sabato 31 dicembre 2022

Buon Anno a tutti!

Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere
(Giacomo Leopardi)

Venditore.  Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
Passeggere. Almanacchi per l'anno nuovo?
Venditore. Si signore.
Passeggere. Credete che sarà felice quest'anno nuovo?
Venditore. Oh illustrissimo sì, certo.
Passeggere. Come quest'anno passato?
Venditore. Più più assai.
Passeggere. Come quello di là?
Venditore. Più più, illustrissimo.
Passeggere. Ma come qual altro? Non vi piacerebb'egli che l'anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
Venditore. Signor no, non mi piacerebbe.
Passeggere. Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?
Venditore. Saranno vent'anni, illustrissimo.
Passeggere. A quale di cotesti vent'anni vorreste che somigliasse l'anno venturo?
Venditore. Io? non saprei.
Passeggere. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?
Venditore. No in verità, illustrissimo.
Passeggere. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?
Venditore. Cotesto si sa.
Passeggere. Non tornereste voi a vivere cotesti vent'anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?
Venditore. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
Passeggere. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?
Venditore. Cotesto non vorrei.
Passeggere. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch'ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l'appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
Venditore. Lo credo cotesto.
Passeggere. Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
Venditore. Signor no davvero, non tornerei.
Passeggere. Oh che vita vorreste voi dunque?
Venditore. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz'altri patti.
Passeggere. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell'anno nuovo?
Venditore. Appunto.
Passeggere. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest'anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d'opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore. Speriamo.
Passeggere. Dunque mostratemi l'almanacco più bello che avete.
Venditore. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
Passeggere. Ecco trenta soldi.
Venditore. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.

Prendo lo spunto da questa Operetta Morale leopardiana, sempre attuale, per rivolgere i più cordiali auguri di un felice anno nuovo a tutte le persone che conosco, anche a quelle che ho momentaneamente perso di vista, fiducioso che una cosa rinviata per vari ordini di motivi non debba essere forzatamente cancellata per sempre (= quod differtur non aufertur). Pertanto:

Buon Anno da







mercoledì 14 dicembre 2022

Il diavolo e l'acqua santa

Nell'attuale società, che si fa vanto di essere laica e talora non riesce a non essere laida, si può affermare senza tema di essere smentiti che è invalsa la pratica quotidiana di mescolare il sacro al profano con risultati che sovente scadono nella sfacciataggine e nella sconvenienza, ma qualche volta anche soltanto nella più grottesca comicità. Comico e grottesco, infatti, si può definire il fatto seguente. Un visitatore della Basilica romana di S. Maria in Trastevere ha diffuso sul web un video, che mostra il presepe ivi realizzato dalla Comunità di S. Egidio. Tra i tanti personaggi c'è anche una dottoressa addetta all'inoculazione del vaccino anti-Covid, che sbandiera un certificato attestante una quinta vaccinazione. Una scelta di pessimo gusto, tenendo presente che i responsabili della Pfizer hanno da poco dichiarato ufficialmente in sede europea che non era stata mai testata la supposta capacità del vaccino di evitare il contagio, oltre ai vari gravi (in alcuni casi: gravissimi) inconvenienti a cui ha dato origine. Eppure così va il mondo e il Bambinello nella sua infinita pazienza deve sopportare anche questa scomoda compagnia:


domenica 11 dicembre 2022

Poeti sì, poeti no

Nella cultura latina la poesia è concepita come l'esito dell'equilibrata convergenza di due risorse, l'una in funzione dell'altra: l'ingenium e l'ars. Il primo termine indica le doti naturali e innate, mentre il secondo mette l'accento sulla tecnica compositiva. Il solo ingenium può essere sufficiente a qualificare un poeta, ma rozzo, in quanto egli ha – sì – qualche cosa da dire, ma la dice male, in modo inadeguato. La sola ars non è in grado di raggiungere la poesia, ma nel migliore dei casi può rendere qualcuno un buon verseggiatore, un facitore di versi. L'indispensabile compresenza di questi due elementi è testimoniata da Cicerone nel giudicare positivamente il poema di Lucrezio, un poeta a lui non molto gradito, perché appartenente alla corrente filosofica dell'epicureismo, da condannare, secondo il grande oratore, che non approvava né la sua etica basata sul piacere, né il suggerimento di astenersi dall'attività politica. In una lettera al fratello Quinto (libro II, 9, 3) egli riconosce obiettivamente che nel De rerum natura si trovano molti sprazzi d'ingegno (multis luminibus ingenii) ma anche molta arte (multae tamen artis).

Fatta questa doverosa premessa, passo ad esaminare tre particolari concetti di poesia presenti nelle opere di Orazio, Persio e Giovenale: in realtà si potrebbero definire tre “variazioni sul tema”, perché sono tre personali interpretazioni dello stesso argomento. Non è un caso che io abbia scelto tre esponenti del genere satirico, un genere letterario pericolosamente in bilico tra la tentazione prosastica – anche prosaica! – e la vibrante asserzione di elevati princìpi morali, spesso assai curata stilisticamente.

Ometto di sottolineare ancora una volta l'alto livello artistico raggiunto dalla varia produzione oraziana – è ovviamente superfluo –, ma mi preme precisare che il poeta venosino è stato anche un grande teorico di poesia, come testimonia l'Epistola ai Pisoni, il poemetto didascalico, anch'esso – tra l'altro – pregevole opera di poesia, in cui egli si dimostra un esperto conoscitore dei canoni dell'arte poetica, tra cui la necessità che l'ingenium e l'ars svolgano un ruolo combinato per il raggiungimento dei più soddisfacenti risultati artistici. Ma non è su questo che vorrei soffermarmi.

Nella II epistola del II libro, dedicata a Floro, rievocando tra il serio e il faceto gli inizi della sua carriera poetica, egli dice con una formula autoriduttiva e autoironica (cfr. per es. l'equipollente espressione Epicuri de grege porcum nel verso 16 dell'epistola I, 4):

paupertas impulit audax ut versus facerem

sotto la spinta della povertà trovai il coraggio di fare versi

(Epistole II, 2, 51 – 52)

Molti critici hanno preso alla lettera questa osservazione, scandalizzandosi perché la povertà non è assolutamente un movente adeguato per trasformare in poeta chi già non lo sia. Ma Orazio non ha detto questo, dato che ha usato la locuzione versus facere, fare versi, che è ben diversa da “essere poeta”, ma equivale a “essere un verseggiatore, un facitore di versi”. Chi sarebbe tanto sventato e irriverente da qualificare come verseggiatore o facitore di versi un Dante, un Petrarca, un Tasso o un Leopardi?

