti anni fa, quando ero più giovane - non che adesso non lo sia, ma allora lo ero un po' di più - a volte mi è capitato di trovarmi in piazza S. Pietro, mentre il papa impartiva la solenne benedizione Urbi et orbi, ossia "alla Città (di Roma) e al mondo". Si tratta di una forma particolare di benedizione - la più importante - che il sommo pontefice dispensa a tutti i fedeli della città (la città per eccellenza è Roma, l'Urbe) e del mondo intero in occasioni speciali: la propria elezione al soglio pontificio, il giorno di Natale e quello di Pasqua. Non ho intenzione di entrare in merito a problemi di interpretazione teologica di un simile atto: non ne sarei in grado e neppure m'interesserebbe provarci. Però, visto che è una locuzione latina, rientra a pieno titolo nelle mie competenze, nel mio campo d'azione, e, quindi, ne parlerò da latinista. Da un punto di vista retorico essa è definibile come paronomasia: no, non vi allarmate, non si tratta di una parolaccia, ma di un vocabolo derivato dal greco, che indica una figura retorica di suono, consistente nell'accostamento di due parole dal suono quasi uguale, per dare più risalto a una di esse o a tutte e due (per esempio e senza offesa per le gentili lettrici che mi onorano della loro attenzione, a cui chiedo preventivamente scusa: chi dice donna, dice danno). Le due parole sono urbs-urbis (città) e orbis-orbis (mondo). In latino i nomi, gli aggettivi e i pronomi si declinano, cioè modificano la parte finale, quella che viene chiamata desinenza, in base alla funzione logica e grammaticale che essi svolgono nella frase. Per cui, dicendo urbs-urbis, è come se dicessi: la città-della città. A questi due primi casi (nominativo e genitivo) segue il caso dativo, appunto urbi, che vuol dire "alla città", come orbi, vuol dire "al mondo". Chiedo scusa una seconda volta, ma a tutti i miei lettori, se ho appesantito il discorso con un riferimento alla grammatica latina, che a qualcuno sarà parso noioso. 
Per farmi perdonare, citerò alcuni versi tratti dal poemetto in distici elegiaci intitolato De reditu suo (= Il suo ritorno), composto da Rutilio Namaziano, l'ultimo vero poeta pagano della latinità. Era nato a Tolosa intorno alla metà del quarto secolo d. C., ma poi si era trasferito a Roma, dove aveva svolto una brillante carriera politica, arrivando a diventare addirittura praefectus urbi, prefetto urbano, una specie del nostro sindaco. Dopo il sacco di Roma del 410, compiuto dai Visigoti di Alarico, aveva ricevuto notizie preoccupanti riguardo ai suoi possedimenti in Gallia, attraversati dai Visigoti e sede di rivolte locali di schiavi e coloni: perciò aveva deciso di partire alla volta di Tolosa, per andare a controllare di persona. Aveva preferito fare il viaggio per mare con piccole imbarcazioni, per evitare le strade, battute da briganti e soldati sbandati. La sua era stata una navigazione costiera, punteggiata da tante tappe a terra: di essa ci dà conto nel suo poemetto, rimasto però interrotto all'inizio del II libro, che coincide con l'arrivo a Luni, antica città dell'Etruria ai confini con la Liguria. Non sappiamo né come sia arrivato a Tolosa, né se ci sia effettivamente arrivato. Ma la cosa più importante di Rutilio Namaziano è che, pur essendo nato in Gallia, era innamorato di Roma e, quindi, nel suo poemetto, mostra tutto il suo risentimento contro i barbari invasori, e contro gli ebrei e i cristiani che hanno snaturato e conculcato le originarie tradizioni culturali e religiose della latinità. Nel momento della partenza da Roma, all'inizio della via Portuense, che lo avrebbe portato fino al Porto di Augusto (l'odierna Fiumicino), dove si sarebbe imbarcato, egli innalza un lungo e vibrante inno a Roma, che contiene questi quattro versi ispirati: Hai dato una sola patria a popoli di stirpe diversa; per chi viveva senza leggi è stato un vantaggio essere conquistato dal tuo dominio e, mentre permettevi ai vinti di essere partecipi del tuo diritto, hai trasformato in una città quello che prima era un intero mondo (vv. 63-66). L'ultimo verso suona così: urbem fecisti quod prius orbis erat, in cui possiamo notare lo stesso gioco di parole, l'alternanza urbs-urbis / orbis-orbis, su cui mi sono soffermato a proposito della paronomasia iniziale.
Aggiungo un riferimento personale: ho usato questo poemetto come base di partenza per un mio romanzo, intitolato: La terra dell'ultima nebbia (2010), in cui ho aggiunto altri personaggi (specialmente la protagonista femminile), altre vicende e ho fatto proseguire il viaggio ben oltre Luni... Chi vuole saperne di più, può leggere la mia recensione, che tra breve inserirò nell'apposita pagina dedicata ai miei romanzi.      

