“C'è
bisogno di libertà.” Questa affermazione del poeta latino Aulo
Persio Flacco (Satire,
V, 73) è risuonata infinite volte, anche se in forme diverse, nel
corso dei secoli prima e dopo di lui. Però sono convinto che tutti
coloro che, in un modo o nell'altro, hanno invocato la libertà come
un bene supremo, non siano stati né siano d'accordo sulla sua reale
essenza e, perciò, essa venga trattata come un recipiente vuoto,
suscettibile di essere riempito con qualsivoglia contenuto. Sforzarsi
di definire il concetto di libertà vuol dire inoltrarsi in un campo
minato. Infatti, o ci si accontenta di declamare formulette ad
effetto, suggestive ma inconcludenti, come: “La mia libertà
finisce dove comincia la tua”, in cui, oltre a non precisare che
cosa
sia la libertà in sé e per sé (lo si dà per scontato), si
introduce un rapporto di reciprocità o – meglio – di
circolarità, che in chiave logica produce lo stesso effetto di un
cane che si morde la coda; oppure la si contestualizza e, quindi, la
si storicizza, con il risultato di ottenere tanti diversi concetti di
libertà nei diversi tempi, nelle diverse realtà sociali, nelle
diverse menti di chi si è dedicato alla sua teorizzazione. E
dunque? Seguiteremo a parlare di libertà, senza avere prima compreso
di che cosa stiamo parlando?
Nello
stato di natura non esiste la libertà, perché vige la legge del più
forte: pesce grande mangia pesce piccolo, il leone divora il
cerbiatto e non viceversa, ma questo anche tra gli uomini, finché
regna il principio homo
homini lupus
(=
l'uomo è un lupo per l'uomo).
La
libertà riguarda gli esseri umani non appena si afferma e si accetta
il rispetto della dignità propria ed altrui, che possiamo
rintracciare nella philanthropìa
greca
e nell'humanitas
latina,
predicata con diverse valenze dal commediografo Terenzio,
dall'oratore/filosofo Cicerone, dal poeta satirico Giovenale. Mi
aspetto che qualche ipercritico arricci il naso e con tono supponente
esclami: “Che senso ha, parlando di libertà, introdurre nel
discorso gli scrittori latini, dato che – e lo dice sogghignando
compiaciuto – la società romana era fondata sullo schiavismo?”
Nessuno
vuol negare che nell'antica Grecia e nell'antica Roma ci fosse la
schiavitù, ma quella romana andrebbe conosciuta meglio.
Premesso
che ogni forma di schiavitù è una realtà negativa e che anche a
Roma molti padroni si comportavano in maniera disumana – basti
pensare all'illustre Catone il Censore, che nella sua grettezza
concedeva ai suoi servi il minimo indispensabile, e forse anche meno,
per alimentarsi e ripararsi dal freddo –, in altre case gli schiavi
erano trattati bene, i più meritevoli diventavano confidenti e
consiglieri dei padroni e spesso venivano liberati, acquistando la
condizione di liberti. Questo capitò a Livio Andronico, che ricoprì
un ruolo di primo piano nella cultura letteraria della Roma arcaica,
tanto che l'inizio ufficiale della Letteratura latina viene fatto
coincidere con la rappresentazione pubblica (240 a. C.) di una sua
opera teatrale; questo capitò al commediografo Terenzio, diventato
un personaggio di primo piano del Circolo degli Scipioni; questo
capitò ad Anneo Cornuto, filosofo di grande fama nel I secolo d. C.
e maestro di Persio e di Lucano; fu meno fortunato di loro il
favolista Fedro, che comunque per le sue doti culturali indusse
Augusto ad affrancarlo e a farne un liberto. Per non parlare di
Orazio, che, pur essendo figlio di un ex schiavo, si conquistò la
stima e l'amicizia dell'imperatore Augusto e del suo ministro per la
cultura Mecenate.
Conosciamo
bene le convinzioni del filosofo Seneca sulla schiavitù, affidate
principalmente a una famosa lettera (V, 47) delle Epistulae
morales ad Lucilium:
...'Servi
sunt.' Immo homines. 'Servi sunt.' Immo contubernales. 'Servi sunt.'
Immo humiles amici. 'Servi sunt.' Immo conservi, si cogitaveris
tantundem in utrosque licere fortunae. Itaque rideo istos qui turpe
existimant cum servo suo cenare...
'Sono
servi.' O meglio: uomini. 'Sono servi.' O meglio: compagni di tenda.
'Sono servi.' O meglio: umili amici. 'Sono servi.'
O
meglio: compagni di schiavitù, se penserai che la sorte ha un uguale
potere nei riguardi degli uni e degli altri. Perciò mi fanno ridere
quelli che ritengono una cosa vergognosa cenare con il proprio
servo...
Tuttavia,
vorrei chiamare in causa un altro grande autore latino, da cui –
non tutti sono d'accordo, ma... tanto peggio per loro –
specialmente in questi tempi di confusione mentale abbiamo ancora
molto da imparare: alludo a Decimo Giunio Giovenale.
Nella
satira VI (vv. 219 – 223) c'è un drammatico battibecco tra moglie
e marito sulla punizione di uno schiavo. La donna, infuriata, ne
pretende addirittura la morte:
“Fa'
crocifiggere questo schiavo!”
<Per
quale colpa ha meritato un tale supplizio? C'è un testimone? Chi
l'ha denunciato? Ascolta: nessuna esitazione è mai troppo lunga,
quando si tratta della morte di un uomo.>
“Sciocco!
E così uno schiavo sarebbe un uomo? Ammettiamo pure che non abbia
fatto nulla: ma io lo pretendo, te lo ordino, la mia volontà è un
motivo più che sufficiente.”