Persio, l'immediato successore satirico di Orazio, dimostra invece di aver inquadrato nei giusti termini l'ambigua confessione del suo predecessore, approfondendone la portata per rivolgere un giudizio di disvalore alla pseudopoesia dei suoi contemporanei. È la critica tagliente contenuta nella seconda metà dei Choliambi, in cui i poetastri coevi sono paragonati a corvi, gazze e pappagalli che, stimolati dall'offerta di cibo, si sforzano di ripetere meccanicamente parole umane. Alla paupertas oraziana egli sostituisce più prosaicamente il venter, l'appetito, la voracità:

Quis expedivit psittaco suum 'chaere'
picamque docuit nostra verba conari?
Magister artis ingenique largitor
venter, negatas artifex sequi voces.

Chi ha reso agevole al pappagallo il suo <buongiorno!> e ha insegnato alle gazze a cimentarsi nella pronuncia di parole umane? Il ventre, maestro dell'arte e donatore d'ingegno, capace di far riprodurre suoni umani non consentiti dalla natura” (Choliambi, 8 – 11)

Da notare che, secondo Orazio, la paupertas aveva potuto trasformarlo in un buon versificatore (impulit ut versus facerem), cioè gli aveva concesso l'ars, mentre Persio nel suo impietoso sarcasmo va ben oltre, perché qualifica il ventre come “maestro dell'arte e donatore d'ingegno”, quindi del tutto in grado di trasformare in vero poeta – in cui si abbinano ingenium ed ars – anche chi non abbia ricevuto dalla natura un'indole poetica.

Giovenale, l'ultimo grande satirico latino, non poteva non dire la sua a questo proposito. Nella I satira egli passa in rapida rassegna la corruzione presente in Roma. Davanti a tanta depravazione e perversione non può rimanere indifferente e decide di scendere nell'agone poetico, per denunciare il vizio dilagante. Ma un dubbio l'assale: sarà in grado di scrivere versi all'altezza di un argomento così impegnativo e coinvolgente? Avrà la giusta ispirazione? Ed ecco la risposta:

Si natura negat, facit indignatio versum

Se la natura mi nega l'indole poetica, sarà l'indignazione a dettarmi i versi”

(Satire, I, 79)

Quindi Giovenale è convinto che l'assenza del talento (dote innata = ingenium) può essere compensata dall'indignatio, accompagnata nel suo caso da una sofisticata tecnica compositiva (= ars), dovuta ai suoi studi retorici. È questa, come abbiamo visto una terza interpretazione particolare del controverso rapporto tra ingenium ed ars, che Orazio affronterà in modo più impegnativo nell'Epistola ai Pisoni, la fondamentale Ars Poetica, oggetto di culto fino alle soglie del Romanticismo.

giovedì 8 dicembre 2022

Buon compleanno, Orazio!

Dalla “Vita di Orazio” scritta da Caio Svetonio Tranquillo:

Natus est VI Idus Decembris L. Cotta et L. Torquato consulibus, decessit V Kl. Decembris C. Marcio Censorino et C. Asinio Gallo consulibus post nonum et quinquagesimum diem quam Maecenas obierat, aetatis agens septimum et quinquagesimum annum...

“Nacque sei giorni prima delle Idi di Dicembre (= 8 dicembre) sotto il consolato di Lucio Cotta e Lucio Torquato (= 65 a. C.), morì cinque giorni prima delle Calende di Dicembre (= 27 novembre) sotto il consolato di Caio Marzio Censorino e Caio Asinio Gallo (= 8 a. C.), cinquantanove giorni dopo la morte di Mecenate, all'età di cinquantasette anni...”

Egli stesso aveva predetto che non sarebbe sopravvissuto lungo, qualora il caro amico Mecenate lo avesse preceduto nell'estremo viaggio della vita:

Ille dies utramque

ducet ruinam. Non ego perfidum
dixi sacramentum: ibimus, ibimus
utcumque praecedes, supremum
carpere iter comites parati.

“Quel giorno segnerà la fine di ambedue. Non ho pronunciato un giuramento ingannevole: in qualunque momento tu mi precederai, andremo, andremo insieme come buoni compagni, pronti ad incominciare il nostro ultimo viaggio” (Odi II, 17, 8 – 12).

martedì 6 dicembre 2022

Bacchanalia uiuere

Il titolo significa vivere in modo dissoluto, come chi partecipa ai Baccanali. In questo momento storico di sbandamento morale, in cui l'eccezione è diventata la regola e la depravazione e la perversione sono giustificate e imposte dal mainstream e dai poteri dominanti, seguendo l'esempio della dantesca Semiramide, che libito fe' licito in sua legge, / per torre il biasmo in che era condotta (Inferno, V, 56 – 57), sarebbe il caso di rileggere la seconda satira di un nauseato Giovenale, che bolla il vizio con parole di fuoco, mostrandosi inoltre di una sorprendente preveggenza. Ne cito solo i primi tre versi: a chi volesse leggere il seguito del testo e della mia traduzione, con annesso un mio articolato commento, mi permetto di consigliare il libro da me pubblicato nel 2015, intitolato “Ma li difende il numero”.

Vltra Sauromatas fugere hinc libet et glacialem
Oceanum, quotiens aliquid de moribus audent
qui Curios simulant et Bacchanalia uiuunt.

Avrei voglia di fuggire via da qui e andarmene al di là dei Sarmati e dell'Oceano glaciale, tutte le volte che osano pontificare sulla morale quelli che a parole si atteggiano a uomini austeri e virtuosi, mentre si abbandonano alle orge più sfrenate” (Giovenale, Satire, II, 1 – 3).


domenica 4 dicembre 2022

Buon compleanno, Persio!

Oggi, 4 dicembre, è l'anniversario della nascita del poeta satirico Aulo Persio Flacco, latino ma di antica origine etrusca. Era nato a Volterra nel 34 d. C. ed era morto per una grave patologia allo stomaco in una sua villa sull'Appia Antica, a otto miglia da Roma, nel 62 d. C. a ventotto anni non ancora compiuti: gli mancavano ancora dieci giorni.

Per celebrare degnamente il suo compleanno, voglio ricordare uno solo dei suoi tanti meriti: tra i cinque scrittori più eminenti vissuti durante il principato neroniano – Seneca, Lucano, Petronio, egli stesso e Silio Italico – Persio fu l'unico a non compromettersi con il truce potere tirannico allora dominante, evitando di frequentare la corte di Nerone.

Ed ecco un piccolo assaggio delle sue qualità poetiche, però non satiriche, ma puramente descrittive. In due versi e mezzo tratteggia con cura affettuosa un angolo intimo e incantevole, a lui molto caro:

Mihi nunc Ligus ora
intepet hibernatque meum mare, qua latus ingens
dant scopuli et multa litus se ualle receptat.