lunedì 4 maggio 2020

Nonno "calculus" e i suoi nipotini

La parola latina calculus, che deriva da calx calcis (= calce), indica una concrezione calcarea e quindi può essere tradotta in italiano come sassolino, pietruzza. Con i sassolini le bambine e i bambini romani cominciavano a fare i primi conti, un po' come i nostri bimbi con il pallottoliere, ossia imparavano a calcolare. Ma le pietruzze erano anche usate come pedine su diversi tavolieri in giochi come il Ludus Latrunculorum, una via di mezzo tra la Dama e gli Scacchi, o uno equivalente al nostro filetto, altrimenti detto mulino, di cui, però, si ignora quale fosse l'autentico nome latino. L'etimologia ci aiuta anche a capire come mai si chiamino calcoli quelle aggregazioni patologiche di sali minerali che si formano nella cistifellea, nel fegato, nei reni. Di queste tre diverse accezioni, attualmente se ne seguitano ad usare due, quella aritmetica e quella medica, una delle varie prove evidenti e inconfutabili che anche nel campo scientifico moderno non si può fare a meno del latino: chi non è d'accordo, cancelli pure dal dizionario italiano le parole calcolo, nel suo doppio significato, calcolare, calcolatore, calcolatrice, tutte derivate dall'antenato calculus, e le sostituisca con altre parole. Nell'attesa che ciò avvenga voglio mostrarvi in che modo un grande scrittore latino come Petronio, il famoso arbiter elegantiae della corte neroniana, personaggio che figura sia nel romanzo Quo vadis?, sia nel film da esso tratto, abbia usato il termine calculus con una suggestiva ed icastica valenza metaforica.
Encolpio, il protagonista del romanzo Satyricon, che è anche l'io narrante e, pertanto, tende ad identificarsi con l'autore, sulla riva del mare dopo un naufragio osserva il cadavere di un suo ex rivale. In preda alla commozione, improvvisa un discorso funebre di commiserazione del suo antico avversario e, dopo aver amaramente osservato che non solo in mare ma in qualunque circostanza siamo in balìa del destino ed esposti a una morte imprevista ed imprevedibile, giunge alla seguente conclusione:
si bene calculum ponas, ubique naufragium est
(se collochi bene il sassolino, il naufragio è dovunque).
Il riferimento al sassolino può essere interpretato nel doppio significato di fare bene i conti e di collocare la pedina sul tavoliere nel modo strategicamente più funzionale, ma in ogni caso il concetto risultante è unico e consiste nella metafora: addizionare o sottrarre bene due numeri, come anche eseguire la mossa giusta sul tavoliere equivale a ragionare, riflettere con profondità e precisione. Per cui, la mia traduzione è questa:
se ci rifletti bene, la vita è tutta un naufragio

sabato 2 maggio 2020

Intus et in cute

Il poeta satirico Aulo Persio Flacco di origine etrusca – era nato a Volterra nel 34 d. C. – è vissuto appena ventotto anni e per questo ci ha lasciato uno smilzo libretto contenente solo sei satire e altri quattordici versi, che ora vengono interpretati come loro prologo, ora come epilogo, ora come una composizione indipendente dalle altre sei. Nella terza satira descrive con tagliente sarcasmo un giovane, che si sveglia alle 11 di mattina dopo una notte di bagordi e trova mille scuse per rifiutarsi di studiare: dapprima chiama un servo, che tarda ad arrivare, facendolo andare su tutte le furie; poi, quando prova a svolgere dei compiti e deve scrivere qualcosa, si lagna che l'inchiostro è troppo denso; ma, se prova a diluirlo, quello risulta annacquato e sgocciola... Insomma, non fa altro che cercare pretesti per lamentarsi. Il poeta comincia a rimproverarlo, esortandolo a non sprecare nell'ignavia e nei divertimenti il tempo della giovinezza, in cui il suo carattere è ancora duttile e può essere più facilmente modellato e orientato verso l'acquisizione di solidi princìpi morali. Non deve cercare scuse, perché (gli dice il poeta al verso 30): “Ego te intus et in cute novi”, ossia “Io ti conosco internamente e sulla pelle (= dentro e fuori)”. Possiamo spiegare questa frase in due modi diversi: o nel senso che: io ti conosco completamente (appunto: dentro e fuori), o nel senso che: conosco la tua vera realtà interiore, che non corrisponde a come vorresti apparire esteriormente (appunto: sulla pelle), dunque non puoi ingannarmi.
Solitamente questa locuzione, introdotta da Persio e diventata di uso comune (naturalmente per chi conosce il latino), viene citata amputandone l'inizio e la fine e riducendola, quindi, a queste sole quattro parole: intus et in cute.

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Festìna lente

Questo motto latino, tuttora molto usato, significa: affréttati lentamente, e pare che fosse pronunciato spesso dall'imperatore Augusto,...