Ma
le sofferenze degli schiavi non dipendono solo dal malumore di una
donna, che vuole dimostrare al marito chi comanda in casa, spesso è
lo stesso padrone a incrudelire su di essi (Satira XIV, 15 – 22):
Uno
come Rutilio può forse insegnare [ai
figli] la
mitezza d'animo o un comportamento comprensivo nei confronti di
errori veniali, e che le anime e i corpi dei servi risultano
costituiti dalla stessa sostanza e dagli stessi elementi di quelli
nostri, lui che gode dell'orribile rumore delle frustate e che non
apprezza il canto delle Sirene più degli schiocchi delle sferzate,
vero Antifate e Polifemo della sua casa in preda al terrore, lui che
è veramente felice solo quando, chiamato il carnefice, fa marchiare
a fuoco qualcuno con un ferro rovente per colpa di due tovaglioli?
Di
tenore ben diverso è il seguente brano (Satira XI, 145 – 160), in
cui Giovenale, invitando a cena un amico, presenta i suoi giovani
schiavi con un'affettuosa simpatia che sconfina nell'empatia:
Uno
schiavetto dall'aspetto trascurato, ma ben coperto contro il freddo,
ti porgerà delle tazze dozzinali e pagate quattro soldi. Non ho
schiavi della Frigia o della Licia né acquistati da un mercante. Ma
è questo quello che conta: quando gli chiederai qualche cosa,
chiedigliela in latino. Sono tutti vestiti allo stesso modo, hanno i
capelli corti e dritti e soltanto oggi pettinati a motivo del
banchetto. Questo è figlio di un rozzo pastore, quello di un bovaro;
è triste, perché gli manca la madre che non vede da molto tempo, e
ha nostalgia della sua casetta e dei suoi cari capretti, lui che ha i
lineamenti e il pudore di un ragazzo libero, come dovrebbero essere
quelli che indossano la fiammeggiante porpora, né con la sua voce
ancora incerta mette in mostra nei bagni testicoli grandi come un
pugno, né si è mai fatto depilare le ascelle, né per la vergogna
nasconde dietro l'ampolla dell'olio il membro troppo grosso. Egli ti
verserà un vino prodotto su quegli stessi monti da cui proviene,
sotto le cui cime ha giocato da bambino.
Terminata
questa digressione sullo “schiavismo” romano, puramente
indicativa nella sua frettolosità, è tempo di tornare alla frase di
Persio, da me usata come titolo. La libertà di cui avverte il
bisogno il satirico volterrano, non è quella derivante da un freddo
e formale atto burocratico/giuridico, come l'affrancamento di uno
schiavo e la sua trasformazione in liberto, ma qualche cosa di ben
più profondo, che fa capo a una scelta morale.
C'è
bisogno di libertà. Ma non di quella per cui, qualunque Publio della
tribù Velina abbia concluso il servizio militare, poi riceve farro
ammuffito grazie alla sua tesserina annonaria. Ahimè! Quanto
ignorano la verità quelli convinti che la sola giravolta su se
stesso basti a trasformare qualcuno in un cittadino romano (Satira
V, 73 – 76).
Persio
cita due esempi di libertà burocratico/politica: il caso di un
veterano che dopo il congedo può servirsi di una tessera annonaria,
che gli permette di ricevere gratuitamente, o a prezzo di favore, del
farro di qualità scadente; l'allusione alla cerimonia di
affrancamento di uno schiavo: davanti al pretore il padrone toccava
lo schiavo con una verga, pronunciava la formula prescritta (= voglio
che questo uomo sia libero), lo
prendeva per mano e lo faceva girare su se stesso. Quindi il pretore
lo dichiarava libero.
Secondo
Persio, invece, la vera libertà è quella dalle passioni, dagli
istinti, dai condizionamenti egoistici, dai pregiudizi (inculcati
nell'animo dalle nonne: V, 92). Nei versi 132 – 153 della stessa
satira egli si sofferma a denunciare l'influenza nefasta esercitata
sull'animo umano dall'Avaritia (=
avidità) e dalla Luxuria (=
lussuria, amore dei piaceri e della mollezza), due tendenze viziose
in contrasto tra loro (= o si accumulano soldi o li si sperperano per
darsi alla bella vita), che vengono vivacemente personificate, mentre
provocano un conflitto interiore nel cuore della loro vittima.
Nell'età
moderna e contemporanea, intendo dal XVIII secolo fino ai giorni
nostri, al di là della retorica politica e patriottarda, della
parola libertà si è fatto un grande uso ed abuso. Però essa nella
maggioranza dei casi è stata ed è identificata nell'atteggiamento
luciferino del non serviam (=
non servirò!), ossia nel rifiuto orgoglioso della creatura di
sottostare al Creatore, arrogandosi il diritto di stabilire
soggettivamente in che cosa consistano il bene e il male, il giusto e
l'ingiusto, il vero e il falso. Questo rifiuto è tanto più grave,
in quanto ignora volutamente l'esplicito messaggio evangelico (Gv 8,
31 – 32):
Ἐὰν
ὑμεῖς μείνητε ἐν τῷ λόγῳ τῷ ἐμῷ,
ἀληθῶς μαθηταί μού ἐστε,
καὶ
γνώσεσθε τὴν ἀλήθειαν, καὶ ἡ ἀλήθεια
ἐλευθερώσει ὑμᾶς.
“Se
rimarrete fedeli alle mie parole, sarete veramente miei discepoli,
conoscerete la verità e la verità vi renderà liberi”.
Le
conseguenze di un tale ostinato rifiuto sono sotto gli occhi di
tutti.