Adesso la spiaggia ligure mi offre il suo tepore e il mio mare trascorre l'inverno in tutta tranquillità, protetto dal baluardo di una massiccia scogliera, dove la costa si ritira in una profonda insenatura” (Satira VI, 6 – 8).

venerdì 25 novembre 2022

Orazio e la fuga del tempo

Se Orazio avesse scritto solo i diciassette Epòdi, sarebbe rimasto nell'ombra come uno dei tanti poeti latini minori, perché la loro composizione non ha dato un contributo determinante alla sua fama immortale. Però ce ne sono alcuni che, a mio parere, pur nei loro limiti non sfigurano a confronto con le opere maggiori, Uno di questi pochi è il tredicesimo. In esso troviamo un'anticipazione, ancora un po' sfocata, della concezione oraziana del tempo, che sarà presentata in maniera nitida e insuperabile nelle Odi I, 9 e 11 e nella IV epistola del primo libro. È assai probabile che questa poesia sia stata composta da Orazio subito dopo la battaglia di Filippi (42 a. C.) o subito dopo il suo ritorno in Italia, pur riferendosi a quello sfortunato avvenimento a cui partecipò in prima persona. Questo Epòdo ci presenta la stessa struttura, che ritroveremo nelle Odi dello stesso argomento: un esterno gelido o piovoso e ventoso, comunque minaccioso; un interno accogliente, confortato dal calore dell'amicizia e dal vino, che suggerisce sagge considerazioni sulla vita. A questo schema si aggiunge un riferimento mitologico, che non persegue alcun fine di estetismo, come nella poetica alessandrina, ma collabora all'impostazione sapienziale del disincantato moralismo oraziano.

Horrida tempestas caelum contraxit et imbres
nivesque deducunt Iovem; nunc mare, nunc siluae
Threicio Aquilone sonant. Rapiamus, amici,
occasionem de die dumque virent genua
et decet, obducta solvatur fronte senectus.
Tu vina Torquato move consule pressa meo.
Cetera mitte loqui: deus haec fortasse benigna
reducet in sedem vice. Nunc et Achaemenio
perfundi nardo iuvat et fide Cyllenea
levare diris pectora sollicitudinibus,
nobilis ut grandi cecinit Centaurus alumno:
“Invicte, mortalis dea nate puer Thetide,
te manet Assaraci tellus, quam frigida parvi
findunt Scamandri flumina lubricus et Simois,
unde tibi reditum certo subtemine Parcae
rupere, nec mater domum caerula te revehet.
Illic omne malum vino cantuque levato,
deformis aegrimoniae dulcibus adloquiis.”

Una paurosa tempesta ha contratto il cielo e le piogge e le nevi lo riversano sulla terra; ora il mare, ora i boschi risuonano sotto il soffio dell'Aquilone trace; amici, strappiamo al giorno l'occasione che ci porge e, finché la gioventù rende salde le ginocchia e non è sconveniente, sparisca dalla nostra fronte l'ombra della vecchiaia. Tu, metti mano al vino che fu preparato al tempo del mio console Torquato. Non dire altro: forse un dio, a sua volta, rimetterà le cose a posto, rendendole a noi favorevoli. Ora è bello spalmarsi di nardo persiano e alleggerire i cuori delle meste preoccupazioni con la lira del dio di Cillene, come cantò il nobile Centauro al grande alunno: “O invincibile mortale, figlio della dea Teti, ti attende la terra di Assaraco, che attraversano le fredde acque del piccolo Scamandro e il Simoenta che scorre veloce, da dove le Parche ti hanno troncato il ritorno nel loro filo infallibile, né la tua madre cerulea potrà ricondurti a casa. Lì allevierai ogni angoscia con il vino e con il canto, dolci conforti dell'avvilente tristezza”.


sabato 19 novembre 2022

Due poeti latini

Il primo poeta latino, che ha suscitato potenti emozioni nel mio animo, è stato Tito Lucrezio Caro, quando ero ancora diciottenne nell'ultimo anno del Liceo classico. Ho detto “potenti emozioni”, perché prima di lui mi erano piaciuti, ma senza grandi entusiasmi, anche Catullo, Tibullo e Virgilio, mentre Orazio merita un discorso a parte.

Per tanti anni non ho osato approfondire lo studio di Lucrezio, perché lo consideravo un oggetto di venerazione e mi sarebbe sembrato di fargli un torto, di menomarlo in qualche modo, visto che nel corso di laurea in Lettere antiche, tranne l'intera Eneide di Virgilio, quattro opere di Seneca e il primo libro degli Annali di Tacito, i programmi di quegli anni non mi hanno offerto l'opportunità di affrontare la lettura di nessun altro dei grandi classici latini, tanto meno di Lucrezio, ma solo i frammenti dell'Atellana, dei mimografi, degli “Annales” di Ennio (una piacevole sorpresa!), il poemetto pseudovirgiliano Aetna e scritti minori di questo tipo. Perciò mi accontentavo di rimasticare quanto appreso in III Liceo tramite la lettura diretta dei suoi versi nella pregevole antologia lucreziana di Luciano Perelli, che tuttora conservo gelosamente in discrete condizioni. L'unica cosa che mi concessi fu di acquistare il saggio critico dello stesso Perelli: “Lucrezio poeta dell'angoscia”, per sviscerare meglio la sua suggestiva interpretazione lucreziana, ma senza voler aggiungerci nulla di mio. Poi con il passar del tempo ho cominciato a leggere – con grande fatica ma con altrettanto piacere – il testo integrale del “De rerum natura”, accompagnando la lettura con tante altre opere critiche e rendendomi conto che al povero Lucrezio ogni studioso faceva dire una cosa diversa e che veniva stiracchiato e distorto in ogni direzione, ora come un fiero ateo e materialista, ora come un inconsapevole cercatore di Dio, ora come un grigio e pedissequo discepolo di Epicuro senza alcuna originalità, ora come un fanatico ecologista, ora come un inguaribile nevrotico o addirittura psicotico, ora... Per non parlare di chi si è appropriato del suo pensiero, presentandone una ridicola traduzione in italiano senza neppure conoscere il latino, attirandosi addosso l'ovvia reminiscenza foscoliana, relativa a Vincenzo Monti, definito beffardamente “gran traduttor dei traduttor d'Omero”.

Dopo tanti anni di studio e d'insegnamento finalmente mi sono deciso a dire la mia, dedicandogli due libri: “Lucrezio e il canto del nulla” nel 2018 e “Al di là di Lucrezio” nel 2020. Se la mia età non più verde me lo consentirà, vorrei scrivere su di lui una terza opera, perché ogni tesi e ogni sua antitesi richiedono una sintesi, che le superi e le risolva in una più alta e più comprensiva unità.

E passiamo a Quinto Orazio Flacco.

Quando lessi una scelta delle sue opere in II Liceo, non mi fece un grande effetto, perché lo trovai troppo ostico. La “curiosa felicitas” (= l'accurata ricerca del vocabolo più calzante) di petroniana memoria e la studiata collocazione delle parole, strategicamente funzionale a una più soddisfacente espressività, non potevano non provocare grandi difficoltà a uno studente liceale, anche se studioso come ero io, ma ancora poco più che digiuno di sofisticate nozioni stilistiche. Dovevano passare tanti anni e tante vicende (l'università, la bufera del '68, il servizio militare, la ripresa degli studi universitari interrotti, la laurea, le prime esperienze didattiche), prima che io fossi in grado di riprendere in mano Orazio con cognizione di causa e lo considerassi un amico, con cui confrontarmi e intrattenermi a colloquio. Così nel 1977 scrissi la mia prima opera su Orazio, che non pubblicai, ma che fu apprezzata dai pochi a cui la feci leggere: la traduzione in versi delle venti epistole del I libro (alcune in endecasillabi sciolti, altre in terza rima), precedute da un'introduzione e dalla “Vita di Orazio” scritta da Svetonio. Quest'opera – come detto, mai pubblicata – mi è molto cara, perché è l'unica mia, oltre alla tesi di laurea, che mio padre lesse e apprezzò, non essendo vissuto tanto da poter conoscere i miei romanzi e i miei saggi letterari. Però nel 2014 scelsi le dieci epistole, che ritenevo tradotte meglio, ampliai l'introduzione, aggiunsi due brevi capitoli su altri aspetti della personalità oraziana e integrai il tutto con un epilogo, contenente un brano tratto dalla seconda epistola del II libro. Quindi pubblicai la nuova opera con il titolo “Tanti saluti da Orazio” sotto forma esclusiva di ebook, riservando solo per me un certo numero di copie cartacee, che in parte distribuii a parenti e amici, in piccola parte tenni per me.

Qualcuno potrebbe chiedermi: perché concentrarsi solo sulle Epistole?

Perché le ritengo il capolavoro oraziano. Numerose sue Odi sono bellissime e ne sono entusiasta; le Satire hanno attribuito a Orazio la fama nei secoli – non dimentichiamo che Dante lo presenta come “Orazio satiro” –, ma io apprezzo tantissimo le satire I, V, VI, IX del primo libro, la II, la VI (la più bella in assoluto) e l'VIII del secondo: delle altre alcune sono molto importanti per la storia del suo pensiero, altre sinceramente mi lasciano indifferente.

Comunque su Orazio ho pubblicato nel 2017 un secondo libro: “Orazio. Una via per la saggezza”, in cui prendo in esame la sua vita e tutta la sua produzione poetica, presentando un'ampia scelta delle sue poesie da me tradotte, compresi numerosi brani dell'Epistola ai Pisoni, altrimenti detta “Ars Poetica”.

mercoledì 2 novembre 2022

Una palestra per il cuore e per la mente



Novembre è il mese dei defunti. A maggior ragione se tuo padre e tua madre sono morti rispettivamente un 9 e un 25 novembre. Tanto più se sei un cultore di latino e greco e hai passato tante ore, anzi tanti giorni, mesi e anni con i grandi spiriti del passato: Omero, Erodoto, Eschilo, Platone, Cicerone, Lucrezio, Orazio, Seneca... È un po' come farli resuscitare temporaneamente, come essere il medium in una seduta spiritica, in cui interroghi i padri antichi sui temi fondamentali dell'esistenza. E così tramite loro hai parlato della vita e della morte, dell'amore e dell'odio, del giusto e dell'ingiusto, del piacere e del dolore, del bene e del male... A chi? A chi nella quasi totalità dei casi non era in grado di sentirti, perché sordo moralmente e spiritualmente. Tutto fiato sprecato, tutte parole perdute nel nulla.

Eccomi, Omero e Lucrezio, torno – ora solo – da voi.

 

giovedì 27 ottobre 2022

Sulle orme di Telemaco

I primi quattro libri dell'Odissea costituiscono la cosiddetta Telemachia, perché presentano i viaggi di Telemaco impegnato a raccogliere notizie del padre Ulisse, assente da Itaca ormai da troppo tempo. La ricerca della figura paterna, sia materialmente, come in questo caso, sia soltanto nel ricordo, non è infrequente nel campo letterario: basti pensare al nostalgico e riconoscente elogio del padre, fatto da Orazio nella VI satira del I libro.
Esistono, però, anche delle situazioni in cui se ne cerca un surrogato in qualcuno che abbia svolto un ruolo fondamentale nella propria vita, come un maestro spirituale, capace di forgiare il carattere e la mente dell'allievo. Si può forse non pensare al XV canto dell'Inferno, in cui Dante presenta Brunetto Latini con affetto (“la cara e buona immagine paterna”) e gratitudine (“m'insegnavate come l'uom s'etterna”)?
Vorrei presentare due casi vagamente analoghi tratti dalla Letteratura latina: si tratta di due poeti entrambi interessati alla filosofia, pur se in ambiti diversi. Il primo è l'epicureo Tito Lucrezio Caro, che nel suo poema De rerum natura più volte elogia il suo maestro Epicuro. È un maestro che egli non ha mai conosciuto di persona (li separano circa due secoli e mezzo), ma che egli nel suo fervore di adepto entusiasta arriva a qualificare con l'appellativo di “padre”:

“Tu ci sei padre, scopritore della realtà delle cose, tu ci fornisci insegnamenti paterni, e come le api sulle colline vanno succhiando tutti i fiori, allo stesso modo, o uomo illustre, noi dai tuoi scritti ci nutriamo degli aurei princìpi della tua dottrina, aurei e sempre degnissimi di sopravvivere per l'eternità”.
( Lucrezio, De rerum natura, III, 9 – 13)

Ignoriamo la biografia di Lucrezio, quindi non sappiamo se o per quanto tempo abbia conosciuto suo padre: perciò niente può autorizzarci a congetturare che l'identificazione di Epicuro con la figura paterna sia stata determinata dalla necessità di colmare un'eventuale carenza affettiva, dovuta alla mancanza del padre.
Molto diverso e dai contorni più netti è il caso del secondo poeta, lo stoico Aulo Persio Flacco. Come ci informa il suo biografo, egli rimase orfano di padre per ben due volte: gli morì il padre naturale a sei anni, ma anche il successivo patrigno. È comprensibile, dunque, che, al di là dell'apprezzamento culturale, il giovane Persio si sia sentito spinto a stringere un legame affettuoso con il suo maestro di filosofia stoica Lucio Anneo Cornuto, tanto più che i due condivisero per lungo tempo le lunghe ore dello studio e le brevi pause per ristorare il corpo e lo spirito. Egli ne parla così:

“Ora la Musa mi suggerisce di offrirti il mio cuore da scrutare e mi piace mostrarti, o dolce amico Cornuto, quanto la tua anima sia parte della mia. Mettila alla prova, tu che dal suono sei in grado di distinguere se dietro a un intonaco dipinto, simile a un linguaggio forbito, ci sia il vuoto o lo spessore di un muro. Adesso io oserei chiedere cento gole, per proclamare con accenti sinceri quanto ti abbia accolto nel profondo del petto, e affinché le mie parole esprimano tutto ciò che d'inesprimibile è racchiuso nell'intimo del mio cuore.
Non appena la toga pretesta orlata di porpora cessò di proteggere la mia timorosa innocenza e appesi il ciondolo fanciullesco, offrendolo ai Lari succinti, quando i miei compagni accondiscendenti e la bianca toga ben piegata finalmente mi permisero di girare liberamente lo sguardo in tutta la Suburra, nel momento in cui il cammino futuro ci appare incerto e l'ignorare il sentiero della vita conduce gli animi trepidanti davanti agli incroci di strade diverse, mi sono affidato alla tua guida. Tu, o Cornuto, accogli i giovinetti sul tuo petto socratico. Allora il regolo ben usato – capace di correggere senza darlo a vedere – raddrizza i costumi distorti. L'animo è sottomesso dalla ragione e s'impegna ad esserne vinto e sotto l'azione del tuo pollice viene modellato a regola d'arte. Infatti mi ricordo che insieme a te trascorrevo lunghe giornate e impiegavo le prime ore della notte a cenare con te. Entrambi dedichiamo lo stesso tempo in ugual misura al lavoro e al riposo e ci rilassiamo dall'impegno dello studio con un pasto frugale. E davvero non potresti dubitare che le vite di entrambi si accordino tra loro secondo una norma precisa e che siano guidate da un'identica costellazione”.
(Persio, Satire, V, 21 – 46)

Anche oggi, a distanza di circa venti secoli, quale insegnante non toccherebbe il cielo con un dito nel sentire un allievo rivolgergli simili attestazioni di stima e di riconoscenza?

venerdì 14 ottobre 2022

Il primo amore

Tra le tante immagini femminili, di cui Orazio volta per volta si mostra invaghito nelle sue Odi, sarebbe un vano tentativo provare a individuare il suo primo amore, o, se preferiamo, il primo oggetto del suo desiderio erotico. Ho corretto la parola amore, perché essa presuppone uno slancio appassionato, che va al di là della pura sensualità e del malizioso e allusivo gioco intellettuale, a cui è riducibile il rapporto di Orazio con le donne “amate” cantate nelle sue poesie. L'ho definito un vano tentativo, perché il “primo amore” dovrebbe essere collocabile nella sua prima giovinezza, anteriormente all'attività poetica o, almeno, alla composizione delle Odi. E quindi il campo si restringe a un solo nome: Cìnara, l'unica ragazza cantata dal poeta non durante la relazione sentimentale in atto, come le altre donne presentate nelle Odi, ma evocata negli anni pensosi della sua maturità come oggetto di una dolente nostalgia, di un rimpianto così cocente da farmi pensare che questa volta – sì – potrei permettermi di usare la parola “amore”.
Cìnara, come i nomi di tutte le altre donne oraziane, è uno pseudonimo, o – meglio – un nome parlante, scelto apposta dal poeta per indicare una particolarità, che caratterizza e distingue ogni singola immagine muliebre. Sono tutti nomi derivati dal greco, di cui presento alcuni esempi: Cloe = erba tenera e verde, per indicare l'età giovane della fanciulla; Lalage = la chiacchierina; Leuconoe = animo candido, cioè una ragazza dall'animo semplice e ingenuo; Fidile = la risparmiatrice; Glicera = la dolce; etc.
Anche Cìnara è un nome parlante, perché in latino cinara significa carciofo, l'ortaggio dalle foglie spinose, che avvolgono un interno tenero e commestibile. Si tratta, quindi, di una metafora, per indicare una giovane che nascondeva un cuore sensibile e dolce sotto un atteggiamento esteriore spigoloso e scontroso. La lettura dei versi dedicati a lei da Orazio chiarirà ogni dubbio in proposito. I due brani più antichi appartengono al I libro delle Epistole, pubblicato nel 20 a. C. Nel primo il poeta si rivolge a Mecenate, per giustificare la sua frequente assenza da Roma a favore della residenza in Sabina, nella villetta donatagli nel 33 a. C. dallo stesso ministro di Ottaviano:

Che se pretendi che io non mi allontani mai da te, restituiscimi il corpo robusto, i capelli neri che mi nascondevano parte della fronte, restituiscimi le paroline dolci, le risate garbate e l'amarezza per aver visto quella sfacciata di Cìnara piantarmi in asso tra una bevuta e l'altra (Epistole, I, 7, vv. 26 – 28).

Nel secondo, indirizzato al fattore del suo podere, che smania di trasferirsi in città, spiega perché ami tanto ritirarsi in campagna, trascurando i presunti agi e divertimenti offerti da Roma:

A me, che un tempo mi pavoneggiavo per le mie toghe raffinate e i capelli impomatati, che iniziavo a bere limpido Falerno fin da mezzogiorno e che – lo sai bene – piacqui all'avida Cìnara senza farle un regalo, adesso basta una cena frugale e farmi un sonno sull'erba vicino a un ruscello (Epistole, I, 14, vv. 32 – 35).

Gli altri due brani, invece, fanno parte del IV libro delle Odi, pubblicato nel 13 a. C.:

Dopo una lunga tregua, o Venere, mi fai di nuovo guerra? Ti prego, ti prego, risparmiami! Non sono più quello che ero sotto il regno della buona Cìnara (Odi, IV, 1, vv. 1 – 4).

Nel secondo rinfaccia la vecchiaia e la bellezza sfiorita a una sua ex fiamma, Lice, che aveva preso il posto di Cìnara, morta prematuramente:

Dove è finito il tuo fascino, ohimè, dove il tuo colorito, dove il tuo portamento aggraziato? Che cosa mantieni ancora di quella, di quella che irradiava amore, che mi aveva strappato a me stesso, tu, trionfante dopo Cìnara, tu rinomata e immagine di ogni seduzione? Ma i fati concessero a Cìnara una breve vita... (Odi, IV, 13, vv. 17 – 23).

Solo chi non conosce veramente Orazio, o non ha avuto la capacità e la pazienza di penetrare nel suo animo, può credere ed affermare che abbia avuto un cuore arido e che non abbia mai amato sul serio alcuna donna. Il fantasma di Cìnara, evocato nostalgicamente nei suoi versi, è qui a dimostrarci il contrario.

sabato 1 ottobre 2022

Le fitte del rimorso

La seconda fase della poetica giovenaliana è caratterizzata da un'approfondita ricerca dell'interiorità, che, come ho già chiarito nei miei precedenti studi sul satirico aquinate (specialmente: “Quindi l'ira e le lacrime”, Youcanprint 2015), non ha niente a che vedere con lo spocchioso e maligno riso democriteo, il cui esempio Giovenale avrebbe seguìto – a detta di quasi tutti i critici – negli ultimi libri delle sue Satire. Tale ricerca è il filo logico che si snoda attraverso il IV e il V libro e raggiunge i suoi risultati più convincenti nelle satire X, XIII e XV. Nella X, la seconda per lunghezza di tutta la raccolta, i versi finali (346 – 366) presentano spunti notevolissimi di riflessione sull'essenza del divino, sul rapporto tra gli dei e gli uomini e sul modo più appropriato con cui affrontare la vita; nella XV, partendo dal commosso elogio del dono delle lacrime, fattoci dalla natura, il poeta giunge a un suo personale concetto di humanitas, che si ricollega a quello di Terenzio, ma lo perfeziona, introducendovi una maggiore e più persuasiva dose di empatia.

Tutta questa premessa ha il fine di presentare l'esordio della XIII satira (vv. 1 – 3), una palese testimonianza di quanto Giovenale stia scandagliando l'animo umano nella seconda fase della sua produzione poetica:


Exemplo quodcumque malo committitur, ipsi
displicet auctori. Prima est haec ultio, quod se
iudice nemo nocens absolvitur...

Qualunque azione, che possa valere da cattivo esempio, si ritorce contro lo stesso autore: questa è la prima punizione, perché nessun colpevole viene assolto, quando a giudicarlo è la sua coscienza...


Con il suo inconfondibile stile di incisiva eloquenza Giovenale definisce una volta per tutte la natura del rimorso. Rileggiamo le sue parole: “qualunque azione, che possa valere da cattivo esempio”. Notate bene: “qualunque”. Non bisogna pensare ai peggiori crimini, come uccidere, stuprare, rubare... no: “qualunque azione che possa valere da cattivo esempio”. Per esempio, la menzogna, la mancanza di rispetto, l'ingratitudine, qualunque azione, cioè, che danneggi o faccia soffrire un'altra persona; ma pure una non azione, perché anche omettere o non voler fare ciò che si potrebbe e si dovrebbe risulta alla fine un'espressione di malevolenza nei confronti di chi si aspettava quell'azione e ci contava. Il giudizio della propria coscienza è implacabile e tormenta nell'intimo l'individuo, sebbene non voglia ammetterlo apertamente.

Un'ulteriore dimostrazione di quanto sia utile e formativa la lettura di Giovenale.

domenica 25 settembre 2022

Oggi è il compleanno...

 … di mio padre, nato il 25 settembre di 107 anni fa. Più passano gli anni... anzi, diciamo le cose come stanno, senza giri di parole e banali eufemismi: più invecchio e più mi capita di pensare a lui, venuto a mancare troppo presto, il 9 novembre 1981, quando aveva 66 anni. Può sembrare strano che un vecchio, id est (= cioè) io, senta la mancanza della guida e dell'autorevolezza di una persona che, quando è scomparsa, aveva nove anni meno della mia attuale età, idonea a farmi acquistare un bagaglio di conoscenze e di esperienze superiore al suo. Eppure in alcuni momenti di incertezza e di dubbio, in cui non mi è chiara la strada da seguire o la scelta del comportamento nei riguardi di certe persone, rimpiango la sua presenza, sento che lui avrebbe saputo consigliarmi saggiamente, amorevolmente, senza secondi fini, preoccupandosi solo del mio bene.

Ricordo che nell'estate del 1961, fresco di Licenza media e in attesa di iniziare la nuova avventura scolastica della IV Ginnasio, mio padre m'insegnò l'alfabeto greco e la pronuncia delle parole greche, per rendermi più agevole l'impatto con lo studio di una nuova lingua assai complessa (nella Scuola media avevo già studiato il latino per tre anni con successo e soddisfazione). Quindi mi prestò un prezioso volumetto, che conteneva il testo greco originale dei quattro Vangeli, in modo che potessi esercitarmi nella lettura ad alta voce, finché non diventasse sciolta e spontanea. Certo, allora non ero in grado di decifrare ciò che leggevo, però di quel libretto, vecchio e malridotto per il lungo uso, tanti anni dopo trovai “casualmente” (ma io non ho mai creduto al caso...) un esemplare identico e in ottime condizioni su una bancarella e mi affrettai ad acquistarlo. Fa ancora parte della mia amata collezione di Classici latini e greci e non è raro che mi capiti di sfogliarlo, per soffermarmi a riflettere su qualche brano significativo. Non vorrei che quanto ho scritto finora facesse credere che io non senta parimenti la mancanza di mia madre, morta molto più tardi alla veneranda età di 93 anni. Assolutamente no. Anzi, per concludere, trascrivo e sottoscrivo i seguenti versi di Orazio (Satire I, 6, vv. 93 – 97):

si natura iuberet

a certis annis aevum remeare peractum

atque alios legere, ad fastum quoscumque parentes

optaret sibi quisque, meis contentus honestos

fascibus et sellis nollem mihi sumere...


se la natura ci costringesse a rivivere il tempo trascorso a partire da una determinata età e a sceglierci altri genitori, quelli che ciascuno desiderasse per soddisfare il proprio orgoglio, io, ben contento dei miei, non vorrei averne altri, anche se resi onorevoli dai fasci dei littori e dai seggi curuli...

domenica 4 settembre 2022

Oggi è il compleanno...

... del carissimo figlio Diego, a cui auguro un mondo di bene e tanta felicità.

Buon compleanno!




 

domenica 28 agosto 2022

Libertate opus est

 C'è bisogno di libertà.” Questa affermazione del poeta latino Aulo Persio Flacco (Satire, V, 73) è risuonata infinite volte, anche se in forme diverse, nel corso dei secoli prima e dopo di lui. Però sono convinto che tutti coloro che, in un modo o nell'altro, hanno invocato la libertà come un bene supremo, non siano stati né siano d'accordo sulla sua reale essenza e, perciò, essa venga trattata come un recipiente vuoto, suscettibile di essere riempito con qualsivoglia contenuto. Sforzarsi di definire il concetto di libertà vuol dire inoltrarsi in un campo minato. Infatti, o ci si accontenta di declamare formulette ad effetto, suggestive ma inconcludenti, come: “La mia libertà finisce dove comincia la tua”, in cui, oltre a non precisare che cosa sia la libertà in sé e per sé (lo si dà per scontato), si introduce un rapporto di reciprocità o – meglio – di circolarità, che in chiave logica produce lo stesso effetto di un cane che si morde la coda; oppure la si contestualizza e, quindi, la si storicizza, con il risultato di ottenere tanti diversi concetti di libertà nei diversi tempi, nelle diverse realtà sociali, nelle diverse menti di chi si è dedicato alla sua teorizzazione. E dunque? Seguiteremo a parlare di libertà, senza avere prima compreso di che cosa stiamo parlando?

Nello stato di natura non esiste la libertà, perché vige la legge del più forte: pesce grande mangia pesce piccolo, il leone divora il cerbiatto e non viceversa, ma questo anche tra gli uomini, finché regna il principio homo homini lupus (= l'uomo è un lupo per l'uomo).

La libertà riguarda gli esseri umani non appena si afferma e si accetta il rispetto della dignità propria ed altrui, che possiamo rintracciare nella philanthropìa greca e nell'humanitas latina, predicata con diverse valenze dal commediografo Terenzio, dall'oratore/filosofo Cicerone, dal poeta satirico Giovenale. Mi aspetto che qualche ipercritico arricci il naso e con tono supponente esclami: “Che senso ha, parlando di libertà, introdurre nel discorso gli scrittori latini, dato che – e lo dice sogghignando compiaciuto – la società romana era fondata sullo schiavismo?”

Nessuno vuol negare che nell'antica Grecia e nell'antica Roma ci fosse la schiavitù, ma quella romana andrebbe conosciuta meglio.

Premesso che ogni forma di schiavitù è una realtà negativa e che anche a Roma molti padroni si comportavano in maniera disumana – basti pensare all'illustre Catone il Censore, che nella sua grettezza concedeva ai suoi servi il minimo indispensabile, e forse anche meno, per alimentarsi e ripararsi dal freddo –, in altre case gli schiavi erano trattati bene, i più meritevoli diventavano confidenti e consiglieri dei padroni e spesso venivano liberati, acquistando la condizione di liberti. Questo capitò a Livio Andronico, che ricoprì un ruolo di primo piano nella cultura letteraria della Roma arcaica, tanto che l'inizio ufficiale della Letteratura latina viene fatto coincidere con la rappresentazione pubblica (240 a. C.) di una sua opera teatrale; questo capitò al commediografo Terenzio, diventato un personaggio di primo piano del Circolo degli Scipioni; questo capitò ad Anneo Cornuto, filosofo di grande fama nel I secolo d. C. e maestro di Persio e di Lucano; fu meno fortunato di loro il favolista Fedro, che comunque per le sue doti culturali indusse Augusto ad affrancarlo e a farne un liberto. Per non parlare di Orazio, che, pur essendo figlio di un ex schiavo, si conquistò la stima e l'amicizia dell'imperatore Augusto e del suo ministro per la cultura Mecenate.

Conosciamo bene le convinzioni del filosofo Seneca sulla schiavitù, affidate principalmente a una famosa lettera (V, 47) delle Epistulae morales ad Lucilium:

...'Servi sunt.' Immo homines. 'Servi sunt.' Immo contubernales. 'Servi sunt.' Immo humiles amici. 'Servi sunt.' Immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunae. Itaque rideo istos qui turpe existimant cum servo suo cenare...

'Sono servi.' O meglio: uomini. 'Sono servi.' O meglio: compagni di tenda. 'Sono servi.' O meglio: umili amici. 'Sono servi.' O meglio: compagni di schiavitù, se penserai che la sorte ha un uguale potere nei riguardi degli uni e degli altri. Perciò mi fanno ridere quelli che ritengono una cosa vergognosa cenare con il proprio servo...

Tuttavia, vorrei chiamare in causa un altro grande autore latino, da cui – non tutti sono d'accordo, ma... tanto peggio per loro – specialmente in questi tempi di confusione mentale abbiamo ancora molto da imparare: alludo a Decimo Giunio Giovenale.

Nella satira VI (vv. 219 – 223) c'è un drammatico battibecco tra moglie e marito sulla punizione di uno schiavo. La donna, infuriata, ne pretende addirittura la morte:

Fa' crocifiggere questo schiavo!”

<Per quale colpa ha meritato un tale supplizio? C'è un testimone? Chi l'ha denunciato? Ascolta: nessuna esitazione è mai troppo lunga, quando si tratta della morte di un uomo.>

Sciocco! E così uno schiavo sarebbe un uomo? Ammettiamo pure che non abbia fatto nulla: ma io lo pretendo, te lo ordino, la mia volontà è un motivo più che sufficiente.”

Ma le sofferenze degli schiavi non dipendono solo dal malumore di una donna, che vuole dimostrare al marito chi comanda in casa, spesso è lo stesso padrone a incrudelire su di essi (Satira XIV, 15 – 22):

Uno come Rutilio può forse insegnare [ai figli] la mitezza d'animo o un comportamento comprensivo nei confronti di errori veniali, e che le anime e i corpi dei servi risultano costituiti dalla stessa sostanza e dagli stessi elementi di quelli nostri, lui che gode dell'orribile rumore delle frustate e che non apprezza il canto delle Sirene più degli schiocchi delle sferzate, vero Antifate e Polifemo della sua casa in preda al terrore, lui che è veramente felice solo quando, chiamato il carnefice, fa marchiare a fuoco qualcuno con un ferro rovente per colpa di due tovaglioli?

Di tenore ben diverso è il seguente brano (Satira XI, 145 – 160), in cui Giovenale, invitando a cena un amico, presenta i suoi giovani schiavi con un'affettuosa simpatia che sconfina nell'empatia:

Uno schiavetto dall'aspetto trascurato, ma ben coperto contro il freddo, ti porgerà delle tazze dozzinali e pagate quattro soldi. Non ho schiavi della Frigia o della Licia né acquistati da un mercante. Ma è questo quello che conta: quando gli chiederai qualche cosa, chiedigliela in latino. Sono tutti vestiti allo stesso modo, hanno i capelli corti e dritti e soltanto oggi pettinati a motivo del banchetto. Questo è figlio di un rozzo pastore, quello di un bovaro; è triste, perché gli manca la madre che non vede da molto tempo, e ha nostalgia della sua casetta e dei suoi cari capretti, lui che ha i lineamenti e il pudore di un ragazzo libero, come dovrebbero essere quelli che indossano la fiammeggiante porpora, né con la sua voce ancora incerta mette in mostra nei bagni testicoli grandi come un pugno, né si è mai fatto depilare le ascelle, né per la vergogna nasconde dietro l'ampolla dell'olio il membro troppo grosso. Egli ti verserà un vino prodotto su quegli stessi monti da cui proviene, sotto le cui cime ha giocato da bambino.

Terminata questa digressione sullo “schiavismo” romano, puramente indicativa nella sua frettolosità, è tempo di tornare alla frase di Persio, da me usata come titolo. La libertà di cui avverte il bisogno il satirico volterrano, non è quella derivante da un freddo e formale atto burocratico/giuridico, come l'affrancamento di uno schiavo e la sua trasformazione in liberto, ma qualche cosa di ben più profondo, che fa capo a una scelta morale.

C'è bisogno di libertà. Ma non di quella per cui, qualunque Publio della tribù Velina abbia concluso il servizio militare, poi riceve farro ammuffito grazie alla sua tesserina annonaria. Ahimè! Quanto ignorano la verità quelli convinti che la sola giravolta su se stesso basti a trasformare qualcuno in un cittadino romano (Satira V, 73 – 76).

Persio cita due esempi di libertà burocratico/politica: il caso di un veterano che dopo il congedo può servirsi di una tessera annonaria, che gli permette di ricevere gratuitamente, o a prezzo di favore, del farro di qualità scadente; l'allusione alla cerimonia di affrancamento di uno schiavo: davanti al pretore il padrone toccava lo schiavo con una verga, pronunciava la formula prescritta (= voglio che questo uomo sia libero), lo prendeva per mano e lo faceva girare su se stesso. Quindi il pretore lo dichiarava libero.

Secondo Persio, invece, la vera libertà è quella dalle passioni, dagli istinti, dai condizionamenti egoistici, dai pregiudizi (inculcati nell'animo dalle nonne: V, 92). Nei versi 132 – 153 della stessa satira egli si sofferma a denunciare l'influenza nefasta esercitata sull'animo umano dall'Avaritia (= avidità) e dalla Luxuria (= lussuria, amore dei piaceri e della mollezza), due tendenze viziose in contrasto tra loro (= o si accumulano soldi o li si sperperano per darsi alla bella vita), che vengono vivacemente personificate, mentre provocano un conflitto interiore nel cuore della loro vittima.

Nell'età moderna e contemporanea, intendo dal XVIII secolo fino ai giorni nostri, al di là della retorica politica e patriottarda, della parola libertà si è fatto un grande uso ed abuso. Però essa nella maggioranza dei casi è stata ed è identificata nell'atteggiamento luciferino del non serviam (= non servirò!), ossia nel rifiuto orgoglioso della creatura di sottostare al Creatore, arrogandosi il diritto di stabilire soggettivamente in che cosa consistano il bene e il male, il giusto e l'ingiusto, il vero e il falso. Questo rifiuto è tanto più grave, in quanto ignora volutamente l'esplicito messaggio evangelico (Gv 8, 31 – 32):

Ἐὰν ὑμεῖς μείνητε ἐν τῷ λόγῳ τῷ ἐμῷ, ἀληθῶς μαθηταί μού ἐστε, καὶ γνώσεσθε τὴν ἀλήθειαν, καὶ ἡ ἀλήθεια ἐλευθερώσει ὑμᾶς.

Se rimarrete fedeli alle mie parole, sarete veramente miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi renderà liberi”.

Le conseguenze di un tale ostinato rifiuto sono sotto gli occhi di tutti.

domenica 7 agosto 2022

E il buio ti avvolgerà



Un libro da leggere contro

LA CANCEL CULTURE

IL GREAT RESET

IL TRANSUMANESIMO

E TUTTE LE PERVERSIONI DEL MOMENTO

in difesa dell'unica verità, che rende liberi.

Il romanzo è suddiviso in tre parti, ciascuna relativa a un periodo temporale diverso, ma la presenza di riprese concettuali e narrative da un lato e di richiami e riferimenti dall'altro permette al lettore di ricostruire e seguire un filo logico, che in definitiva risulta di sorprendente attualità. I finali delle tre parti costituiscono la cerniera, che salda i tre diversi episodi nella superiore unità di un discorso spirituale, alimentato dai testi di alcuni moralisti latini, dai princìpi fondamentali dello zoroastrismo e da quelli cristiani.

TITOLO: E il buio ti avvolgerà

AUTORE: Marcello Parsi

EDITORE: Youcanprint (piattaforma di self publishing)

STAMPA: Novembre 2021

PAGINE: 150

ISBN: 9791220371094

Sinossi dalla quarta di copertina:

Nel perpetuo scontro tra Bene e Male un tribuno romano, venuto in missione nella numida Cirta nel II secolo a.C., si schiera a fianco della principessa persiana Roxanes, paladina della luce contro le tenebre. Nel 2047 una misteriosa laureanda affianca il professor Simpar nella lotta contro le potenze malefiche, che vogliono soggiogare il mondo. Infine nel lontano 2316 una giovane iraniana convince un ignaro professore di un lontano pianeta a condividere la ribellione contro la perversa oligarchia, che ha ordito un oscuro complotto volto a stravolgere la vita umana sulla Terra. Un romanzo in tre parti, animate dallo stesso principio ispiratore, con personaggi dalle evidenti analogie le cui vicende presentano un inquietante finale simbolico. 

mercoledì 27 luglio 2022

I vecchi e i giovani

Leggere e rileggere i classici latini e greci fa bene allo spirito, perché ci permette di prendere le distanze dalla volgarità e dalla cafonaggine dei tempi moderni, magnifici e progressivi (?)... Per esempio, più andiamo indietro nel tempo e più ci rendiamo conto che l'eterno e ovvio contrasto tra vecchi e giovani non è stato sempre vissuto come un aspro scontro tra due mentalità incommensurabili, ma poteva anche essere sanato sulla base del rispetto. Leggiamo questi sette versi di Giovenale, tratti dalla XIII satira (vv. 53 – 59):

Inprobitas illo fuit admirabilis aeuo,
credebant quo grande nefas et morte piandum
si iuuenis uetulo non adsurrexerat et si
barbato cuicumque puer, licet ipse uideret
plura domi fraga et maiores glandis aceruos;
tam uenerabile erat praecedere quattuor annis
primaque par adeo sacrae lanugo senectae.

La sfacciataggine suscitava scalpore in quel tempo, in cui consideravano un grande delitto, e da doversi espiare con la morte, se un giovane non si era alzato in piedi davanti a un vecchio e se un ragazzetto non l'aveva fatto davanti a uno con appena un po' di barba, anche se a casa sua era abituato a vedere una maggiore quantità di fragole e mucchi di ghiande più grossi; tanto era degno di rispetto precedere qualcuno di soli quattro anni e fino a tal punto la prima lanugine era equiparabile alla veneranda vecchiaia.


Il rispetto di una persona anziana al giorno d'oggi è diventato un optional, un valore sorpassato, di cui non si cura più nessuno; sia che parli sia che taccia, viene ignorata: i giovani la trattano da pari a pari, infischiandosi altamente di tutto il bagaglio di esperienze che ha messo o vorrebbe mettere a loro disposizione. I vecchi sono noiosi, brontoloni, pronti al rimprovero, una realtà ammuffita un po' simile alle “buone cose di pessimo gusto” ricordate con ironia da Guido Gozzano nella poesia “L'amica di nonna Speranza”. Ma anche i giovani sono destinati a diventare vecchi e allora... 

Post in evidenza

Festìna lente

Questo motto latino, tuttora molto usato, significa: affréttati lentamente, e pare che fosse pronunciato spesso dall'imperatore Augusto,...